Il Contratto di distribuzione commerciale internazionale | 7 insegnamenti dalla storia di Nike

25 Febbraio 2023

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Riassunto

Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

Di cosa parlo in questo articolo: 

  • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
  • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
  • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
  • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
  • La durata del contratto di distribuzione all’estero
  • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
  • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
  • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
  • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
  • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

phil

Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

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Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

 Le modalità di risoluzione delle controversie

Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

Come possiamo aiutarti

La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 63 paesi: scrivici la tua esigenza.

 

Roberto Luzi Crivellini

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