Progetto Influencer Marketing

28 Maggio 2018

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La grande maggioranza dei contratti stipulati online tra imprese e consumatori viene ormai conclusa mediante la sottoscrizione online del contratto e il richiamo alle condizioni generali di vendita, predisposte unilateralmente dal venditore/fornitore di servizi e consultabili sul sito web. Altrettanto usualmente, tra le condizioni generali di vendita è presente una clausola di scelta della legge applicabile al contratto, solitamente a favore della legge del luogo dove l’impresa ha sede.

La Corte di Giustizia Europea con la pronuncia C‑191/15 (VKI contro Amazon EU, 28 luglio 2016) ha precisato i requisiti di validità di una clausola di scelta di legge inserita nelle condizioni generali di un contratto B2C (“Business to Consumer”) stipulato online. La sentenza ha avuto un impatto molto rilevante nella redazione delle condizioni generali di vendita o servizio, perché la mancanza dei requisiti imposti dalla Corte di Giustizia Europea produce l’invalidità della clausola e la sua inapplicabilità in un’eventuale vertenza. È il caso, quindi, di ripercorrere la decisione della Corte di Giustizia.

Il caso sottopostole riguardava un contratto stipulato proprio con questa modalità: Amazon EU – con sede in Lussemburgo – commercia con i suoi clienti austriaci attraverso il portale amazon.de e nelle condizioni generali di vendita aveva inserito la seguente clausola: «Si applica la legge lussemburghese con esclusione delle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite in materia di contratti di vendita internazionale di merci».

Su richiesta di un’associazione di consumatori, la Corte Suprema Austriaca ha chiesto alla Corte di Giustizia Europea di verificare se una simile clausola potesse essere considerata abusiva ai sensi dell’art. 3, par. 1, della direttiva 93/13 a tutela dei consumatori nei contratti stipulati con un professionista: “Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto”.

La Corte ha, in primo luogo, osservato che il diritto europeo consente in linea di principio che un imprenditore inserisca nelle sue condizioni generali una clausola di scelta di legge, anche quando essa non sia stata oggetto di trattativa individuale con il consumatore. A fronte di questa possibilità, il legislatore europeo (art. 6, par. 2, Regolamento Roma I) ha previsto un meccanismo di tutela per il consumatore, garantendogli in ogni caso il diritto a invocare le disposizioni imperative della legge dello Stato in cui egli risiede, indipendentemente dalla legge individuata nella clausola. Il consumatore, quindi, anche se non previsto dalla clausola, potrà utilizzare le disposizioni inderogabili dello Stato nel quale ha la residenza abituale se più favorevoli di quelle previste dalla legge scelta nelle condizioni generali.

La Corte Europea, però, ha anche considerato essenziale che il professionista informi il consumatore del suo diritto a invocare le disposizioni di legge imperative “interne”, per evitare che quest’ultimo – ignorando l’art. 6, par. 2 del Regolamento Roma I e facendo affidamento unicamente a quanto scritto nella clausola – sia dissuaso dall’agire in giudizio nei confronti dell’imprenditore.

Questa situazione, infatti, andrebbe a creare un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto, rendendo la clausola abusiva ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13.

Come dovrà quindi essere formulata una clausola di scelta di legge all’interno delle condizioni generali predisposte per un contratto B2C? La soluzione viene offerta dalla stessa Corte di Giustizia.

La clausola di scelta della legge applicabile dovrà informare il consumatore che egli può beneficiare anche della tutela consumeristica assicuratagli dalle disposizioni imperative della legge dello stato dove abitualmente risiede.

Sarà, al contrario, abusiva qualunque clausola che induca in errore il consumatore, dandogli l’impressione che al contratto si applichi soltanto la legge dello stato dove l’imprenditore/professionista ha sede.

Questa sentenza offre lo spunto per una considerazione più generale: le aziende e i professionisti che operano nel mercato e-commerce, specialmente nel settore B2C, devono prestare particolare attenzione agli sviluppi non solo della normativa interna ed europea, ma anche delle normative e delle interpretazioni giurisprudenziali nei paesi i cui risiedono i potenziali consumatori dei prodotti o servizi venduti, sia che si tratti di vendite sui canali tradizionali, sia online, al fine di evitare di predisporre dei contratti che si rivelino poco efficaci o, ancor peggio, controproducenti.

Tutte le considerazioni finora svolte non riguardano la competenza giurisdizionale e l’eventuale inserimento nel contratto di una clausola di scelta del foro competente, che nei contratti B2C è generalmente sconsigliabile. In ambito europeo, infatti, il Regolamento Bruxelles I bis accorda al consumatore una tutela molto forte, che gli dà quasi sempre la possibilità di proporre l’azione giudiziale nel luogo dove ha la sua residenza abituale (cd. Foro del consumatore), obbligando il professionista – indipendentemente da clausole con diverso contenuto – a fare lo stesso.

If 2017 was the year of Initial Coin Offerings, 2018 was the year of Blockchain awareness and testing all over the world. From ICO focused guidelines and regulations respectively aimed to alarm and protect investors, we have seen the shift, especially in Europe, to distributed ledger technology (“DLT”) focused guidelines and regulations aimed at protecting citizens on one hand and promote DLT implementations on the other.

Indeed, European Union Member States and the European Parliament started looking deeper into the technology by, for instance, calling for consultations with professionals in order to understand DLT’s potentials for real-world implementations and possible risks.

In this article I am aiming to give a brief snapshot of firstly what are the most notable European initiatives and moves towards promoting Blockchain implementation and secondly current challenges faced by European law makers when dealing with the regulation of distributed ledger technologies.

Europe

Let’s start from the European Blockchain Partnership (“EBP”), a statement made by 25 EU Member States acknowledging the importance of distributed ledger technology for society, in particular when it comes to interoperability, cyber security and efficiency of digital public services. The Partnership is not only an acknowledgement, it is also a commitment from all signatory states to collaborate to build what they envision will be a distributed ledger infrastructure for the delivering of cross-border public services.

Witness of the trust given to the technology is My Health My Data, a EU-backed project that uses DLT to enable patients to efficiently control their digitally recorded health data while securing it from the threat of data breaches. Benefits the EU saw in DLT on this specific project are safety, efficiency but most notably the opportunity that DLT offers data subject to have finally control over their own data, without the need for intermediaries.

Another important initiative proving European interests in testing DLT technologies is the Horizon Prize on “Blockchains for Social Good”, a 5 million Euros worth challenge open to innovators and tech companies to develop scalable, efficient and high-impact decentralized solutions to social innovation challenges.

Moving forward, in December last year, I had the honor to be part of the “ Workshop on Blockchains & Smart Contracts Legal and Regulatory Framework” in Paris, an initiative supported by the EU Blockchain Observatory and Forum (“EUBOF”), a pilot project initiated by the European Parliament. Earlier last year other three workshops were held, the aim of each was to collect knowledge on specific topics from an audience of leading DLT legal and technical professionals. With the knowledge collected, the EUBOF followed up with reports of what was discussed during the workshop and suggest a way forward.

Although not binding, these reports give a reasonably clear guideline to the industry on how existing laws at a European level apply to the technology, or at least should be interpreted, and highlight areas where new regulation is definitely needed. As an example let’s look at the Report on Blockchain & GDPR. If you missed it, the GDPR is the Regulation that protects Europeans personal data and it’s applicable to all companies globally, which are processing data from European citizens. The “right to erasure” embedded in the GDPR, doesn’t allow personal data to be stored on an immutable database, the data subject has to be able to erase data anytime when shared with a service provider and stored somewhere on a database. In the case of Blockchain, the consensus on personal data having to be stored off-chain is therefore unanimous. Storing personal data off-chain and leaving an hash to that data on-chain, is a viable solution if certain precautions are taken in order to avoid the risks of reversibility or linkability of such hash to the personal data stored off-chain, therefore making the hash on-chain personally identifiable information.

However, not all European laws apply to Member States, therefore making it hard to give a EU-wide answer to most DLT compliance challenges in Europe. Member States freedom to legislate is indeed only limited/influenced by two main instruments, Regulations, which are automatically enforceable in each Member State and Directives binding Member States to legislate on specific topics according to a set of specific rules.

Diverging national laws have a great effect on multiple aspects of innovative technologies. Let’s look for instance at the validity of “smart contracts”. When discussing the legal power of automatically enforceable digital contracts, the lack of a European wide legislation on contracts makes it impossible to find an answer applicable to all Member States. For instance, is “offer and acceptance” enough to constitute a contract? What is considered a valid “acceptance”? What is an “obligation”? “Can a digital asset be the object of a legally binding agreement”?

If we try to give a EU-wide answer to the questions such as smart contract validity and enforceability it is apparently not possible since we will need to consider 28 different answers. I, therefore, believe that the future of innovation in Europe will highly depend on the unification of laws.

An example of a unified law that has great benefits on innovation (including DLT) is the Electronic Identification and Trust Services (eIDAS) Regulation, which governs electronic identification including electronic signatures.

The race to regulating DLT in Europe

Let’s now look briefly at a couple of Member States legislations, specifically on Blockchain and cryptocurrencies last year.

EU Member States have been quite creative I would say in regulating the new technology. Let’s start from Malta, which saw a surprising increase of important projects and companies, such as Binance, landing on the beautiful Mediterranean Island thanks to its favorable (or at least felt as such) legislations on DLT. The “Blockchain Island” passed three laws in early July to regulate and supervise Blockchain projects including ICOs, crypto exchanges and DLT, specifically: The Innovative Technology Arrangements and Services Act regulation that aims at recognizing different technology arrangements such as DAOs, smart contracts and in future probably AI machines; The Virtual Financial Assets Act for ICOs and crypto exchanges; The Malta Digital Innovation Authority establishing a new supervisory authority.

Some think the Maltese legislation lacks a comprehensive framework, one that for instance, gives legal personality to Innovative Technology Arrangements. For this reason some are therefore accusing the Maltese lawmakers of rushing into an uncompleted regulatory framework in order to attract business to the island while others seem to positively welcome the laws as a good start for a European wide regulation on DLT and crypto assets.

In December 2018, Malta also initiated a declaration that was then signed by other six Members States, calling for collaboration for the promotion and implementation of DLT on a European level.

France was one of the signatories of such declaration, and it’s worth mentioning since the French Minister for the Economy and Finance approved in September a framework for regulating ICOs and therefore protecting investors’ rights, basically giving the AMF (French Authority for Financial Market) the empowerment to give licenses to companies wanting to raise funds through Initial Coin Offerings.

Last but not least comes Switzerland which although it is not a EU Member State, it has great degree of influence on European and national legislators when it comes to progressive regulations. At the end of December, the Swiss Federal Council released a report on DLT and the law, making a clear statement that the existing Swiss law is sufficient to regulate most matters related to DLT and Blockchain, although some adjustments have to be made. So no new laws but few amendments here and there, which will allow the integration of the specific DLT applications with existing laws in order to ensure legal certainty on certain uncovered matters. Relevant areas of Swiss law that will be amended include the transfer of rights utilizing digital registers, Anti Money Laundering rules specifically for decentralized trading platforms and bankruptcy when that proceeding involves crypto assets.

Conclusions

To summarize, from the approach taken during the past year, it is apparent that there is great interest in Europe to understand the potentials and to soon test implementations of distributed ledger technology. Lawmakers have also an understanding that the technology is in an infant state, it might involve risks, therefore making it complex to set specific rules or to give final answers on the alignment of certain technology applications with existing European or national laws.

To achieve European wide results, however, acknowledgments, guidelines and reports are not enough. The setting of standards for lawmakers applicable to all Member States or even unification of laws in crucial sectors influencing directly or indirectly new technologies, will be the only solution for any innovative technology to be adopted at a European level.

The author of this post is Alessandro Mazzi.

In questo post focalizziamo l’attenzione sull’approvazione online delle clausole vessatorie – spesso contenute nelle condizioni generali di vendita o di servizio – alla luce della legislazione italiana, al fine di verificare se sia valida la prassi di richiedere l’adesione del consumatore/cliente al contratto mediante point and click.

Le clausole vessatorie sono previste dall’art. 1341 del codice civile, che ne fornisce un elenco: “le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”. Lo stesso articolo, per la loro validità, richiede una specifica approvazione per iscritto, in mancanza della quale le clausole non hanno effetto.

Nel commercio elettronico la modalità tipica di conclusione dei contratti è quella del point and click, che consiste nello spuntare un box come approvazione delle condizioni contrattuali. Il Codice dell’amministrazione digitale (D.lgs. 82/2005, come modificato in ultimo dalla L. 147/2013), all’art. 21 comma 1, la equipara a una mera espressione della volontà contrattuale, sufficiente per concludere validamente un contratto, ma non sufficiente per integrare il requisito della “specifica approvazione per iscritto”, richiesto per le clausole vessatorie.

Al contrario, infatti, l’art. 21 comma 2 della stessa legge prevede che solo la firma digitale sia equiparata alla scrittura privata, e quindi possa costituire a tutti gli effetti una “approvazione per iscritto“.

Appare chiaro, dunque, che si possono sottoscrivere online delle clausole vessatorie unicamente mediante l’apposizione di una firma digitale. La dottrina italiana è concorde con questa interpretazione, mentre le pronunce si contano sulle dita di una mano: la più recente è del Tribunale di Catanzaro (30 aprile 2012) e si è espressa in questo senso, stabilendo che “con riguardo alle clausole vessatorie on line, l’opinione dottrinale prevalente – alla quale il Tribunale aderisce – ritiene che non sia sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale, ma sia necessaria la specifica sottoscrizione delle singole clausole, che deve essere assolta con la firma digitale. Dunque, nei contratti telematici a forma libera il contratto si perfeziona mediante il tasto negoziale virtuale, ma le clausole vessatorie saranno efficaci e vincolanti solo se specificamente approvate con la firma digitale”.

Alcuni si sono chiesti se il meccanismo di iscrizione/username/password (di cui ormai quasi tutti i siti di e-commerce sono dotati) possa essere equiparato alla firma digitale, ma pare si debba dare una risposta negativa al quesito. La Guida alla Firma Digitale del CNIPA dell’aprile 2009, infatti, lo esclude indirettamente quando afferma che “la firma elettronica (generica) può essere realizzata con qualsiasi strumento (password, PIN, digitalizzazione della firma autografa, tecniche biometriche etc.) in grado di conferire un certo livello di autenticazione a dati elettronici”, facendo rientrare il meccanismo di username/password tra le firme elettroniche generiche e non tra le firme digitali.

Quante sono le firme digitali in Italia? Se fino a pochi anni fa era uno strumento riservato unicamente ad alcune tipologie di professionisti, negli ultimi anni è diventata un dispositivo sempre più diffuso, tant’è che l’Agenzia per l’Italia Digitale ha quantificato in più di 20 milioni i certificati qualificati di firma digitale attivi in Italia. Il dato è in costante e notevole crescita: basti pensare che dal 2014 ad oggi le firme digitali sono quadruplicate.

In conclusione:

  • la sottoscrizione di un contratto e delle condizioni generali può avvenire mediante un semplice point and click;
  • al contrario, per la validità delle clausole vessatorie è richiesta la specifica approvazione con firma digitale o firma cartacea.

In attesa di un intervento legislativo che ponga rimedio a questa situazione, è necessario prestare particolare attenzione nella redazione dei contratti che dovranno essere approvati online: un soggetto che vende beni o fornisce servizi online e vuole inserire nel suo contratto delle clausole vessatorie dovrà predisporre un form che consenta al cliente di scegliere se concludere il contratto integralmente online (con firma digitale) o se stamparne una copia, sottoscriverla e inviarla in formato cartaceo.

Ciò premesso, data la continua evoluzione della materia e la complessità della stessa, è consigliabile affidarsi a un consulente esperto nella redazione delle condizioni generali di vendita o di servizio, per trovare il giusto equilibrio tra le necessità contrattuali, gli obblighi normativi ed evitare di ritrovarsi con un contratto poco efficace a causa della nullità di alcune clausole.

Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.

Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.

Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).

Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che  un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.

Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.

È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.

Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?

La risposta sarebbe semplicissima.

Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.

In Italia, in assenza di una normativa  che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con  …brand” o “in partnership with …brande/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.

L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.

Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.

E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad”  non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.

Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.

La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.

Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.

Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.

L’autore di questo articolo è Elena Carpani.

Poland has recently become quite famous for its skilled and resourceful IT specialists. Each year thousands of new computer engineers (programmers, developers, testers, designers etc.) enter into the market, warmly welcomed by domestic and multinational companies. A big part of these young talents open their own firm or business as free lancers developing software for clients from European countries as well as from US, Canada, Japan, China, etc.

However, companies who want to cooperate with these partners and assign software development to a Polish IT company or freelancer should be aware that the copyright law in Poland is very strict, as it mainly protects the creator and not the client. Therefore, to be on a safe side, it is better to follow these 7 basic rules:

  1. Never start cooperation with an IT specialist or an IT company without a formal agreement. And I mean a real agreement, in a written form, with signatures of persons who can validly contract on behalf of the companies. The form is very important because – under Polish law – copyrights transfer and exclusive license agreements not fulfilling form conditions are null and void. Moreover, if there is no agreement, Polish copyright rules will apply to all intellectual property matters.
  2. Please remember that software is a creation protected by copyright law. Therefore you should consider whether you want to acquire the entire intellectual property rights or you just need a license. If you need a full IP transfer, you need to put it expressly in the agreement; otherwise you will only get a non-exclusive licence. And these, in several cases, will not be useful from a business point of view. If a license is enough, it is advisable to agree if it will be exclusive or non-exclusive.
  3. When drafting an IP clause, be detailed and clear. If you want to be able to decompile and disassembly the binary code, specify it in the IP clause. If you want to be able to introduce modifications to the source code, specify it in the IP clause. If you want to sublicense the software, specify it in the IP clause. The IP clause shall contain the description of any way you want to use the software, whether on mobile devices or on personal computers, any other electronic device or via internet (e.g. cloud computing). And believe me, when I write “specify it in the IP clause” it means that you really, really have to put it there. Otherwise it will be null and void and you may face a situation where your smart IT engineer, after getting paid, will sue you for the IP infringement.
  4. Remember that you should indicate the timeframe and the geographical scope of the license or IP transfer. If you do not specify it expressly in the agreement, you will only be entitled to a 5-year license, automatically expiring afterwards.
  5. Draft carefully a clause related to termination of the agreement. Under Polish law the licensor may terminate the license agreement granted for an indefinite period of time upon 1-year notice. If you do not want to find yourself in a situation where you lose the software IP rights in the middle of a big project, make sure that from the very beginning you are on a safe side.
  6. Make sure that your partner is obliged to transfer you upon request all software documentation and the source code.
  7. Make sure that you have a good indemnification clause with no limitation of liability. Often Polish IT companies subcontract some part of the development work to free lancers. You never know if they will conclude proper agreements with their subcontractors and if they will legally acquire the IP of the software that they will later sell you. There is always the risk that in the future some Polish IT engineer you never met will raise IP infringement claims against you, trying to prove that he/she actually developed the software. In such a situation an indemnification clause will help you recovering the costs from your partner.

Based on our experience in many years advising and representing companies in the commercial distribution (in Spanish jurisdiction but with foreign manufacturers or distributors), the following are the six key essential elements for manufacturers (suppliers) and retailers (distributors) when establishing a distribution relationship.

These ideas are relevant when companies intend to start their commercial relationship but they should not be neglected and verified even when there are already existing contacts.

The signature of the contract

Although it could seem obvious, the signature of a distribution agreement is less common than it might seem. It often happens that along the extended relationship, the corporate structures change and what once was signed with an entity, has not been renewed, adapted, modified or replaced when the situation has been transformed. It is very convenient to have well documented the relationship at every moment of its existence and to be sure that what has been covered legally is also enforceable y the day-to-day commercial relationship. It is advisable this work to be carried out by legal specialists closely with the commercial department of the company. Perfectly drafted clauses from a legal standpoint will be useless if overtaken or not understood by the day-to-day activity. And, of course, no contract is signed as a “mere formality” and then modified by verbal agreements or practices.

The proper choice of contract

If the signature of the distribution contract is important, the choice of the correct type is essential. Many of the conflicts that occur, especially in long-term relationships, begin with the interpretation of the type of relationship that has been signed. Even with a written text (and with an express title), the intention of the parties remains often unclear (and so the agreement). Is the “distributor” really so? Does he buy and resell or there are only sporadic supply relationships? Is there just a representative activity (ie, the distributor is actually an “agent“)? Is there a mixed relationship (sometimes represents, sometimes buys and resells)? The list could continue indefinitely. Even in many of the relationships that currently exist I am sure that the interpretation given by the Supplier and the Distributor could be different.

Monitoring of legal and business relations

If it is quite frequent not to have a clear written contract, it happens in almost all the distribution relationships than once the agreement has been signed, the day-to-day commercial activity modifies what has been agreed. Why commercial relations seem to neglect what has been written in an agreement? It is quite frequent contracts in which certain obligations for distributors are included (reporting on the market, customers, minimum purchases), but which in practice are not respected (it seems complicated, there is a good relationship between the parties, and nobody remembers what was agreed by people no longer working at the company…). However, it is also quite frequent to try to use these (real?) defaults later on when the relationship starts having problems. At that moment, parties try to hide behind these violations to terminate the contracts although these practices were, in a sort of way, accepted as a new procedure. Of course no agreement can last forever and for that reason is highly recommendable a joint and periodical monitoring between the legal adviser (preferably an independent one with the support of the general managers) and the commercial department to take into account new practices and to have a provision in the contractual documents.

Evidences about customers

In distribution contracts, evidences about customers will be essential in case of termination. Parties (mainly the supplier) are quite interested in showing evidences on who (supplier or distributor) procured the customers. Are they a result of the distributor activity or are they obtained as a consequence of the reputation of the trademark? Evidences on customers could simplify or even avoid future conflicts. The importance of the clientele and its possible future activity will be a key element to define the compensation to which the distributor will pretend to be eligible.

Evidences on purchases and sales

Another essential element and quite often forgotten is the justification of purchases to the supplier and subsequent sales by distributors. In any distribution agreement distributors acquire the products and resell them to the final customers. A future compensation to the distributor will consider the difference between the purchase prices and resale prices (the margin). It is therefore advisable to be able to establish the correspondent evidence on such information in order to better prepare a possible claim.

Damages in case of termination of contracts

Similarly, it would be convenient to justify what damages have been suffered as a result of the termination of a contract: has the distributor made investments by indication of the supplier that are still to be amortized? Has the distributor hired new employees for a line of business that have to be dismissed because of the termination of the contract (costs of compensation)? Has the distributor rented new premises signing long-term contracts due to the expectations on the agreement? Please, take into account that the Distributor is an independent trader and, as such, he assumes the risks of his activity. But to the extent he is acting on a distribution network he shall be subject to the directions, suggestions and expectations created by the supplier. These may be relevant to later determine the damages caused by the termination of the contract.

Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.

The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.

Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.

The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.

The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.

Practical tip

Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.

The author of this post is Ilja Czernik.

Con la recente sentenza 16601/2017 la Suprema Corte – dopo svariate pronunce contrarie – ha aperto alla possibilità di riconoscere in Italia i provvedimenti stranieri contenenti punitive damages. In questo breve post vedremo in cosa consistono i punitive damages, a che condizioni potranno essere riconosciuti ed eseguiti in Italia e, soprattutto, che contromisure conviene adottare per affrontare questo nuovo rischio.

I danni puntivi, in inglese punitive damages, sono un istituto giuridico originario degli ordinamenti di common law che prevede la possibilità di riconoscere al danneggiato un risarcimento ulteriore rispetto alla compensazione del pregiudizio subito, nel caso in cui il danneggiante abbia agito con dolo o la colpa grave (rispettivamente “malice” e “gross negligence”).

Con i danni puntivi, cioè, oltre alla funzione compensatoria, il risarcimento del danno assume anche una finalità sanzionatoria, tipica del diritto penale, fungendo anche da deterrente nei confronti di ulteriori potenziali trasgressori.

Negli ordinamenti che prevedono i danni punitivi, il riconoscimento e la quantificazione del maggior risarcimento sono rimessi per lo più alla discrezionalità del giudice.

Negli Stati Uniti d’America i danni punitivi sono previsti dai principi di common law, ma disciplinati in maniera diversa in ogni Stato. Generalmente, tuttavia, si applicano ove la condotta del danneggiante sia intenzionalmente diretta a causare un danno o sia posta in essere senza avere riguardo delle norme a tutela della sicurezza. Solitamente non possono essere concessi per l’inadempimento di un contratto, salvo che non determini anche un illecito (tort) autonomo.

In alcuni Stati sono previsti dei limiti massimi ai punitive damages, a volte sotto forma di rapporto con i danni compensativi, a volte come tetto massimo. Inoltre, la Suprema Corte degli Stati Uniti è intervenuta in diversi casi per limitare le somme di condanna. Si consideri, ad esempio, il caso relativo all’azienda produttrice di automobili BMW, nel quale, a fronte di un danno compensativo di 4.000 USD, la Suprema Corte dell’Alabama aveva condannato BMW a 2.000.000 USD a titolo di danno punitivo. La Corte Suprema ha ritenuto tale condanna manifestamente eccessiva (“grossly excessive”) e ha rimesso nuovamente il caso alla Corte Suprema dell’Alabama, che ha in seguito ridotto a 50.000 USD i punitive damages (BMW of North America, Inc. v. Gore, 517 U.S. 559, 1996).

Non sempre, però, i punitive damages vengono ridotti. Nel 2011 i giudici del Montana hanno condannato il produttore di automobili Hyundai al pagamento della somma di 72 milioni di USD a titolo di danni punitivi per un incidente causato dal difetto allo sterzo di una vettura, che aveva causato il decesso di due giovani.

Negli ordinamenti di civil law, tra i quali l’Italia, l’istituto dei danni punitivi non viene tradizionalmente riconosciuto, in quanto la sanzione del danneggiante viene generalmente ritenuta estranea ai principi del diritto civile, ancorati alla concezione del risarcimento danni come mera restaurazione della sfera patrimoniale del danneggiato.

Di conseguenza, il riconoscimento dei danni punitivi statuiti in una pronuncia straniera era ostacolato dal limite dell’ordine pubblico e le sentenze che li prevedevano non avevano accesso allo spazio giuridico italiano.

La sentenza a Sezioni Unite n. 16601/2017 del 5 luglio 2017 della Suprema Corte di Cassazione, però, ha cambiato le carte in tavola.

Nel caso di specie veniva richiesto alla Corte di Appello di Venezia il riconoscimento (ex art. 64, legge 218/1995) di tre sentenze della District Court of Appeal of the State of Florida che, accogliendo una domanda di garanzia azionata da un rivenditore americano di caschi nei confronti della società italiana produttrice, avevano condannato quest’ultima al pagamento di 1.436.136,87 USD (oltre spese e interessi) a titolo di risarcimento dei danni causati da un difetto del casco utilizzato in occasione di un sinistro stradale.

La Corte d’Appello di Venezia aveva riconosciuto l’efficacia del provvedimento del giudice straniero considerando la somma meramente risarcitoria e non punitiva. La decisione era stata impugnata in Cassazione dalla parte soccombente, che sosteneva la contrarietà all’ordine pubblico della sentenza statunitense, in forza dell’orientamento giurisprudenziale sino a quel momento costante.

La Cassazione ha confermato la valutazione della Corte d’Appello, ritenendo la somma non punitiva, e ha dichiarato il riconoscimento della pronuncia statunitense in Italia.

Le Sezioni Unite, però, hanno colto l’occasione per affrontare la questione inerente l’ammissibilità dei danni punitivi in Italia, cambiando l’orientamento storico della Suprema Corte (si veda Cass. 1781/2012).

Secondo la Corte, la nozione di responsabilità civile intesa come mera riparazione dei danni subiti è da considerarsi ormai desueta, data l’evoluzione di tale istituto attraverso interventi legislativi e giurisprudenziali nazionali ed europei che hanno introdotto mezzi risarcitori a funzione sanzionatoria e deterrente. Nel nostro ordinamento, infatti, è possibile trovare diversi casi di risarcimenti danni con funzione sanzionatoria: in materia di diffamazione a mezzo di stampa (art. 12 L.47/48), diritto d’autore (art. 158 L. 633/41), proprietà industriale (art. 125 D. Lgs 30/2005), abuso del processo (art. 96 comma 3 c.p.c. e art. 26 comma 2 c.p.a.), diritto del lavoro (art. 18, comma 14), diritto di famiglia (art. 709-ter c.p.c.) e altri.

La Corte di Cassazione ha, quindi, affermato il seguente principio di diritto: “Nel vigente ordinamento italiano, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, perché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria della responsabilità civile. Non è, perciò, ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.

La conseguenza, molto importante, è che la pronuncia apre la porta alla possibile delibazione di sentenze straniere che condannano una parte al pagamento di una somma superiore rispetto quella sufficiente a compensare il pregiudizio subito in seguito al danno.

A tale scopo, tuttavia, la Suprema Corte ha disposto alcune condizioni affinché la sentenza straniera possa essere delibata, ossia che la decisione sia resa nell’ordinamento straniero su basi normative che:

  1. garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna;
  2. la prevedibilità della stessa; e
  3. i limiti quantitativi.

I possibili effetti della Sentenza nell’ordinamento italiano

In primo luogo, va chiarito che la Sentenza non ha modificato il sistema risarcitorio interno dell’ordinamento italiano. In altre parole, la Sentenza non permetterà ai giudici nazionali di comminare danni punitivi all’interno di procedimenti italiani.

Per quanto riguarda invece le sentenze straniere, invece, sarà ora possibile ottenere il risarcimento dei danni punitivi attraverso il riconoscimento e l’esecuzione nel sistema italiano di una decisione straniera che prevede la condanna a tale tipologia di danno, a condizione che siano rispettati i presupposti sopra indicati.

In considerazione di ciò, le imprese italiane che hanno investito o fanno affari in paesi che prevedono i danni punitivi dovranno tenere in considerazione questo nuovo rischio.

Gli strumenti per tutelarsi

L’imprenditore italiano che opera su mercati stranieri nei quali sono previsti i danni punitivi deve considerare con attenzione questo rischio, che sino ad oggi, come visto, non aveva accesso allo spazio giuridico italiano.

L’ottica deve essere necessariamente quella di prevenzione e gli strumenti a disposizione in tal senso sono diversi: in primo luogo l’adozione di clausole contrattuali che prevedano la rinuncia del danneggiato a questo tipo di danno o pongano un limite alla risarcibilità dei danni contrattuali, ad esempio ancorandola al valore dei prodotti o servizi forniti.

E’ poi fondamentale che si abbia conoscenza della legislazione e della giurisprudenza dei mercati in cui si opera, anche indirettamente (ad esempio, con la distribuzione commerciale dei prodotti) al fine di scegliere in modo consapevole la legge applicabile al contratto e la modalità di risoluzione delle controversie (ad esempio, con previsione dell’esclusiva giurisdizione del foro di un paese  che non preveda i danni punitivi.

Infine, questo tipo di responsabilità e di rischio può essere oggetto di valutazione con polizze assicurative che offrano una copertura specifica rispetto ad eventuali condanne al risarcimento di danni punitivi.

Poland – IP and Copyright clauses you need to get right in your contract

25 Gennaio 2018

  • Polonia
  • Contratti
  • Information Technology
  • Proprietà industriale e intellettuale

La grande maggioranza dei contratti stipulati online tra imprese e consumatori viene ormai conclusa mediante la sottoscrizione online del contratto e il richiamo alle condizioni generali di vendita, predisposte unilateralmente dal venditore/fornitore di servizi e consultabili sul sito web. Altrettanto usualmente, tra le condizioni generali di vendita è presente una clausola di scelta della legge applicabile al contratto, solitamente a favore della legge del luogo dove l’impresa ha sede.

La Corte di Giustizia Europea con la pronuncia C‑191/15 (VKI contro Amazon EU, 28 luglio 2016) ha precisato i requisiti di validità di una clausola di scelta di legge inserita nelle condizioni generali di un contratto B2C (“Business to Consumer”) stipulato online. La sentenza ha avuto un impatto molto rilevante nella redazione delle condizioni generali di vendita o servizio, perché la mancanza dei requisiti imposti dalla Corte di Giustizia Europea produce l’invalidità della clausola e la sua inapplicabilità in un’eventuale vertenza. È il caso, quindi, di ripercorrere la decisione della Corte di Giustizia.

Il caso sottopostole riguardava un contratto stipulato proprio con questa modalità: Amazon EU – con sede in Lussemburgo – commercia con i suoi clienti austriaci attraverso il portale amazon.de e nelle condizioni generali di vendita aveva inserito la seguente clausola: «Si applica la legge lussemburghese con esclusione delle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite in materia di contratti di vendita internazionale di merci».

Su richiesta di un’associazione di consumatori, la Corte Suprema Austriaca ha chiesto alla Corte di Giustizia Europea di verificare se una simile clausola potesse essere considerata abusiva ai sensi dell’art. 3, par. 1, della direttiva 93/13 a tutela dei consumatori nei contratti stipulati con un professionista: “Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto”.

La Corte ha, in primo luogo, osservato che il diritto europeo consente in linea di principio che un imprenditore inserisca nelle sue condizioni generali una clausola di scelta di legge, anche quando essa non sia stata oggetto di trattativa individuale con il consumatore. A fronte di questa possibilità, il legislatore europeo (art. 6, par. 2, Regolamento Roma I) ha previsto un meccanismo di tutela per il consumatore, garantendogli in ogni caso il diritto a invocare le disposizioni imperative della legge dello Stato in cui egli risiede, indipendentemente dalla legge individuata nella clausola. Il consumatore, quindi, anche se non previsto dalla clausola, potrà utilizzare le disposizioni inderogabili dello Stato nel quale ha la residenza abituale se più favorevoli di quelle previste dalla legge scelta nelle condizioni generali.

La Corte Europea, però, ha anche considerato essenziale che il professionista informi il consumatore del suo diritto a invocare le disposizioni di legge imperative “interne”, per evitare che quest’ultimo – ignorando l’art. 6, par. 2 del Regolamento Roma I e facendo affidamento unicamente a quanto scritto nella clausola – sia dissuaso dall’agire in giudizio nei confronti dell’imprenditore.

Questa situazione, infatti, andrebbe a creare un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto, rendendo la clausola abusiva ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13.

Come dovrà quindi essere formulata una clausola di scelta di legge all’interno delle condizioni generali predisposte per un contratto B2C? La soluzione viene offerta dalla stessa Corte di Giustizia.

La clausola di scelta della legge applicabile dovrà informare il consumatore che egli può beneficiare anche della tutela consumeristica assicuratagli dalle disposizioni imperative della legge dello stato dove abitualmente risiede.

Sarà, al contrario, abusiva qualunque clausola che induca in errore il consumatore, dandogli l’impressione che al contratto si applichi soltanto la legge dello stato dove l’imprenditore/professionista ha sede.

Questa sentenza offre lo spunto per una considerazione più generale: le aziende e i professionisti che operano nel mercato e-commerce, specialmente nel settore B2C, devono prestare particolare attenzione agli sviluppi non solo della normativa interna ed europea, ma anche delle normative e delle interpretazioni giurisprudenziali nei paesi i cui risiedono i potenziali consumatori dei prodotti o servizi venduti, sia che si tratti di vendite sui canali tradizionali, sia online, al fine di evitare di predisporre dei contratti che si rivelino poco efficaci o, ancor peggio, controproducenti.

Tutte le considerazioni finora svolte non riguardano la competenza giurisdizionale e l’eventuale inserimento nel contratto di una clausola di scelta del foro competente, che nei contratti B2C è generalmente sconsigliabile. In ambito europeo, infatti, il Regolamento Bruxelles I bis accorda al consumatore una tutela molto forte, che gli dà quasi sempre la possibilità di proporre l’azione giudiziale nel luogo dove ha la sua residenza abituale (cd. Foro del consumatore), obbligando il professionista – indipendentemente da clausole con diverso contenuto – a fare lo stesso.

If 2017 was the year of Initial Coin Offerings, 2018 was the year of Blockchain awareness and testing all over the world. From ICO focused guidelines and regulations respectively aimed to alarm and protect investors, we have seen the shift, especially in Europe, to distributed ledger technology (“DLT”) focused guidelines and regulations aimed at protecting citizens on one hand and promote DLT implementations on the other.

Indeed, European Union Member States and the European Parliament started looking deeper into the technology by, for instance, calling for consultations with professionals in order to understand DLT’s potentials for real-world implementations and possible risks.

In this article I am aiming to give a brief snapshot of firstly what are the most notable European initiatives and moves towards promoting Blockchain implementation and secondly current challenges faced by European law makers when dealing with the regulation of distributed ledger technologies.

Europe

Let’s start from the European Blockchain Partnership (“EBP”), a statement made by 25 EU Member States acknowledging the importance of distributed ledger technology for society, in particular when it comes to interoperability, cyber security and efficiency of digital public services. The Partnership is not only an acknowledgement, it is also a commitment from all signatory states to collaborate to build what they envision will be a distributed ledger infrastructure for the delivering of cross-border public services.

Witness of the trust given to the technology is My Health My Data, a EU-backed project that uses DLT to enable patients to efficiently control their digitally recorded health data while securing it from the threat of data breaches. Benefits the EU saw in DLT on this specific project are safety, efficiency but most notably the opportunity that DLT offers data subject to have finally control over their own data, without the need for intermediaries.

Another important initiative proving European interests in testing DLT technologies is the Horizon Prize on “Blockchains for Social Good”, a 5 million Euros worth challenge open to innovators and tech companies to develop scalable, efficient and high-impact decentralized solutions to social innovation challenges.

Moving forward, in December last year, I had the honor to be part of the “ Workshop on Blockchains & Smart Contracts Legal and Regulatory Framework” in Paris, an initiative supported by the EU Blockchain Observatory and Forum (“EUBOF”), a pilot project initiated by the European Parliament. Earlier last year other three workshops were held, the aim of each was to collect knowledge on specific topics from an audience of leading DLT legal and technical professionals. With the knowledge collected, the EUBOF followed up with reports of what was discussed during the workshop and suggest a way forward.

Although not binding, these reports give a reasonably clear guideline to the industry on how existing laws at a European level apply to the technology, or at least should be interpreted, and highlight areas where new regulation is definitely needed. As an example let’s look at the Report on Blockchain & GDPR. If you missed it, the GDPR is the Regulation that protects Europeans personal data and it’s applicable to all companies globally, which are processing data from European citizens. The “right to erasure” embedded in the GDPR, doesn’t allow personal data to be stored on an immutable database, the data subject has to be able to erase data anytime when shared with a service provider and stored somewhere on a database. In the case of Blockchain, the consensus on personal data having to be stored off-chain is therefore unanimous. Storing personal data off-chain and leaving an hash to that data on-chain, is a viable solution if certain precautions are taken in order to avoid the risks of reversibility or linkability of such hash to the personal data stored off-chain, therefore making the hash on-chain personally identifiable information.

However, not all European laws apply to Member States, therefore making it hard to give a EU-wide answer to most DLT compliance challenges in Europe. Member States freedom to legislate is indeed only limited/influenced by two main instruments, Regulations, which are automatically enforceable in each Member State and Directives binding Member States to legislate on specific topics according to a set of specific rules.

Diverging national laws have a great effect on multiple aspects of innovative technologies. Let’s look for instance at the validity of “smart contracts”. When discussing the legal power of automatically enforceable digital contracts, the lack of a European wide legislation on contracts makes it impossible to find an answer applicable to all Member States. For instance, is “offer and acceptance” enough to constitute a contract? What is considered a valid “acceptance”? What is an “obligation”? “Can a digital asset be the object of a legally binding agreement”?

If we try to give a EU-wide answer to the questions such as smart contract validity and enforceability it is apparently not possible since we will need to consider 28 different answers. I, therefore, believe that the future of innovation in Europe will highly depend on the unification of laws.

An example of a unified law that has great benefits on innovation (including DLT) is the Electronic Identification and Trust Services (eIDAS) Regulation, which governs electronic identification including electronic signatures.

The race to regulating DLT in Europe

Let’s now look briefly at a couple of Member States legislations, specifically on Blockchain and cryptocurrencies last year.

EU Member States have been quite creative I would say in regulating the new technology. Let’s start from Malta, which saw a surprising increase of important projects and companies, such as Binance, landing on the beautiful Mediterranean Island thanks to its favorable (or at least felt as such) legislations on DLT. The “Blockchain Island” passed three laws in early July to regulate and supervise Blockchain projects including ICOs, crypto exchanges and DLT, specifically: The Innovative Technology Arrangements and Services Act regulation that aims at recognizing different technology arrangements such as DAOs, smart contracts and in future probably AI machines; The Virtual Financial Assets Act for ICOs and crypto exchanges; The Malta Digital Innovation Authority establishing a new supervisory authority.

Some think the Maltese legislation lacks a comprehensive framework, one that for instance, gives legal personality to Innovative Technology Arrangements. For this reason some are therefore accusing the Maltese lawmakers of rushing into an uncompleted regulatory framework in order to attract business to the island while others seem to positively welcome the laws as a good start for a European wide regulation on DLT and crypto assets.

In December 2018, Malta also initiated a declaration that was then signed by other six Members States, calling for collaboration for the promotion and implementation of DLT on a European level.

France was one of the signatories of such declaration, and it’s worth mentioning since the French Minister for the Economy and Finance approved in September a framework for regulating ICOs and therefore protecting investors’ rights, basically giving the AMF (French Authority for Financial Market) the empowerment to give licenses to companies wanting to raise funds through Initial Coin Offerings.

Last but not least comes Switzerland which although it is not a EU Member State, it has great degree of influence on European and national legislators when it comes to progressive regulations. At the end of December, the Swiss Federal Council released a report on DLT and the law, making a clear statement that the existing Swiss law is sufficient to regulate most matters related to DLT and Blockchain, although some adjustments have to be made. So no new laws but few amendments here and there, which will allow the integration of the specific DLT applications with existing laws in order to ensure legal certainty on certain uncovered matters. Relevant areas of Swiss law that will be amended include the transfer of rights utilizing digital registers, Anti Money Laundering rules specifically for decentralized trading platforms and bankruptcy when that proceeding involves crypto assets.

Conclusions

To summarize, from the approach taken during the past year, it is apparent that there is great interest in Europe to understand the potentials and to soon test implementations of distributed ledger technology. Lawmakers have also an understanding that the technology is in an infant state, it might involve risks, therefore making it complex to set specific rules or to give final answers on the alignment of certain technology applications with existing European or national laws.

To achieve European wide results, however, acknowledgments, guidelines and reports are not enough. The setting of standards for lawmakers applicable to all Member States or even unification of laws in crucial sectors influencing directly or indirectly new technologies, will be the only solution for any innovative technology to be adopted at a European level.

The author of this post is Alessandro Mazzi.

In questo post focalizziamo l’attenzione sull’approvazione online delle clausole vessatorie – spesso contenute nelle condizioni generali di vendita o di servizio – alla luce della legislazione italiana, al fine di verificare se sia valida la prassi di richiedere l’adesione del consumatore/cliente al contratto mediante point and click.

Le clausole vessatorie sono previste dall’art. 1341 del codice civile, che ne fornisce un elenco: “le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”. Lo stesso articolo, per la loro validità, richiede una specifica approvazione per iscritto, in mancanza della quale le clausole non hanno effetto.

Nel commercio elettronico la modalità tipica di conclusione dei contratti è quella del point and click, che consiste nello spuntare un box come approvazione delle condizioni contrattuali. Il Codice dell’amministrazione digitale (D.lgs. 82/2005, come modificato in ultimo dalla L. 147/2013), all’art. 21 comma 1, la equipara a una mera espressione della volontà contrattuale, sufficiente per concludere validamente un contratto, ma non sufficiente per integrare il requisito della “specifica approvazione per iscritto”, richiesto per le clausole vessatorie.

Al contrario, infatti, l’art. 21 comma 2 della stessa legge prevede che solo la firma digitale sia equiparata alla scrittura privata, e quindi possa costituire a tutti gli effetti una “approvazione per iscritto“.

Appare chiaro, dunque, che si possono sottoscrivere online delle clausole vessatorie unicamente mediante l’apposizione di una firma digitale. La dottrina italiana è concorde con questa interpretazione, mentre le pronunce si contano sulle dita di una mano: la più recente è del Tribunale di Catanzaro (30 aprile 2012) e si è espressa in questo senso, stabilendo che “con riguardo alle clausole vessatorie on line, l’opinione dottrinale prevalente – alla quale il Tribunale aderisce – ritiene che non sia sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale, ma sia necessaria la specifica sottoscrizione delle singole clausole, che deve essere assolta con la firma digitale. Dunque, nei contratti telematici a forma libera il contratto si perfeziona mediante il tasto negoziale virtuale, ma le clausole vessatorie saranno efficaci e vincolanti solo se specificamente approvate con la firma digitale”.

Alcuni si sono chiesti se il meccanismo di iscrizione/username/password (di cui ormai quasi tutti i siti di e-commerce sono dotati) possa essere equiparato alla firma digitale, ma pare si debba dare una risposta negativa al quesito. La Guida alla Firma Digitale del CNIPA dell’aprile 2009, infatti, lo esclude indirettamente quando afferma che “la firma elettronica (generica) può essere realizzata con qualsiasi strumento (password, PIN, digitalizzazione della firma autografa, tecniche biometriche etc.) in grado di conferire un certo livello di autenticazione a dati elettronici”, facendo rientrare il meccanismo di username/password tra le firme elettroniche generiche e non tra le firme digitali.

Quante sono le firme digitali in Italia? Se fino a pochi anni fa era uno strumento riservato unicamente ad alcune tipologie di professionisti, negli ultimi anni è diventata un dispositivo sempre più diffuso, tant’è che l’Agenzia per l’Italia Digitale ha quantificato in più di 20 milioni i certificati qualificati di firma digitale attivi in Italia. Il dato è in costante e notevole crescita: basti pensare che dal 2014 ad oggi le firme digitali sono quadruplicate.

In conclusione:

  • la sottoscrizione di un contratto e delle condizioni generali può avvenire mediante un semplice point and click;
  • al contrario, per la validità delle clausole vessatorie è richiesta la specifica approvazione con firma digitale o firma cartacea.

In attesa di un intervento legislativo che ponga rimedio a questa situazione, è necessario prestare particolare attenzione nella redazione dei contratti che dovranno essere approvati online: un soggetto che vende beni o fornisce servizi online e vuole inserire nel suo contratto delle clausole vessatorie dovrà predisporre un form che consenta al cliente di scegliere se concludere il contratto integralmente online (con firma digitale) o se stamparne una copia, sottoscriverla e inviarla in formato cartaceo.

Ciò premesso, data la continua evoluzione della materia e la complessità della stessa, è consigliabile affidarsi a un consulente esperto nella redazione delle condizioni generali di vendita o di servizio, per trovare il giusto equilibrio tra le necessità contrattuali, gli obblighi normativi ed evitare di ritrovarsi con un contratto poco efficace a causa della nullità di alcune clausole.

Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.

Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.

Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).

Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che  un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.

Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.

È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.

Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?

La risposta sarebbe semplicissima.

Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.

In Italia, in assenza di una normativa  che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con  …brand” o “in partnership with …brande/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.

L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.

Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.

E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad”  non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.

Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.

La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.

Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.

Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.

L’autore di questo articolo è Elena Carpani.

Poland has recently become quite famous for its skilled and resourceful IT specialists. Each year thousands of new computer engineers (programmers, developers, testers, designers etc.) enter into the market, warmly welcomed by domestic and multinational companies. A big part of these young talents open their own firm or business as free lancers developing software for clients from European countries as well as from US, Canada, Japan, China, etc.

However, companies who want to cooperate with these partners and assign software development to a Polish IT company or freelancer should be aware that the copyright law in Poland is very strict, as it mainly protects the creator and not the client. Therefore, to be on a safe side, it is better to follow these 7 basic rules:

  1. Never start cooperation with an IT specialist or an IT company without a formal agreement. And I mean a real agreement, in a written form, with signatures of persons who can validly contract on behalf of the companies. The form is very important because – under Polish law – copyrights transfer and exclusive license agreements not fulfilling form conditions are null and void. Moreover, if there is no agreement, Polish copyright rules will apply to all intellectual property matters.
  2. Please remember that software is a creation protected by copyright law. Therefore you should consider whether you want to acquire the entire intellectual property rights or you just need a license. If you need a full IP transfer, you need to put it expressly in the agreement; otherwise you will only get a non-exclusive licence. And these, in several cases, will not be useful from a business point of view. If a license is enough, it is advisable to agree if it will be exclusive or non-exclusive.
  3. When drafting an IP clause, be detailed and clear. If you want to be able to decompile and disassembly the binary code, specify it in the IP clause. If you want to be able to introduce modifications to the source code, specify it in the IP clause. If you want to sublicense the software, specify it in the IP clause. The IP clause shall contain the description of any way you want to use the software, whether on mobile devices or on personal computers, any other electronic device or via internet (e.g. cloud computing). And believe me, when I write “specify it in the IP clause” it means that you really, really have to put it there. Otherwise it will be null and void and you may face a situation where your smart IT engineer, after getting paid, will sue you for the IP infringement.
  4. Remember that you should indicate the timeframe and the geographical scope of the license or IP transfer. If you do not specify it expressly in the agreement, you will only be entitled to a 5-year license, automatically expiring afterwards.
  5. Draft carefully a clause related to termination of the agreement. Under Polish law the licensor may terminate the license agreement granted for an indefinite period of time upon 1-year notice. If you do not want to find yourself in a situation where you lose the software IP rights in the middle of a big project, make sure that from the very beginning you are on a safe side.
  6. Make sure that your partner is obliged to transfer you upon request all software documentation and the source code.
  7. Make sure that you have a good indemnification clause with no limitation of liability. Often Polish IT companies subcontract some part of the development work to free lancers. You never know if they will conclude proper agreements with their subcontractors and if they will legally acquire the IP of the software that they will later sell you. There is always the risk that in the future some Polish IT engineer you never met will raise IP infringement claims against you, trying to prove that he/she actually developed the software. In such a situation an indemnification clause will help you recovering the costs from your partner.

Based on our experience in many years advising and representing companies in the commercial distribution (in Spanish jurisdiction but with foreign manufacturers or distributors), the following are the six key essential elements for manufacturers (suppliers) and retailers (distributors) when establishing a distribution relationship.

These ideas are relevant when companies intend to start their commercial relationship but they should not be neglected and verified even when there are already existing contacts.

The signature of the contract

Although it could seem obvious, the signature of a distribution agreement is less common than it might seem. It often happens that along the extended relationship, the corporate structures change and what once was signed with an entity, has not been renewed, adapted, modified or replaced when the situation has been transformed. It is very convenient to have well documented the relationship at every moment of its existence and to be sure that what has been covered legally is also enforceable y the day-to-day commercial relationship. It is advisable this work to be carried out by legal specialists closely with the commercial department of the company. Perfectly drafted clauses from a legal standpoint will be useless if overtaken or not understood by the day-to-day activity. And, of course, no contract is signed as a “mere formality” and then modified by verbal agreements or practices.

The proper choice of contract

If the signature of the distribution contract is important, the choice of the correct type is essential. Many of the conflicts that occur, especially in long-term relationships, begin with the interpretation of the type of relationship that has been signed. Even with a written text (and with an express title), the intention of the parties remains often unclear (and so the agreement). Is the “distributor” really so? Does he buy and resell or there are only sporadic supply relationships? Is there just a representative activity (ie, the distributor is actually an “agent“)? Is there a mixed relationship (sometimes represents, sometimes buys and resells)? The list could continue indefinitely. Even in many of the relationships that currently exist I am sure that the interpretation given by the Supplier and the Distributor could be different.

Monitoring of legal and business relations

If it is quite frequent not to have a clear written contract, it happens in almost all the distribution relationships than once the agreement has been signed, the day-to-day commercial activity modifies what has been agreed. Why commercial relations seem to neglect what has been written in an agreement? It is quite frequent contracts in which certain obligations for distributors are included (reporting on the market, customers, minimum purchases), but which in practice are not respected (it seems complicated, there is a good relationship between the parties, and nobody remembers what was agreed by people no longer working at the company…). However, it is also quite frequent to try to use these (real?) defaults later on when the relationship starts having problems. At that moment, parties try to hide behind these violations to terminate the contracts although these practices were, in a sort of way, accepted as a new procedure. Of course no agreement can last forever and for that reason is highly recommendable a joint and periodical monitoring between the legal adviser (preferably an independent one with the support of the general managers) and the commercial department to take into account new practices and to have a provision in the contractual documents.

Evidences about customers

In distribution contracts, evidences about customers will be essential in case of termination. Parties (mainly the supplier) are quite interested in showing evidences on who (supplier or distributor) procured the customers. Are they a result of the distributor activity or are they obtained as a consequence of the reputation of the trademark? Evidences on customers could simplify or even avoid future conflicts. The importance of the clientele and its possible future activity will be a key element to define the compensation to which the distributor will pretend to be eligible.

Evidences on purchases and sales

Another essential element and quite often forgotten is the justification of purchases to the supplier and subsequent sales by distributors. In any distribution agreement distributors acquire the products and resell them to the final customers. A future compensation to the distributor will consider the difference between the purchase prices and resale prices (the margin). It is therefore advisable to be able to establish the correspondent evidence on such information in order to better prepare a possible claim.

Damages in case of termination of contracts

Similarly, it would be convenient to justify what damages have been suffered as a result of the termination of a contract: has the distributor made investments by indication of the supplier that are still to be amortized? Has the distributor hired new employees for a line of business that have to be dismissed because of the termination of the contract (costs of compensation)? Has the distributor rented new premises signing long-term contracts due to the expectations on the agreement? Please, take into account that the Distributor is an independent trader and, as such, he assumes the risks of his activity. But to the extent he is acting on a distribution network he shall be subject to the directions, suggestions and expectations created by the supplier. These may be relevant to later determine the damages caused by the termination of the contract.

Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.

The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.

Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.

The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.

The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.

Practical tip

Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.

The author of this post is Ilja Czernik.

Con la recente sentenza 16601/2017 la Suprema Corte – dopo svariate pronunce contrarie – ha aperto alla possibilità di riconoscere in Italia i provvedimenti stranieri contenenti punitive damages. In questo breve post vedremo in cosa consistono i punitive damages, a che condizioni potranno essere riconosciuti ed eseguiti in Italia e, soprattutto, che contromisure conviene adottare per affrontare questo nuovo rischio.

I danni puntivi, in inglese punitive damages, sono un istituto giuridico originario degli ordinamenti di common law che prevede la possibilità di riconoscere al danneggiato un risarcimento ulteriore rispetto alla compensazione del pregiudizio subito, nel caso in cui il danneggiante abbia agito con dolo o la colpa grave (rispettivamente “malice” e “gross negligence”).

Con i danni puntivi, cioè, oltre alla funzione compensatoria, il risarcimento del danno assume anche una finalità sanzionatoria, tipica del diritto penale, fungendo anche da deterrente nei confronti di ulteriori potenziali trasgressori.

Negli ordinamenti che prevedono i danni punitivi, il riconoscimento e la quantificazione del maggior risarcimento sono rimessi per lo più alla discrezionalità del giudice.

Negli Stati Uniti d’America i danni punitivi sono previsti dai principi di common law, ma disciplinati in maniera diversa in ogni Stato. Generalmente, tuttavia, si applicano ove la condotta del danneggiante sia intenzionalmente diretta a causare un danno o sia posta in essere senza avere riguardo delle norme a tutela della sicurezza. Solitamente non possono essere concessi per l’inadempimento di un contratto, salvo che non determini anche un illecito (tort) autonomo.

In alcuni Stati sono previsti dei limiti massimi ai punitive damages, a volte sotto forma di rapporto con i danni compensativi, a volte come tetto massimo. Inoltre, la Suprema Corte degli Stati Uniti è intervenuta in diversi casi per limitare le somme di condanna. Si consideri, ad esempio, il caso relativo all’azienda produttrice di automobili BMW, nel quale, a fronte di un danno compensativo di 4.000 USD, la Suprema Corte dell’Alabama aveva condannato BMW a 2.000.000 USD a titolo di danno punitivo. La Corte Suprema ha ritenuto tale condanna manifestamente eccessiva (“grossly excessive”) e ha rimesso nuovamente il caso alla Corte Suprema dell’Alabama, che ha in seguito ridotto a 50.000 USD i punitive damages (BMW of North America, Inc. v. Gore, 517 U.S. 559, 1996).

Non sempre, però, i punitive damages vengono ridotti. Nel 2011 i giudici del Montana hanno condannato il produttore di automobili Hyundai al pagamento della somma di 72 milioni di USD a titolo di danni punitivi per un incidente causato dal difetto allo sterzo di una vettura, che aveva causato il decesso di due giovani.

Negli ordinamenti di civil law, tra i quali l’Italia, l’istituto dei danni punitivi non viene tradizionalmente riconosciuto, in quanto la sanzione del danneggiante viene generalmente ritenuta estranea ai principi del diritto civile, ancorati alla concezione del risarcimento danni come mera restaurazione della sfera patrimoniale del danneggiato.

Di conseguenza, il riconoscimento dei danni punitivi statuiti in una pronuncia straniera era ostacolato dal limite dell’ordine pubblico e le sentenze che li prevedevano non avevano accesso allo spazio giuridico italiano.

La sentenza a Sezioni Unite n. 16601/2017 del 5 luglio 2017 della Suprema Corte di Cassazione, però, ha cambiato le carte in tavola.

Nel caso di specie veniva richiesto alla Corte di Appello di Venezia il riconoscimento (ex art. 64, legge 218/1995) di tre sentenze della District Court of Appeal of the State of Florida che, accogliendo una domanda di garanzia azionata da un rivenditore americano di caschi nei confronti della società italiana produttrice, avevano condannato quest’ultima al pagamento di 1.436.136,87 USD (oltre spese e interessi) a titolo di risarcimento dei danni causati da un difetto del casco utilizzato in occasione di un sinistro stradale.

La Corte d’Appello di Venezia aveva riconosciuto l’efficacia del provvedimento del giudice straniero considerando la somma meramente risarcitoria e non punitiva. La decisione era stata impugnata in Cassazione dalla parte soccombente, che sosteneva la contrarietà all’ordine pubblico della sentenza statunitense, in forza dell’orientamento giurisprudenziale sino a quel momento costante.

La Cassazione ha confermato la valutazione della Corte d’Appello, ritenendo la somma non punitiva, e ha dichiarato il riconoscimento della pronuncia statunitense in Italia.

Le Sezioni Unite, però, hanno colto l’occasione per affrontare la questione inerente l’ammissibilità dei danni punitivi in Italia, cambiando l’orientamento storico della Suprema Corte (si veda Cass. 1781/2012).

Secondo la Corte, la nozione di responsabilità civile intesa come mera riparazione dei danni subiti è da considerarsi ormai desueta, data l’evoluzione di tale istituto attraverso interventi legislativi e giurisprudenziali nazionali ed europei che hanno introdotto mezzi risarcitori a funzione sanzionatoria e deterrente. Nel nostro ordinamento, infatti, è possibile trovare diversi casi di risarcimenti danni con funzione sanzionatoria: in materia di diffamazione a mezzo di stampa (art. 12 L.47/48), diritto d’autore (art. 158 L. 633/41), proprietà industriale (art. 125 D. Lgs 30/2005), abuso del processo (art. 96 comma 3 c.p.c. e art. 26 comma 2 c.p.a.), diritto del lavoro (art. 18, comma 14), diritto di famiglia (art. 709-ter c.p.c.) e altri.

La Corte di Cassazione ha, quindi, affermato il seguente principio di diritto: “Nel vigente ordinamento italiano, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, perché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria della responsabilità civile. Non è, perciò, ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.

La conseguenza, molto importante, è che la pronuncia apre la porta alla possibile delibazione di sentenze straniere che condannano una parte al pagamento di una somma superiore rispetto quella sufficiente a compensare il pregiudizio subito in seguito al danno.

A tale scopo, tuttavia, la Suprema Corte ha disposto alcune condizioni affinché la sentenza straniera possa essere delibata, ossia che la decisione sia resa nell’ordinamento straniero su basi normative che:

  1. garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna;
  2. la prevedibilità della stessa; e
  3. i limiti quantitativi.

I possibili effetti della Sentenza nell’ordinamento italiano

In primo luogo, va chiarito che la Sentenza non ha modificato il sistema risarcitorio interno dell’ordinamento italiano. In altre parole, la Sentenza non permetterà ai giudici nazionali di comminare danni punitivi all’interno di procedimenti italiani.

Per quanto riguarda invece le sentenze straniere, invece, sarà ora possibile ottenere il risarcimento dei danni punitivi attraverso il riconoscimento e l’esecuzione nel sistema italiano di una decisione straniera che prevede la condanna a tale tipologia di danno, a condizione che siano rispettati i presupposti sopra indicati.

In considerazione di ciò, le imprese italiane che hanno investito o fanno affari in paesi che prevedono i danni punitivi dovranno tenere in considerazione questo nuovo rischio.

Gli strumenti per tutelarsi

L’imprenditore italiano che opera su mercati stranieri nei quali sono previsti i danni punitivi deve considerare con attenzione questo rischio, che sino ad oggi, come visto, non aveva accesso allo spazio giuridico italiano.

L’ottica deve essere necessariamente quella di prevenzione e gli strumenti a disposizione in tal senso sono diversi: in primo luogo l’adozione di clausole contrattuali che prevedano la rinuncia del danneggiato a questo tipo di danno o pongano un limite alla risarcibilità dei danni contrattuali, ad esempio ancorandola al valore dei prodotti o servizi forniti.

E’ poi fondamentale che si abbia conoscenza della legislazione e della giurisprudenza dei mercati in cui si opera, anche indirettamente (ad esempio, con la distribuzione commerciale dei prodotti) al fine di scegliere in modo consapevole la legge applicabile al contratto e la modalità di risoluzione delle controversie (ad esempio, con previsione dell’esclusiva giurisdizione del foro di un paese  che non preveda i danni punitivi.

Infine, questo tipo di responsabilità e di rischio può essere oggetto di valutazione con polizze assicurative che offrano una copertura specifica rispetto ad eventuali condanne al risarcimento di danni punitivi.

Agata Adamczyk

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