Spain – The agent’s right to information after the conclusion of his contract

15 Aprile 2024

  • Spagna
  • Distribuzione

La legge contro l’ultra fast-fashion è stata concepita per fronteggiare la crescente preoccupazione riguardante l’impatto ambientale, economico e sulla salute provocato dall’inondazione del mercato con tessuti e accessori di moda da parte di giganti come SHEIN, TEMU, PRIMARK e altri. Queste aziende, spesso trascurando le conseguenze delle loro pratiche, hanno contribuito significativamente all’incremento delle emissioni di gas serra attribuite all’industria tessile, che ora si stima essere responsabile per circa l’8% del totale globale.

In un contesto dove la produzione globale di abbigliamento ha visto un raddoppio in soli 14 anni e la durata di vita degli indumenti si è ridotta di un terzo, il marchio SHEIN ha registrato una crescita esponenziale del 100% tra il 2021 e il 2022, evidenziando ulteriormente la problematica del fast fashion che domina il mercato francese, nonostante in alcuni settori si stia vivendo una rinascita dell’artigianalità e del design made in France.

La risposta delle autorità francesi si è concretizzata nel disegno di legge n. 2129, volto a ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile, proposto da un deputato del Governo e adottato all’unanimità dall’Assemblea Nazionale il 14 marzo 2024, che nelle prossime settimane verrà esaminato dal Senato con una procedura accelerata, prima della definitiva adozione.

Questa normativa si propone di sensibilizzare i consumatori sull’importanza della sobrietà e della sostenibilità nell’industria della moda, promuovendo pratiche di riutilizzo, riparazione, e riciclaggio, e introducendo penalizzazioni per i produttori che non rispettano determinati standard ecologici.

Di seguito le misure principali.

1. Definizione legale di fast-fashion e obblighi informativi

Viene istituita una definizione legale di fast-fashion, identificato come la pratica di “messa a disposizione o distribuzione di un gran numero di riferimenti a nuovi prodotti (…) anche attraverso un fornitore di mercato online” e gli operatori di questo settore hanno l’obbligo di “visualizzare sulle loro piattaforme di vendita online messaggi che incoraggino la sobrietà, il riutilizzo, la riparazione e il riciclaggio dei prodotti e che sensibilizzino sul loro impatto ambientale. Il messaggio deve essere visualizzato in modo chiaro, leggibile e comprensibile su qualsiasi formato utilizzato, in prossimità del prezzo. Il contenuto dei messaggi è definito per decreto.”

Questa norma disciplina tutte le vendite online (anche su piattaforme) mentre non include le piattaforme per la rivendita di prodotti invenduti.

La violazione di questa disposizione comporta sanzioni amministrative fino a 3.000 € per le persone fisiche e 15.000 € per le persone giuridiche.

2. Limiti alla pubblicità (anche tramite influencer)

Il disegno di legge vieta la pubblicità dei prodotti di fast fashion, anche tramite influencer, al fine di ridurre la promozione di pratiche insostenibili nell’industria della moda, incentivando così un cambiamento nei modelli di consumo.

In caso di adozione definitiva, questa disposizione entrerà in vigore a partire dal 1o gennaio 2025.

La violazione di questa disposizione comporta sanzioni amministrative fino a 20.000 € per le persone fisiche e 100.000 € per le persone giuridiche, e fino al raddoppio in caso di recidiva.

3. Altri obblighi e sistema di disincentivi

La legge riguarda tutti i produttori (industriali, fabbricanti, grossisti, importatori), distributori e rivenditori francesi al pubblico e prevede anche altri obblighi, come: l’adesione a un’organizzazione ecologica (Refashion), il pagamento di un eco-contributo, l’etichettatura conforme e l’obbligo di esporre i risultati della valutazione dell’impatto ambientale del prodotto, che può portare ad una sanzione o all’ottenimento di un bonus.

Etichettatura e sull’eco-contributo CTA

La legge AGEC prevede attualmente una sanzione massima del 20% del prezzo di vendita del prodotto, IVA esclusa, se questo presenta caratteristiche ambientali scadenti. Considerati i prezzi a cui i prodotti fast-fashion sono venduti ai consumatori, l’impatto sui produttori è minimo (ad esempio, una maglietta da 4 euro), pertanto ora la proposta è quella di innalzare questa sanzione a un massimo del 50% del prezzo di vendita del prodotto.

Questa sanzione sarà determinata in base all’obbligo di mostrare l’analisi dell’impatto ambientale del prodotto. Le sanzioni saranno quindi fisse (e non in percentuale sul prezzo del prodotto), sotto forma di un malus progressivo fino al 2030:

  • 5 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2025
  • 6 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2026
  • 7 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2027
  • 8 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2028
  • 9 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2029
  • 10 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2030

Con un limite massimo fissato al 50% del prezzo di vendita.

Questo incremento avrà un impatto sul produttore un anno dopo, quando questi dichiarerà e verserà l’eco-contributo a Refashion e si applica esclusivamente ai produttori di prodotti di fast fashion. I fondi raccolti verranno utilizzati dagli organismi ecologici per finanziare infrastrutture di raccolta e riciclo in paesi al di fuori dell’Unione Europea.

Le società straniere sono soggette a questi obblighi?

Sì, se l’azienda ha sede legale all’estero, ma effettua vendite in Francia, sarà soggetta alle stesse obbligazioni e sanzioni previste dalla legislazione francese, secondo il principio del “produttore esteso”, stabilito dall’articolo L541-10 del codice dell’ambiente francese.

Le società straniere dovranno nominare un rappresentante in Francia a tal fine e non potranno in alcun modo aggirare gli obblighi e le sanzioni stabilite dalla normativa in oggetto.

A cosa prestare attenzione, adesso?

Il Senato sta attualmente esaminando il testo legislativo.

Parallelamente, il governo francese sta pianificando due iniziative aggiuntive: primo, avviare una campagna comunicativa per valorizzare il settore tessile francese e combattere l’ultra fast-fashion; secondo, proporre la creazione di una coalizione internazionale con l’obiettivo di vietare l’esportazione di rifiuti tessili verso i paesi incapaci di gestirli in maniera sostenibile, in linea con le disposizioni della Convenzione di Basilea. è attualmente all’esame del Senato.

Inoltre, è prevista la pubblicazione di un decreto che stabilirà i livelli di produzione, definendo così i produttori interessati da queste misure. Chiaramente questo decreto avrà un impatto estremamente rilevante, perché a seconda dei limiti individuati (si sta discutendo se individuare un limite giornaliero o annuale minimo di capi di abbigliamento) definirà il perimetro di applicazione della norma.

The commercial agent has the right to obtain certain information about the sales of the principal. The Spanish Law on Agency Contracts provides (15.2 LCA) that the agent has the right to demand to see the accounts of the principal in order to verify all matters relating to the commissions due to him. And also, to be provided with the information available to the principal and necessary to verify the amount of such commissions.

This article is in line with the 1986 Commercial Agents Directive, according to which (12.3) the agent is entitled to demand to be provided with all information at the disposal of the principal, particularly an extract from the books of account, which is necessary to verify the amount of commission due to the agent. This may not be altered to the detriment of the commercial agent by agreement.

The question is, does this right remain even after the termination of the agency contract? In other words: once the agency contract is terminated, can the agent request the information and documentation mentioned in these articles and is the Principal obliged to provide it?

In our opinion, the rule does not say anything that limits this right, rather the opposite is to be expected. Therefore, to the extent that there is still any possible commission that may arise from such verification, the answer must be yes. Let us see.

The right to demand the production of accounts exists so that the agent can verify the amount of commissions. And the agent is entitled to commissions for acts and operations concluded during the term of the contract (art. 12 LCA), but also for acts or operations concluded after the termination of the contract (art. 13 LCA), and for operations not carried out due to circumstances attributable to the principal (art. 17 LCA). In addition, the agent is entitled to have the commission accrued at the time when the act or transaction should have been executed (art. 14 LCA).

All these transactions can take place after the conclusion of the contract. Consider the usual situation where orders are placed during the contract but are accepted or executed afterwards. To reduce the agent’s right to be informed only during the term of the contract would be to limit his entitlement to the corresponding commission unduly. And it should be borne in mind that the amount of the commissions during the last five years may also influence the calculation of the client (goodwill) indemnity (art. 28 LCA), so that the agent’s interest in knowing them is twofold: what he would receive as commission, and what could increase the basis for future indemnity.

This has been confirmed, for example, by the Provincial Court (Audiencia Provincial) of Madrid (AAP 227/2017, of 29 June [ECLI:ES:APM:2017:2873A]) which textually states:

[…] art. 15.2 of the Agency Contract Act provides for the right of the agent to demand the exhibition of the Principal’s accounts in the particulars necessary to verify everything relating to the commissions corresponding to him, as well as to be provided with the information available to the Principal and necessary to verify the amount. This does not prevent, […], the agency contract having already been terminated, as this does not imply that commissions would cease to accrue for policies, contracted with the mediation of the agent, which remain in force.

The question then arises as to whether this right to information is unlimited in time. And here the answer would be in the negative. The limitation of the right to receive information would be linked to the statute of limitations of the right to claim the corresponding commission. If the right to receive the commission were undoubtedly time-barred, it could be argued that it would not be possible to receive information about it. But for such an exception, the statute of limitations must be clear, therefore, taking into account possible interruptions due to claims, even extrajudicial ones. In case of doubt, it will be necessary to recognise the right to demand the information, without prejudice to later invoking and recognising the impossibility of claiming the commission if the right is time-barred. And for this we must consider the limitation period for claiming commissions (in general, three years) and that of the right to claim compensation for clientele (one year).

In short: it does not seem that the right to receive information and to examine the principal’s documentation is limited by the term of the agency contract; although, on the other hand, it would be appropriate to analyse the possible limitation period for claiming commissions. In the absence of a clear answer to this question, the right to information should, in our opinion, prevail, without prejudice to the fact that the result may not entitle the claim because it is time-barred.

SUMMARY: In large-scale events such as the Paris Olympics certain companies will attempt to “wildly” associate their brand with the event through a practice called “ambush marketing”, defined by caselaw as “an advertising strategy implemented by a company in order to associate its commercial image with that of an event, and thus to benefit from the media impact of said event, without paying the related rights and without first obtaining the event organizer’s authorization” (Paris Court of Appeal, June 8, 2018, Case No 17/12912). A risky and punishable practice, that might sometimes yet be an option yet.

Key takeaways

  • Ambush marketing might be a punished practice but is not prohibited as such;
  • As a counterpart of their investment, sponsors and official partners benefit from an extensive legal protection against all forms of ambush marketing in the event concerned, through various general texts (counterfeiting, parasitism, intellectual property) or more specific ones (e.g. sport law);
  • The Olympics Games are subject to specific regulations that further strengthen this protection, particularly in terms of intellectual property.
  • But these rights are not absolute, and they are still thin opportunities for astute ambush marketing.

The protection offered to sponsors and official partners of sporting and cultural events from ambush marketing

With a budget of over 4 billion euros, the 2024 Olympic and Paralympic Games are financed mostly by various official partners and sponsors, who in return benefit from a right to use Olympic and Paralympic properties to be able to associate their own brand image and distinctive signs with these events.

Ambush marketing is not punishable as such under French law, but several scattered texts provide extensive protection against ambush marketing for sponsors and partners of sporting or cultural continental-wide or world-wide events. Indeed, sponsors are legitimately entitled to peacefully enjoy the rights offered to them in return for large-scale investments in events such as the FIFA or rugby World Cups, or the Olympic Games.

In particular, official sponsors and organizers of such events may invoke:

  • the “classic” protections offered by intellectual property law (trademark law and copyright) in the context of infringement actions based on the French Intellectual Property Code,
  • tort law (parasitism and unfair competition based on article 1240 of the French Civil Code);
  • consumer law (misleading commercial practices) based on the French Consumer Code,
  • but also more specific texts such as the protection of the exploitation rights of sports federations and sports event organizers derived from the events or competitions they organize, as set out in article L.333-1 of the French Sports Code, which gives sports event organizers an exploitation monopoly.

The following ambush marketing practices were sanctioned on the abovementioned grounds:

  • The use of a tennis competition name and of the trademark associated with it during the sporting event: The organization of online bets, by an online betting operator, on the Roland Garros tournament, using the protected sign and trademark Roland Garros to target the matches on which the bets were organized. The unlawful exploitation of the sporting event, was punished and 400 K€ were allowed as damages, based on article L. 333-1 of the French Sports Code, since only the French Tennis Federation (F.F.T.) owns the right to exploit Roland Garros. The use of the trademark was also punished as counterfeiting (with 300 K€ damages) and parasitism (with 500 K€ damages) (Paris Court of Appeal, Oct. 14, 2009, Case No 08/19179);
  • An advertising campaign taking place during a film festival and reproducing the event’s trademark: The organization, during the Cannes Film Festival, of a digital advertising campaign by a cosmetics brand through the publication on its social networks of videos showing the beauty makeovers of the brand’s muses, in some of which the official poster of the Cannes Film Festival was visible, one of which reproduced the registered trademark of the “Palme d’Or”, was punished on the grounds of copyright infringement and parasitism with a 50 K€ indemnity (Paris Judicial Court, Dec. 11, 2020, Case No19/08543);
  • An advertising campaign aimed at falsely claiming to be an official partner of an event: The use, during the Cannes Film Festival, of the slogan “official hairdresser for women” together with the expressions “Cannes” and “Cannes Festival”, and other publications falsely leading the public to believe that the hairdresser was an official partner, to the detriment of the only official hairdresser of the Cannes festival, was punished on the grounds of unfair competition and parasitism with a 50 K€ indemnity (Paris Court of Appeal, June 8, 2018, Case No 17/12912).

These financial penalties may be combined with injunctions to cease these behaviors, and/or publication in the press under penalty.

An even greater protection for the Paris 2024 Olympic Games

The Paris 2024 Olympic Games are also subject to specific regulations.

Firstly, Article L.141-5 of the French Sports Code, enacted for the benefit of the “Comité national olympique et sportif français” (CNOSF) and the “Comité de l’organisation des Jeux Olympiques et Paralympiques de Paris 2024” (COJOP), protects Olympic signs such as the national Olympic emblems, but also the emblems, the flag, motto and Olympic symbol, Olympic anthem, logo, mascot, slogan and posters of the Olympic Games, the year of the Olympic Games “city + year”, the terms “Jeux Olympiques”, “Olympisme”, “Olympiade”, “JO”, “olympique”, “olympien” and “olympienne”. Under no circumstances may these signs be reproduced or even imitated by third-party companies. The COJOP has also published a guide to the protection of the Olympic trademark, outlining the protected symbols, trademarks and signs, as well as the protection of the official partners of the Olympic Games.

Secondly, Law no. 2018-202 of March 26, 2018 on the organization of the 2024 Olympic and Paralympic Games adds even more specific prohibitions, such as the reservation for official sponsors of advertising space located near Olympic venues, or located on the Olympic and Paralympic torch route. This protection is unique in the context of the Olympic Games, but usually unregulated in the context of simple sporting events.

The following practices, for example, have already been sanctioned on the above-mentioned grounds:

  • Reproduction of a logo imitating the well-known “Olympic” trademark on a clothing collection: The marketing of a collection of clothing, during the 2016 Olympic Games, bearing a logo (five hearts in the colors of the 5 Olympic colors intersecting in the image of the Olympic logo) imitating the Olympic symbol in association with the words “RIO” and “RIO 2016”, was punished on the grounds of parasitism (10 K€ damages) and articles L. 141-5 of the French Sports Code (35 K€) and L. 713-1 of the French Intellectual Property Code (10 K€ damages) (Paris Judicial Court, June 7, 2018, Case No16/10605);
  • The organization of a contest on social networks using protected symbols: During the 2018 Olympic Games in PyeongChang, a car rental company organized an online game inviting Internet users to nominate the athletes they wanted to win a clock radio, associated with the hashtags “#JO2018” (“#OJ2018”), “#Jeuxolympiques” (“#Olympicsgame”) or “C’est parti pour les jeux Olympiques” (“let’s go for the Olympic Games”) without authorization from the CNOSF, owner of these distinctive signs under the 2018 law and article L.141-5 of the French Sport Code and punished on these grounds with 20 K€ damages and of 10 K€ damages for parasitism (Paris Judicial Court, May 29, 2020, n°18/14115).

These regulations offer official partners greater protection for their investments against ambush marketing practices from non-official sponsors.

Some marketing operations might be exempted

An analysis of case law and promotional practices nonetheless reveals the contours of certain advertising practices that could be authorized (i.e. not sanctioned by the above-mentioned texts), provided they are skillfully prepared and presented. Here are a few exemples :

  • Communication of information for advertising purposes: The use of the results of a rugby match and the announcement of a forthcoming match in a newspaper to promote a motor vehicle and its distinctive features was deemed lawful: “France 13 Angleterre 24 – the Fiat 500 congratulates England on its victory and looks forward to seeing the French team on March 9 for France-Italy” (France 13 Angleterre 24 – la Fiat 500 félicite l’Angleterre pour sa victoire et donne rendez-vous à l’équipe de France le 9 mars pour France-Italie) the judges having considered that this publication “merely reproduces a current sporting result, acquired and made public on the front page of the sports newspaper, and refers to a future match also known as already announced by the newspaper in a news article” (Court of cassation, May 20, 2014, Case No 13-12.102).
  • Sponsorship of athletes, including those taking part in Olympic competitions: Subject to compliance with the applicable regulatory framework, particularly as regards models, any company may enter into partnerships with athletes taking part in the Olympic Games, for example by donating clothing bearing the desired logo or brand, which they could wear during their participation in the various events. Athletes may also, under certain conditions, broadcast acknowledgements from their partner (even if unofficial). Rule 40 of the Olympic Charter governs the use of athletes’, coaches’ and officials’ images for advertising purposes during the Olympic Games.

The combined legal and marketing approach to the conception and preparation of the message of such a communication operation is essential to avoid legal proceedings, particularly on the grounds of parasitism; one might therefore legitimately contemplate advertising campaigns, particularly clever, or even malicious ones.

In questo primo episodio delle serie Distribution Talks di Legalmondo, ho parlato con Ignacio Alonso, avvocato di Madrid con una vasta esperienza in materia di distribuzione commerciale internazionale.

Principali punti della discussione:

  • in Spagna non esiste una legge specifica per gli accordi di distribuzione, che sono regolati dalle norme generali del codice del commercio;
  • è importante dunque redigere un contratto chiaro e completo, che sarà la fonte principale dei diritti e delle obbligazioni delle parti;
  • è anche bene conoscere la giurisprudenza spagnola in materia di distribuzione commerciale, che in alcuni casi applica per analogia la legge sull’agenzia commerciale.
  • le problematiche più comuni che coinvolgono produttori stranieri che distribuiscono in Spagna nascono al momento della cessazione del rapporto, in particolare perché la giurisprudenza riconosce al distributore cessato un’indennità di clientela o avviamento, se ricorrono presupposti simili a quelli previsti dalla normativa agenziale.
  • un’altra vertenza frequente riguarda la congruità del preavviso per il recesso dal contratto, specie se non esiste un patto tra le parti: il consiglio è di seguire quanto prevede la normativa agenziale, e dunque stabilire un preavviso minimo di un mese per ogni anno di durata del contratto, sino a 6 mesi per accordi che durano da più di 5 anni;
  • per quanto riguarda gli strumenti per la risoluzione delle controversie, la mediazione è una possibilità da considerare con attenzione, perché è rapida, economica e consente di ricercare una soluzione condivisa in modo flessibile, senza interrompere la relazione commerciale.
  • se la mediazione fallisce, le parti possono prevedere il ricorso all’arbitrato o al giudice statale: la scelta dipende dalle circostanze specifiche del caso e un fattore a favore della giurisdizione è la possibilità di appello, che è invece esclusa nel caso di arbitrato.

 

Approfondimenti

https://youtu.be/ZmNjMrdKDJM?si=ySCcUf_Hz25nQN3Y

Sintesi

il 1° giugno 2022, il Regolamento UE n. 720/2022, ovvero il nuovo Regolamento di esenzione per categoria relativo agli accordi verticali (anche “Vertical Block Exemption Regulation”, di seguito: “VBER”), ha sostituito la precedente versione (Regolamento UE n. 330/2010), scaduta il 31 maggio 2022.

Il nuovo VBER e le nuove linee guida verticali (di seguito: “Linee guida”) hanno recepito le principali osservazioni raccolte durante la vigenza del precedente VBER e contengono alcune disposizioni rilevanti per la disciplina di tutti gli accordi B2B tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura.

In questo articolo ci concentreremo sull’impatto del nuovo VBER sulle vendite tramite le piattaforme digitali, elencando le principali novità che impattano sulle catene distributive, tra cui anche le piattaforme per la commercializzazione di prodotti/servizi.

La disciplina generale degli accordi verticali

L’articolo 101(1) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”) vieta tutti gli accordi che impediscono, restringono o falsano la concorrenza all’interno del mercato dell’UE, e ne elenca anche le principali tipologie, tra cui la fissazione dei prezzi, la compartimentazione dei mercati, le limitazioni alla produzione/sviluppo/investimenti, le clausole abusive, ecc.

Tuttavia, l’articolo 101(3) del TFUE esenta da tali restrizioni gli accordi che contribuiscono a migliorare il mercato dell’UE, i quali dovranno essere individuati in un apposito regolamento di categoria. Il VBER è il regolamento che definisce la categoria degli accordi verticali (cioè gli accordi tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura), determinando quali di questi accordi sono esenti dal divieto di cui all’articolo 101(1) del TFUE.

In breve, si presume che gli accordi verticali siano esenti (e quindi validi) se non contengono le cosiddette “restrizioni fondamentali” (cioè gravi restrizioni della concorrenza, come il divieto assoluto di vendita in un territorio o la determinazione da parte del produttore del prezzo di rivendita del distributore) e se la quota di mercato di nessuna delle parti supera il 30%.

Gli accordi esenti beneficiano di quello che è stato definito il “safe harbour” (porto sicuro) del VBER. Gli altri, invece, saranno soggetti al divieto generale di cui all’articolo 101(1) del TFUE, a meno che non possano beneficiare di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101(3) del TFUE.

Le novità introdotte dal nuovo VBER per le piattaforme online

Il primo aspetto rilevante riguarda la classificazione delle piattaforme, in quanto la Commissione europea ha escluso che le piattaforme online generalmente operino come agenti di commercio.

Mentre non ci sono mai stati dubbi riguardo alle piattaforme che operano acquistando e rivendendo prodotti (esempio classico: Amazon Retail), ne erano sorti diversi riguardo a quelle piattaforme che si limitano a promuovere i prodotti di terzi, senza svolgere l’attività di acquisto e rivendita (esempio classico: Amazon Marketplace).

Con l’introduzione della nuova versione del VBER, la Commissione europea ha voluto sgombrare il campo da qualunque dubbio, esplicitando che i fornitori di servizi di intermediazione (come le piattaforme online) si qualificano come fornitori (e non come agenti commerciali) ai sensi del VBER. Ciò riflette l’approccio del Regolamento (UE) 2019/1150 (“Regolamento P2B”), che per la prima volta ha dettato una disciplina specifica per le piattaforme digitali. Il regolamento prevede una serie di regole per creare un “ambiente equo, trasparente e prevedibile per le imprese e i clienti più piccoli” e secondo la ratio del Digital Markets Act, che vieta alcune pratiche utilizzate dalle grandi piattaforme che agiscono come “gatekeeper”.

Di conseguenza, tutti i contratti conclusi tra produttori e piattaforme (definite come “fornitori di servizi di intermediazione online”) sono soggetti a tutte le restrizioni imposte dal VBER, come quelle inerenti alla determinazione del prezzo, dei territori in cui o i clienti ai quali possono essere venduti i beni o i servizi intermediati, o ancora le restrizioni relative alla pubblicità e alla vendita online.

Così, per fare un esempio, l’operatore di una piattaforma non può imporre al produttore un prezzo di vendita fisso o minimo per una transazione promossa attraverso la piattaforma stessa.

Il secondo aspetto di maggiore impatto riguarda le piattaforme ibride, ossia le piattaforme che operano anche nel mercato rilevante per la vendita di beni o servizi intermediati. Amazon è l’esempio più noto, in quanto è al contempo un fornitore di servizi di intermediazione (“Amazon Marketplace”) e, allo stesso tempo, distribuisce i prodotti di queste parti (“Amazon Retail”). Abbiamo già approfondito la distinzione tra questi due modelli di business (e le conseguenze in termini di violazione della proprietà intellettuale) qui.

Il nuovo VBER esplicitamente non si applica alle piattaforme ibride. Pertanto, gli accordi conclusi tra tali piattaforme e i produttori sono soggetti alle limitazioni del TFUE, in quanto tali fornitori possono avere un incentivo a favorire le proprie vendite, nonché la capacità di influenzare l’esito della concorrenza tra le imprese che utilizzano i loro servizi di intermediazione online.

Tali accordi devono essere valutati singolarmente ai sensi dell’articolo 101 del TFUE, in quanto non limitano necessariamente la concorrenza ai sensi del TFUE, oppure possono soddisfare le condizioni di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

Il terzo aspetto più rilevante riguarda gli obblighi di parità (detti anche clausole della nazione più favorita o “most favoured nation”, MFN), ossia le disposizioni contrattuali tramite cui un venditore (direttamente o anche indirettamente) si impegna a offrire all’acquirente le migliori condizioni tra quelle che mette a disposizione di qualsiasi altro acquirente. La previsione è di particolare rilievo perché i termini contrattuali delle piattaforme contengono spesso clausole di obbligo di parità, al fine di impedire agli utenti di offrire i loro prodotti/servizi a prezzi inferiori o a condizioni migliori sui loro siti web o su altre piattaforme.

Il nuovo VBER si occupa esplicitamente delle clausole di parità, distinguendo tra clausole il cui scopo è quello di vietare agli utenti di una piattaforma di vendere beni o servizi a condizioni più favorevoli attraverso piattaforme concorrenti (le cosiddette “clausole di parità ampia“), e clausole che vietano le vendite a condizioni più favorevoli solo per quanto riguarda i canali gestiti direttamente dagli utenti (le cosiddette “clausole di parità stretta“).

Le clausole di parità ampia non beneficiano dell’esenzione VBER; pertanto, tali obblighi devono essere valutati individualmente ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

D’altro canto, le clausole di parità stretta continuano a beneficiare dell’esenzione già concessa dal vecchio VBER se non superano la soglia del 30% della quota di mercato rilevante stabilita dall’articolo 3 del nuovo VBER. Tuttavia, le nuove linee guida mettono in guardia rispetto all’utilizzo di obblighi di parità eccessivamente ristretti da parte di piattaforme online che coprono una quota significativa di utenti, affermando che se non vi sono prove di effetti pro-concorrenziali, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato.

Impatto e conseguenze

Il nuovo VBER è entrato in vigore il 1° giugno 2022 ed è già applicabile agli accordi firmati dopo tale data. Gli accordi già in vigore al 31 maggio 2022 che soddisfano le condizioni per l’esenzione ai sensi dell’attuale VBER ma non soddisfano i requisiti del nuovo VBER beneficeranno di un periodo di transizione di un anno.

Il nuovo regime sarà il campo di gioco per tutte le vendite su piattaforma nei prossimi 12 anni (il regolamento scade il 31 maggio 2034). Ad oggi, le novità piuttosto restrittive sulle piattaforme ibride e gli obblighi di parità renderanno probabilmente necessarie revisioni sostanziali degli accordi commerciali esistenti.

Ecco, quindi, alcuni consigli per gestire i contratti e i rapporti con le piattaforme online:

  • il nuovo VBER è l’occasione giusta per rivedere le reti di distribuzione esistenti. La revisione dovrà considerare non solo i nuovi limiti normativi (ad esempio, il divieto di clausole di parità ampia), ma anche la nuova disciplina riservata alle piattaforme ibride e alla distribuzione duale, al fine di coordinare i diversi canali distributivi nel modo più efficiente possibile, secondo i paletti fissati dal nuovo VBER e dalle Linee Guida;
  • è probabile che le piattaforme giochino un ruolo ancora più importante nel prossimo decennio; è quindi essenziale considerare questi canali di vendita fin dall’inizio, coordinandoli con gli altri già esistenti (vendita al dettaglio, vendita diretta, distributori, ecc.) per evitare di compromettere la commercializzazione di prodotti o servizi;
  • l’attenzione del legislatore europeo verso le piattaforme sta crescendo. Osservando la disciplina a partire dal VBER, non bisognerebbe dimenticare che le piattaforme sono soggette a una moltitudine di altri regolamenti europei, che stanno gradualmente disciplinando il settore e che devono essere presi in considerazione quando si stipulano contratti con le piattaforme stesse. Il riferimento non è solo al recente Digital Market Act e al Regolamento P2B, ma anche alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale sulle piattaforme, che – come abbiamo già visto – è una questione tuttora aperta.

Riassunto

Per evitare dispute con i fornitori importanti, è consigliabile pianificare gli acquisti a medio e lungo termine e non operare solo sulla base si ordini e conferme d’ordine. La pianificazione consente di concordare la durata dell’ accordo di fornitura, i volumi minimi dei prodotti da consegnare e le tempistiche di consegna, i prezzi e le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati nel tempo.
L’utilizzo di un contratto quadro di acquisto può aiutare a evitare incertezze future e consente di utilizzare varie opzioni per gestire le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime a seconda della tipologia di prodotti , come l’indicizzazione automatica del prezzo o l’accordo di rinegoziazione in caso di oscillazioni della materia prima oltre un certo termine di tolleranza stabilito.

Leggo in un comunicato stampa: “In questi giorni l’industria del vetro sta inviando alle imprese vitivinicole nuove modifiche unilaterali dei contratti con variazioni dei prezzi del 20%...”

Cosa si può fare per evitare l’imposizione di aumenti da parte dei fornitori?

  • Conoscere i propri diritti e agire in modo informato
  • Pianificare e organizzare la supply chain 

Il mio fornitore ha diritto ad aumentare i prezzi?

Se i contratti sono già stati conclusi, ad esempio gli ordini sono già stati confermati dal fornitore, la risposta è spesso no.

Non è legittimo richiedere la variazione del prezzo, e meno ancora comunicarla in via unilaterale, con la minaccia di annullare l’ordine o non consegnare la merce se non venisse accolta la richiesta.

Se mi dice che si tratta di forza maggiore?

È sbagliato: l’aumento dei costi non rappresenta una causa di forza maggiore, ma semmai di eccessiva onerosità sopravvenuta, che è molto difficile ricorra.

Per approfondire questo punto puoi vedere questo video.

E se il fornitore annullasse l’ordine, aumentasse unilateralmente il prezzo, o non consegnasse la merce?

Sarebbe inadempiente e sarebbe tenuto a risarcire i danni causati dal mancato rispetto dei suoi obblighi contrattuali.

Come si può evitare il braccio di ferro con i fornitori?

Gli strumenti ci sono, basta conoscerli e usarli.

Occorre pianificare gli acquisti a medio termine, concordando con i fornitori un programma nel quale si stabiliscano:

  • le quantità di prodotti che verranno ordinate
  • i termini di consegna
  • la durata dell’accordo
  • i prezzi dei prodotti o delle materie prime
  • le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati

Esiste uno strumento molto efficace

L’accordo che si può utilizzare è il contratto quadro di acquisto, con il quale le parti negoziano gli elementi sopra indicati, che saranno validi per il periodo di tempo stabilito.

Una volta concluso l’accordo, seguiranno gli ordini dei prodotti, che saranno regolati dal contratto quadro, senza bisogno di rinegoziare ogni volta il contenuto delle singole forniture.

Per un approfondimento su questo contratto, vedi questo articolo.

  • Sì ma: i miei fornitori non me lo firmeranno mai!

Perché? Fatevelo spiegare.

Questo tipo di accordo è nell’interesse di entrambe le parti, perché consente di pianificare i futuri ordinativi e di avere certezza sul se, quando e quanto possa essere cambiato il prezzo.

Al contrario, agire senza accordi scritti obbliga le parti ad operare in un contesto di incertezza, nel quale da un giorno all’altro si possono chiedere aumenti di prezzi e rifiutare le forniture se le richieste non vengono accettate.

Come si disciplinano i cambiamenti del prezzo per le forniture future?

Esistono diverse possibilità, a seconda della tipologia di prodotti o servizi e delle materie prime o dell’energia rilevanti nella determinazione del prezzo finale.

  • Una prima opzione è quella di indicizzare automaticamente il prezzo: ad esempio se il costo del barile del petrolio Brent aumenta / diminuisce del 10%, la parte interessata ha diritto a richiedere un corrispettivo adeguamento del prezzo del prodotto in tutti gli ordinativi trasmessi a partire dalla settimana successiva.
  • Un’alternativa è prevedere che in caso di oscillazione della materia prima di riferimento (ad esempio l’indice LME Aluminium del London Stock Exchange) oltre una certa soglia, la parte interessata possa chiedere di rinegoziare il prezzo per gli ordinativi del periodo successivo all’aumento.

E se le parti non si mettessero d’accordo sui nuovi prezzi?

  • È possibile prevedere che il contratto si sciolga, o che la determinazione sia rimessa ad un terzo soggetto, che agisca come arbitratore e indichi i nuovi prezzi per i futuri ordini.

Riassunto

Il contratto quadro di fornitura è un accordo che regola una serie di future vendite e acquisti tra due soggetti (cliente e fornitore) che si svolgono nel corso di un certo arco temporale. Questo accordo determina gli elementi principali dei futuri contratti come il prezzo, i volumi di prodotto, i termini di consegna, le specifiche tecniche o di qualità e la durata dell’accordo.

Il contratto quadro è utile per assicurare la continuità di fornitura da parte di uno o più fornitori di un certo prodotto che è essenziale per pianificare l’attività industriale o commerciale. Mentre le condizioni generali di acquisto o vendita sono le regole che si applicano a tutti i fornitori o clienti della società. Il contratto quadro è consigliabile concluderlo con i fornitori essenziali per la continuità dell’attività di impresa, in generale o in relazione ad un particolare progetto.

Di cosa parlo in questo articolo:

  • Che cosa è il contratto quadro di fornitura?
  • Qual è la funzione del contratto quadro di fornitura?
  • La differenza con le condizioni generali di vendita o acquisto
  • Quando concludere un contratto quadro di acquisto?
  • Quando è utile concludere un contratto quadro di vendita?
  • Il contenuto del contratto quadro di fornitura
  • Clausola di revisione dei prezzi ed eccessiva onerosità sopravvenuta
  • I termini di consegna nel contratto quadro di fornitura
  • La clausola di Forza Maggiore nei contratti di vendita internazionale 
  • Vendita internazionale: legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie

Che cos’è il contratto quadro di fornitura?

Si tratta di un accordo che regola una serie di future vendite e acquisti tra due soggetti (cliente e fornitore), che si svolgono nel corso di un certo arco temporale.

Si parla dunque di contratto “quadro” (framework agreement, in inglese) perché è un accordo che stabilisce le regole di una futura serie di contratti di compravendita, determinandone gli elementi principali, come il prezzo, i volumi di prodotto che si prevedono di vendere e acquistare, i termini di consegna dei prodotti, le specifiche tecniche o di qualità, la durata dell’accordo.

Dopo avere concluso il contratto quadro le Parti si limiteranno a scambiarsi gli ordinativi e le conferme d’ordine, concludendo una serie di autonomi contratti di vendita, senza dover ridiscutere i patti già definiti nell’accordo quadro.

A seconda dei punti di vista, questo contratto è anche denominato contratto quadro di vendita (se lo utilizza il venditore/fornitore con i propri clienti) o contratto quadro di acquisto (se lo propone il cliente ai suoi fornitori).

Qual è la funzione del contratto quadro di fornitura?

È utile prevedere un contratto quadro in tutti i casi in cui le Parti intendono procedere ad una serie di acquisti / vendite di prodotti continuata nel tempo e hanno interesse a dare stabilità all’accordo commerciale, determinandone gli elementi principali.

In particolare, l’accordo quadro di acquisto è utile all’impresa che vuole assicurarsi la continuità di fornitura da parte di uno o più fornitori di un certo prodotto che è essenziale per pianificare la sua attività industriale o commerciale (materie prime, semilavorati, componenti).

Concludendo il contratto quadro l’impresa può ottenere, ad esempio, un impegno del fornitore a fornire un certo volume minimo di prodotti, ad un certo prezzo, con modalità e specifiche tecniche già condivise, per un certo periodo temporale.

Questo accordo è utile anche, specularmente, al venditore/fornitore, che può programmare le vendite del periodo e organizzare, a sua volta, la catena di fornitura che gli consente l’approvvigionamento delle materie prime e dei componenti necessari alla produzione dei prodotti.

Qual è la differenza tra contratto quadro di acquisto o vendita e condizioni generali?

Mentre Il contratto quadro è un accordo che si utilizza con uno o più fornitori particolari, per un certo prodotto e per un certo arco temporale, determinando gli elementi essenziali dei futuri contratti, le condizioni generali di acquisto (o vendita) sono le regole che si applicano a tutti i fornitori (o clienti) della società.

Il primo accordo, dunque, viene negoziato e definito caso per caso in relazione ad un rapporto commerciale con un certo fornitore, mentre le condizioni generali sono predisposte unilateralmente dall’impresa, e i clienti o i fornitori (a seconda che si tratti di condizioni di vendita o di acquisto) si limitano ad aderire e ad accettare che le condizioni generali si applichino al singolo ordine e/o ai futuri contratti.

Può accadere che i due accordi coesistano: in tal caso è bene specificare quale contratto debba prevalere in caso di discrepanza tra le diverse previsioni (solitamente si prevede questa gerarchia, che va dallo speciale al generale: ordine – conferma d’ordine / contratto quadro / condizioni generali di acquisto).

Quando è importante concludere un contratto quadro di acquisto?

È consigliabile concludere un contratto quadro con il fornitore / i fornitori essenziale / i per la continuità dell’attività di impresa, in generale o in relazione ad un particolare progetto. 

È particolarmente importante concludere questo accordo quando si ha a che fare con un mono-fornitore o con un fornitore che sarebbe molto difficile sostituire se cessasse di vendere i prodotti all’impresa acquirente.

I rischi che si mira ad evitare o diminuire sono le cosiddette rotture di stock, ossia le interruzioni di fornitura per la mancanza della disponibilità dei prodotti da parte del fornitore, o perché i prodotti sono disponibili ma le parti non trovano l’accordo sui tempi di consegna o sul prezzo di vendita.

Un altro risultato che si può conseguire è quello di vincolare un fornitore strategico per un certo periodo, concordando che riservi una certa quota della produzione a favore del compratore a condizioni predeterminate evitando, per la durata dell’accordo, la concorrenza con offerte di terzi interessati ai prodotti.

Quando è importante concludere un contratto quadro di vendita?

Questo accordo consente al venditore / fornitore di pianificare le vendite verso un certo cliente e quindi di programmare ed organizzare la propria capacità produttiva e logistica per il periodo concordato, evitando costi extra o ritardi.

Pianificare le vendite consente anche di gestire correttamente le incombenze finanziarie e i flussi di cassa con una visione di medio termine, armonizzando gli impegni  e gli investimenti con le vendite ai propri clienti.

Qual è il contenuto del contratto quadro di fornitura?

Non esiste un modello standard di questo contratto, che è nato dalla prassi commerciale per rispondere alle esigenze indicate in precedenza.

Generalmente l’accordo prevede un arco temporale determinato (ad esempio 12 mesi) nel quale le parti si impegnano a concludere una serie di compravendite di prodotti, determinando il prezzo e le modalità di fornitura e i principali patti dei futuri contratti di vendita.

Le clausole più importanti sono:

  • l’identificazione dei prodotti e delle specifiche tecniche (spesso individuate in un allegato)
  • il volume minimo / massimo di forniture
  • l’eventuale obbligo di acquisto / vendita di un minimo-massimo volume di prodotti
  • il calendario degli ordinativi
  • i tempi di consegna
  • la determinazione del prezzo e le condizioni per la sua eventuale modifica (si veda anche il prossimo paragrafo)
  • i casi di impedimento alla prestazione (Forza Maggiore)
  • i casi di eccessiva onerosità sopravvenuta (Hardship)
  • le penali per il ritardo o per l’inadempimento o per il mancato raggiungimento dei volumi concordati
  • la gerarchia tra il contratto quadro e gli ordinativi ed eventuali altri contratti tra le parti
  • la legge applicabile e le modalità di risoluzione delle controversie (specialmente in contratti internazionali)

Come gestire la revisione dei prezzi in un contratto di fornitura?

Una clausola molto importante, specie in tempi di forti oscillazioni dei prezzi delle materie prime, dei trasporti e dell’energia, è quella relativa alla revisione dei prezzi.

In mancanza di un accordo su questo tema, infatti, le parti si accollano il rischio dell’aumento del prezzo impegnandosi a rispettare le condizioni originariamente pattuite e, salvi casi eccezionali (in cui la fluttuazione è forte, interessa un arco temporale ristretto ed è causata da eventi imprevedibili), è molto difficile poter invocare la sopravvenuta eccessiva onerosità, che consente di rinegoziare il prezzo oppure di risolvere il contratto.

È consigliabile, per evitare l’incertezza che si genera in caso di fluttuazioni dei prezzi, concordare nel contratto sia i meccanismi per la revisione del prezzo (ad esempio l’indicizzazione automatica seguendo la quotazione di una certa materia prima), sia la cosiddetta clausola di Hardship o Sopravvenuta Eccessiva Onerosità, stabilendo quali sono i limiti di oscillazione dei prezzi accettati dalle parti e cosa accade se le variazioni oltrepassano questi limiti, prevedendo l’obbligo di rinegoziare il prezzo, o lo scioglimento del contratto se non viene trovato l’accordo entro un certo termine.

Come gestire i termini di consegna in un rapporto di fornitura?

Un altro patto chiave in un rapporto di fornitura di medio / lungo termine riguarda i termini di consegna: in questo caso occorre conciliare l’interesse dell’acquirente al rispetto delle date convenute con quello del fornitore ad evitare richieste di danni in caso di ritardo, soprattutto in caso di vendite che richiedano trasporti intercontinentali.

La prima cosa da chiarire in proposito riguarda la natura dei termini di consegna: si tratta di termini essenziali oppure indicativi? Nel primo caso la parte interessata ha diritto a risolvere (ossia sciogliere) il contratto in caso di mancato rispetto del termine, nel secondo invece si possono prevedere oneri di diligenza, di informazione e di notifica tempestiva dei ritardi, mentre la risoluzione non è un rimedio che può essere automaticamente azionato in caso di ritardo.

Uno strumento utile, a questo proposito, è quello della clausola penale: con questo patto si concorda che per ogni giorno / settimana / mese di ritardo sia dovuta una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno a favore della parte danneggiata dal ritardo.

La penale, se quantificata in modo corretto e non eccessivo, è utile per entrambe le parti, perché consente di predeterminare i danni che possono essere invocati per il ritardo, liquidandoli in una somma equa e determinata: di conseguenza, il venditore non è esposto a domande di risarcimento legate a fattori fuori dal suo controllo, mentre il compratore può agevolmente calcolare l’indennizzo legato al ritardo, senza necessità di altre prove.

Lo stesso meccanismo, tra l’altro, si può adottare per disciplinare il ritardo del compratore nel prendere in consegna i beni messi a disposizione dal venditore.

Occorre tenere a mente, infine, che è buona prassi specificare il tetto massimo della penale (ad esempio il 10% del prezzo del prodotto) e un periodo massimo di tolleranza del ritardo, oltre il quale la parte interessata ha diritto di sciogliere il contratto, trattenendo la penale.

La clausola di Forza Maggiore nei contratti di vendita internazionale

Una situazione che viene spesso confusa con l’eccessiva onerosità, ma in realtà è molto diversa, è quella relativa alla Forza Maggiore, ossia alla impossibilità sopravvenuta di adempiere all’obbligazione contrattuale, a causa di un evento fuori dal ragionevole controllo della parte colpita, che non avrebbe potuto ragionevolmente essere previsto e i cui effetti non possano essere superati con un ragionevole sforzo.

La funzione di questa clausola è quella di stabilire in modo chiaro quando le parti ritengono che possa essere invocata la Forza Maggiore, quali eventi specifici vengono compresi (ad esempio un lock-down dello stabilimento produttivo per ordine dell’autorità) e quali sono le conseguenze sulle obbligazioni delle parti (ad esempio la sospensione dell’obbligazione per un certo periodo, finché dura la causa di impossibilità ad adempiere, oltre il quale è possibile che la parte interessata all’adempimento dichiari di voler sciogliere il contratto).

Occorre prestare grande attenzione alla redazione di questa clausola, perché se la formulazione è generica (come spesso accade) il rischio è che sia di poca utilità; è bene verificare, inoltre, che la regolamentazione della forza maggiore sia conforme a quanto prevedere la legge applicabile al contratto (v. punto successivo – qui un approfondimento con indicazione del regime previsto da 42 leggi nazionali).

Legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie 

Se il cliente o il fornitore ha sede all’estero occorre tenere presente alcune importanti differenze: la prima è la lingua del contratto, che deve essere comprensibile alla controparte straniera, e sarà quindi solitamente in inglese, o in un’altra lingua comune alle parti, eventualmente anche in doppia lingua con testo a fronte. 

La seconda questione da tenere a mente riguarda la legge applicabile, che è bene sia espressamente indicata nel contratto: l’argomento è molto vasto e in questa sede ci limitiamo a dire che la decisione sulla legge applicabile va presa caso per caso, in modo consapevole: non sempre, infatti, è utile richiamare l’applicazione della legge italiana.

Va poi ricordato che nella maggioranza dei contratti di vendita internazionale si applica la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili (“CISG”), che è una legge comune alle parti del contratto, equilibrata, molto chiara e facile da consultare: la CISG si applica automaticamente ed è bene non escluderla.

Infine, in un contratto quadro di fornitura internazionale è consigliabile prestare attenzione all’individuazione delle modalità di risoluzione delle controversie: non esiste una soluzione che vada bene per tutti i contratti, ci limitiamo a ricordare che, anche in questo caso, non sempre la scelta della giurisdizione italiana è quella giusta (anzi, spesso può rivelarsi controproducente): chi fosse interessato ad un approfondimento può leggere questo articolo sul blog di Legalmondo.

Riassunto

Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

Di cosa parlo in questo articolo: 

  • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
  • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
  • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
  • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
  • La durata del contratto di distribuzione all’estero
  • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
  • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
  • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
  • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
  • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

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Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

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Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

 Le modalità di risoluzione delle controversie

Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

Come possiamo aiutarti

La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 63 paesi: scrivici la tua esigenza.

 

Ignacio Alonso

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    France: Ambush marketing and the Paris 2024 Olympic Games

    4 Marzo 2024

    • Francia
    • Distribuzione
    • Marchi e brevetti

    La legge contro l’ultra fast-fashion è stata concepita per fronteggiare la crescente preoccupazione riguardante l’impatto ambientale, economico e sulla salute provocato dall’inondazione del mercato con tessuti e accessori di moda da parte di giganti come SHEIN, TEMU, PRIMARK e altri. Queste aziende, spesso trascurando le conseguenze delle loro pratiche, hanno contribuito significativamente all’incremento delle emissioni di gas serra attribuite all’industria tessile, che ora si stima essere responsabile per circa l’8% del totale globale.

    In un contesto dove la produzione globale di abbigliamento ha visto un raddoppio in soli 14 anni e la durata di vita degli indumenti si è ridotta di un terzo, il marchio SHEIN ha registrato una crescita esponenziale del 100% tra il 2021 e il 2022, evidenziando ulteriormente la problematica del fast fashion che domina il mercato francese, nonostante in alcuni settori si stia vivendo una rinascita dell’artigianalità e del design made in France.

    La risposta delle autorità francesi si è concretizzata nel disegno di legge n. 2129, volto a ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile, proposto da un deputato del Governo e adottato all’unanimità dall’Assemblea Nazionale il 14 marzo 2024, che nelle prossime settimane verrà esaminato dal Senato con una procedura accelerata, prima della definitiva adozione.

    Questa normativa si propone di sensibilizzare i consumatori sull’importanza della sobrietà e della sostenibilità nell’industria della moda, promuovendo pratiche di riutilizzo, riparazione, e riciclaggio, e introducendo penalizzazioni per i produttori che non rispettano determinati standard ecologici.

    Di seguito le misure principali.

    1. Definizione legale di fast-fashion e obblighi informativi

    Viene istituita una definizione legale di fast-fashion, identificato come la pratica di “messa a disposizione o distribuzione di un gran numero di riferimenti a nuovi prodotti (…) anche attraverso un fornitore di mercato online” e gli operatori di questo settore hanno l’obbligo di “visualizzare sulle loro piattaforme di vendita online messaggi che incoraggino la sobrietà, il riutilizzo, la riparazione e il riciclaggio dei prodotti e che sensibilizzino sul loro impatto ambientale. Il messaggio deve essere visualizzato in modo chiaro, leggibile e comprensibile su qualsiasi formato utilizzato, in prossimità del prezzo. Il contenuto dei messaggi è definito per decreto.”

    Questa norma disciplina tutte le vendite online (anche su piattaforme) mentre non include le piattaforme per la rivendita di prodotti invenduti.

    La violazione di questa disposizione comporta sanzioni amministrative fino a 3.000 € per le persone fisiche e 15.000 € per le persone giuridiche.

    2. Limiti alla pubblicità (anche tramite influencer)

    Il disegno di legge vieta la pubblicità dei prodotti di fast fashion, anche tramite influencer, al fine di ridurre la promozione di pratiche insostenibili nell’industria della moda, incentivando così un cambiamento nei modelli di consumo.

    In caso di adozione definitiva, questa disposizione entrerà in vigore a partire dal 1o gennaio 2025.

    La violazione di questa disposizione comporta sanzioni amministrative fino a 20.000 € per le persone fisiche e 100.000 € per le persone giuridiche, e fino al raddoppio in caso di recidiva.

    3. Altri obblighi e sistema di disincentivi

    La legge riguarda tutti i produttori (industriali, fabbricanti, grossisti, importatori), distributori e rivenditori francesi al pubblico e prevede anche altri obblighi, come: l’adesione a un’organizzazione ecologica (Refashion), il pagamento di un eco-contributo, l’etichettatura conforme e l’obbligo di esporre i risultati della valutazione dell’impatto ambientale del prodotto, che può portare ad una sanzione o all’ottenimento di un bonus.

    Etichettatura e sull’eco-contributo CTA

    La legge AGEC prevede attualmente una sanzione massima del 20% del prezzo di vendita del prodotto, IVA esclusa, se questo presenta caratteristiche ambientali scadenti. Considerati i prezzi a cui i prodotti fast-fashion sono venduti ai consumatori, l’impatto sui produttori è minimo (ad esempio, una maglietta da 4 euro), pertanto ora la proposta è quella di innalzare questa sanzione a un massimo del 50% del prezzo di vendita del prodotto.

    Questa sanzione sarà determinata in base all’obbligo di mostrare l’analisi dell’impatto ambientale del prodotto. Le sanzioni saranno quindi fisse (e non in percentuale sul prezzo del prodotto), sotto forma di un malus progressivo fino al 2030:

    • 5 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2025
    • 6 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2026
    • 7 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2027
    • 8 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2028
    • 9 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2029
    • 10 euro per ogni prodotto immesso sul mercato nel 2030

    Con un limite massimo fissato al 50% del prezzo di vendita.

    Questo incremento avrà un impatto sul produttore un anno dopo, quando questi dichiarerà e verserà l’eco-contributo a Refashion e si applica esclusivamente ai produttori di prodotti di fast fashion. I fondi raccolti verranno utilizzati dagli organismi ecologici per finanziare infrastrutture di raccolta e riciclo in paesi al di fuori dell’Unione Europea.

    Le società straniere sono soggette a questi obblighi?

    Sì, se l’azienda ha sede legale all’estero, ma effettua vendite in Francia, sarà soggetta alle stesse obbligazioni e sanzioni previste dalla legislazione francese, secondo il principio del “produttore esteso”, stabilito dall’articolo L541-10 del codice dell’ambiente francese.

    Le società straniere dovranno nominare un rappresentante in Francia a tal fine e non potranno in alcun modo aggirare gli obblighi e le sanzioni stabilite dalla normativa in oggetto.

    A cosa prestare attenzione, adesso?

    Il Senato sta attualmente esaminando il testo legislativo.

    Parallelamente, il governo francese sta pianificando due iniziative aggiuntive: primo, avviare una campagna comunicativa per valorizzare il settore tessile francese e combattere l’ultra fast-fashion; secondo, proporre la creazione di una coalizione internazionale con l’obiettivo di vietare l’esportazione di rifiuti tessili verso i paesi incapaci di gestirli in maniera sostenibile, in linea con le disposizioni della Convenzione di Basilea. è attualmente all’esame del Senato.

    Inoltre, è prevista la pubblicazione di un decreto che stabilirà i livelli di produzione, definendo così i produttori interessati da queste misure. Chiaramente questo decreto avrà un impatto estremamente rilevante, perché a seconda dei limiti individuati (si sta discutendo se individuare un limite giornaliero o annuale minimo di capi di abbigliamento) definirà il perimetro di applicazione della norma.

    The commercial agent has the right to obtain certain information about the sales of the principal. The Spanish Law on Agency Contracts provides (15.2 LCA) that the agent has the right to demand to see the accounts of the principal in order to verify all matters relating to the commissions due to him. And also, to be provided with the information available to the principal and necessary to verify the amount of such commissions.

    This article is in line with the 1986 Commercial Agents Directive, according to which (12.3) the agent is entitled to demand to be provided with all information at the disposal of the principal, particularly an extract from the books of account, which is necessary to verify the amount of commission due to the agent. This may not be altered to the detriment of the commercial agent by agreement.

    The question is, does this right remain even after the termination of the agency contract? In other words: once the agency contract is terminated, can the agent request the information and documentation mentioned in these articles and is the Principal obliged to provide it?

    In our opinion, the rule does not say anything that limits this right, rather the opposite is to be expected. Therefore, to the extent that there is still any possible commission that may arise from such verification, the answer must be yes. Let us see.

    The right to demand the production of accounts exists so that the agent can verify the amount of commissions. And the agent is entitled to commissions for acts and operations concluded during the term of the contract (art. 12 LCA), but also for acts or operations concluded after the termination of the contract (art. 13 LCA), and for operations not carried out due to circumstances attributable to the principal (art. 17 LCA). In addition, the agent is entitled to have the commission accrued at the time when the act or transaction should have been executed (art. 14 LCA).

    All these transactions can take place after the conclusion of the contract. Consider the usual situation where orders are placed during the contract but are accepted or executed afterwards. To reduce the agent’s right to be informed only during the term of the contract would be to limit his entitlement to the corresponding commission unduly. And it should be borne in mind that the amount of the commissions during the last five years may also influence the calculation of the client (goodwill) indemnity (art. 28 LCA), so that the agent’s interest in knowing them is twofold: what he would receive as commission, and what could increase the basis for future indemnity.

    This has been confirmed, for example, by the Provincial Court (Audiencia Provincial) of Madrid (AAP 227/2017, of 29 June [ECLI:ES:APM:2017:2873A]) which textually states:

    […] art. 15.2 of the Agency Contract Act provides for the right of the agent to demand the exhibition of the Principal’s accounts in the particulars necessary to verify everything relating to the commissions corresponding to him, as well as to be provided with the information available to the Principal and necessary to verify the amount. This does not prevent, […], the agency contract having already been terminated, as this does not imply that commissions would cease to accrue for policies, contracted with the mediation of the agent, which remain in force.

    The question then arises as to whether this right to information is unlimited in time. And here the answer would be in the negative. The limitation of the right to receive information would be linked to the statute of limitations of the right to claim the corresponding commission. If the right to receive the commission were undoubtedly time-barred, it could be argued that it would not be possible to receive information about it. But for such an exception, the statute of limitations must be clear, therefore, taking into account possible interruptions due to claims, even extrajudicial ones. In case of doubt, it will be necessary to recognise the right to demand the information, without prejudice to later invoking and recognising the impossibility of claiming the commission if the right is time-barred. And for this we must consider the limitation period for claiming commissions (in general, three years) and that of the right to claim compensation for clientele (one year).

    In short: it does not seem that the right to receive information and to examine the principal’s documentation is limited by the term of the agency contract; although, on the other hand, it would be appropriate to analyse the possible limitation period for claiming commissions. In the absence of a clear answer to this question, the right to information should, in our opinion, prevail, without prejudice to the fact that the result may not entitle the claim because it is time-barred.

    SUMMARY: In large-scale events such as the Paris Olympics certain companies will attempt to “wildly” associate their brand with the event through a practice called “ambush marketing”, defined by caselaw as “an advertising strategy implemented by a company in order to associate its commercial image with that of an event, and thus to benefit from the media impact of said event, without paying the related rights and without first obtaining the event organizer’s authorization” (Paris Court of Appeal, June 8, 2018, Case No 17/12912). A risky and punishable practice, that might sometimes yet be an option yet.

    Key takeaways

    • Ambush marketing might be a punished practice but is not prohibited as such;
    • As a counterpart of their investment, sponsors and official partners benefit from an extensive legal protection against all forms of ambush marketing in the event concerned, through various general texts (counterfeiting, parasitism, intellectual property) or more specific ones (e.g. sport law);
    • The Olympics Games are subject to specific regulations that further strengthen this protection, particularly in terms of intellectual property.
    • But these rights are not absolute, and they are still thin opportunities for astute ambush marketing.

    The protection offered to sponsors and official partners of sporting and cultural events from ambush marketing

    With a budget of over 4 billion euros, the 2024 Olympic and Paralympic Games are financed mostly by various official partners and sponsors, who in return benefit from a right to use Olympic and Paralympic properties to be able to associate their own brand image and distinctive signs with these events.

    Ambush marketing is not punishable as such under French law, but several scattered texts provide extensive protection against ambush marketing for sponsors and partners of sporting or cultural continental-wide or world-wide events. Indeed, sponsors are legitimately entitled to peacefully enjoy the rights offered to them in return for large-scale investments in events such as the FIFA or rugby World Cups, or the Olympic Games.

    In particular, official sponsors and organizers of such events may invoke:

    • the “classic” protections offered by intellectual property law (trademark law and copyright) in the context of infringement actions based on the French Intellectual Property Code,
    • tort law (parasitism and unfair competition based on article 1240 of the French Civil Code);
    • consumer law (misleading commercial practices) based on the French Consumer Code,
    • but also more specific texts such as the protection of the exploitation rights of sports federations and sports event organizers derived from the events or competitions they organize, as set out in article L.333-1 of the French Sports Code, which gives sports event organizers an exploitation monopoly.

    The following ambush marketing practices were sanctioned on the abovementioned grounds:

    • The use of a tennis competition name and of the trademark associated with it during the sporting event: The organization of online bets, by an online betting operator, on the Roland Garros tournament, using the protected sign and trademark Roland Garros to target the matches on which the bets were organized. The unlawful exploitation of the sporting event, was punished and 400 K€ were allowed as damages, based on article L. 333-1 of the French Sports Code, since only the French Tennis Federation (F.F.T.) owns the right to exploit Roland Garros. The use of the trademark was also punished as counterfeiting (with 300 K€ damages) and parasitism (with 500 K€ damages) (Paris Court of Appeal, Oct. 14, 2009, Case No 08/19179);
    • An advertising campaign taking place during a film festival and reproducing the event’s trademark: The organization, during the Cannes Film Festival, of a digital advertising campaign by a cosmetics brand through the publication on its social networks of videos showing the beauty makeovers of the brand’s muses, in some of which the official poster of the Cannes Film Festival was visible, one of which reproduced the registered trademark of the “Palme d’Or”, was punished on the grounds of copyright infringement and parasitism with a 50 K€ indemnity (Paris Judicial Court, Dec. 11, 2020, Case No19/08543);
    • An advertising campaign aimed at falsely claiming to be an official partner of an event: The use, during the Cannes Film Festival, of the slogan “official hairdresser for women” together with the expressions “Cannes” and “Cannes Festival”, and other publications falsely leading the public to believe that the hairdresser was an official partner, to the detriment of the only official hairdresser of the Cannes festival, was punished on the grounds of unfair competition and parasitism with a 50 K€ indemnity (Paris Court of Appeal, June 8, 2018, Case No 17/12912).

    These financial penalties may be combined with injunctions to cease these behaviors, and/or publication in the press under penalty.

    An even greater protection for the Paris 2024 Olympic Games

    The Paris 2024 Olympic Games are also subject to specific regulations.

    Firstly, Article L.141-5 of the French Sports Code, enacted for the benefit of the “Comité national olympique et sportif français” (CNOSF) and the “Comité de l’organisation des Jeux Olympiques et Paralympiques de Paris 2024” (COJOP), protects Olympic signs such as the national Olympic emblems, but also the emblems, the flag, motto and Olympic symbol, Olympic anthem, logo, mascot, slogan and posters of the Olympic Games, the year of the Olympic Games “city + year”, the terms “Jeux Olympiques”, “Olympisme”, “Olympiade”, “JO”, “olympique”, “olympien” and “olympienne”. Under no circumstances may these signs be reproduced or even imitated by third-party companies. The COJOP has also published a guide to the protection of the Olympic trademark, outlining the protected symbols, trademarks and signs, as well as the protection of the official partners of the Olympic Games.

    Secondly, Law no. 2018-202 of March 26, 2018 on the organization of the 2024 Olympic and Paralympic Games adds even more specific prohibitions, such as the reservation for official sponsors of advertising space located near Olympic venues, or located on the Olympic and Paralympic torch route. This protection is unique in the context of the Olympic Games, but usually unregulated in the context of simple sporting events.

    The following practices, for example, have already been sanctioned on the above-mentioned grounds:

    • Reproduction of a logo imitating the well-known “Olympic” trademark on a clothing collection: The marketing of a collection of clothing, during the 2016 Olympic Games, bearing a logo (five hearts in the colors of the 5 Olympic colors intersecting in the image of the Olympic logo) imitating the Olympic symbol in association with the words “RIO” and “RIO 2016”, was punished on the grounds of parasitism (10 K€ damages) and articles L. 141-5 of the French Sports Code (35 K€) and L. 713-1 of the French Intellectual Property Code (10 K€ damages) (Paris Judicial Court, June 7, 2018, Case No16/10605);
    • The organization of a contest on social networks using protected symbols: During the 2018 Olympic Games in PyeongChang, a car rental company organized an online game inviting Internet users to nominate the athletes they wanted to win a clock radio, associated with the hashtags “#JO2018” (“#OJ2018”), “#Jeuxolympiques” (“#Olympicsgame”) or “C’est parti pour les jeux Olympiques” (“let’s go for the Olympic Games”) without authorization from the CNOSF, owner of these distinctive signs under the 2018 law and article L.141-5 of the French Sport Code and punished on these grounds with 20 K€ damages and of 10 K€ damages for parasitism (Paris Judicial Court, May 29, 2020, n°18/14115).

    These regulations offer official partners greater protection for their investments against ambush marketing practices from non-official sponsors.

    Some marketing operations might be exempted

    An analysis of case law and promotional practices nonetheless reveals the contours of certain advertising practices that could be authorized (i.e. not sanctioned by the above-mentioned texts), provided they are skillfully prepared and presented. Here are a few exemples :

    • Communication of information for advertising purposes: The use of the results of a rugby match and the announcement of a forthcoming match in a newspaper to promote a motor vehicle and its distinctive features was deemed lawful: “France 13 Angleterre 24 – the Fiat 500 congratulates England on its victory and looks forward to seeing the French team on March 9 for France-Italy” (France 13 Angleterre 24 – la Fiat 500 félicite l’Angleterre pour sa victoire et donne rendez-vous à l’équipe de France le 9 mars pour France-Italie) the judges having considered that this publication “merely reproduces a current sporting result, acquired and made public on the front page of the sports newspaper, and refers to a future match also known as already announced by the newspaper in a news article” (Court of cassation, May 20, 2014, Case No 13-12.102).
    • Sponsorship of athletes, including those taking part in Olympic competitions: Subject to compliance with the applicable regulatory framework, particularly as regards models, any company may enter into partnerships with athletes taking part in the Olympic Games, for example by donating clothing bearing the desired logo or brand, which they could wear during their participation in the various events. Athletes may also, under certain conditions, broadcast acknowledgements from their partner (even if unofficial). Rule 40 of the Olympic Charter governs the use of athletes’, coaches’ and officials’ images for advertising purposes during the Olympic Games.

    The combined legal and marketing approach to the conception and preparation of the message of such a communication operation is essential to avoid legal proceedings, particularly on the grounds of parasitism; one might therefore legitimately contemplate advertising campaigns, particularly clever, or even malicious ones.

    In questo primo episodio delle serie Distribution Talks di Legalmondo, ho parlato con Ignacio Alonso, avvocato di Madrid con una vasta esperienza in materia di distribuzione commerciale internazionale.

    Principali punti della discussione:

    • in Spagna non esiste una legge specifica per gli accordi di distribuzione, che sono regolati dalle norme generali del codice del commercio;
    • è importante dunque redigere un contratto chiaro e completo, che sarà la fonte principale dei diritti e delle obbligazioni delle parti;
    • è anche bene conoscere la giurisprudenza spagnola in materia di distribuzione commerciale, che in alcuni casi applica per analogia la legge sull’agenzia commerciale.
    • le problematiche più comuni che coinvolgono produttori stranieri che distribuiscono in Spagna nascono al momento della cessazione del rapporto, in particolare perché la giurisprudenza riconosce al distributore cessato un’indennità di clientela o avviamento, se ricorrono presupposti simili a quelli previsti dalla normativa agenziale.
    • un’altra vertenza frequente riguarda la congruità del preavviso per il recesso dal contratto, specie se non esiste un patto tra le parti: il consiglio è di seguire quanto prevede la normativa agenziale, e dunque stabilire un preavviso minimo di un mese per ogni anno di durata del contratto, sino a 6 mesi per accordi che durano da più di 5 anni;
    • per quanto riguarda gli strumenti per la risoluzione delle controversie, la mediazione è una possibilità da considerare con attenzione, perché è rapida, economica e consente di ricercare una soluzione condivisa in modo flessibile, senza interrompere la relazione commerciale.
    • se la mediazione fallisce, le parti possono prevedere il ricorso all’arbitrato o al giudice statale: la scelta dipende dalle circostanze specifiche del caso e un fattore a favore della giurisdizione è la possibilità di appello, che è invece esclusa nel caso di arbitrato.

     

    Approfondimenti

    https://youtu.be/ZmNjMrdKDJM?si=ySCcUf_Hz25nQN3Y

    Sintesi

    il 1° giugno 2022, il Regolamento UE n. 720/2022, ovvero il nuovo Regolamento di esenzione per categoria relativo agli accordi verticali (anche “Vertical Block Exemption Regulation”, di seguito: “VBER”), ha sostituito la precedente versione (Regolamento UE n. 330/2010), scaduta il 31 maggio 2022.

    Il nuovo VBER e le nuove linee guida verticali (di seguito: “Linee guida”) hanno recepito le principali osservazioni raccolte durante la vigenza del precedente VBER e contengono alcune disposizioni rilevanti per la disciplina di tutti gli accordi B2B tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura.

    In questo articolo ci concentreremo sull’impatto del nuovo VBER sulle vendite tramite le piattaforme digitali, elencando le principali novità che impattano sulle catene distributive, tra cui anche le piattaforme per la commercializzazione di prodotti/servizi.

    La disciplina generale degli accordi verticali

    L’articolo 101(1) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”) vieta tutti gli accordi che impediscono, restringono o falsano la concorrenza all’interno del mercato dell’UE, e ne elenca anche le principali tipologie, tra cui la fissazione dei prezzi, la compartimentazione dei mercati, le limitazioni alla produzione/sviluppo/investimenti, le clausole abusive, ecc.

    Tuttavia, l’articolo 101(3) del TFUE esenta da tali restrizioni gli accordi che contribuiscono a migliorare il mercato dell’UE, i quali dovranno essere individuati in un apposito regolamento di categoria. Il VBER è il regolamento che definisce la categoria degli accordi verticali (cioè gli accordi tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura), determinando quali di questi accordi sono esenti dal divieto di cui all’articolo 101(1) del TFUE.

    In breve, si presume che gli accordi verticali siano esenti (e quindi validi) se non contengono le cosiddette “restrizioni fondamentali” (cioè gravi restrizioni della concorrenza, come il divieto assoluto di vendita in un territorio o la determinazione da parte del produttore del prezzo di rivendita del distributore) e se la quota di mercato di nessuna delle parti supera il 30%.

    Gli accordi esenti beneficiano di quello che è stato definito il “safe harbour” (porto sicuro) del VBER. Gli altri, invece, saranno soggetti al divieto generale di cui all’articolo 101(1) del TFUE, a meno che non possano beneficiare di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101(3) del TFUE.

    Le novità introdotte dal nuovo VBER per le piattaforme online

    Il primo aspetto rilevante riguarda la classificazione delle piattaforme, in quanto la Commissione europea ha escluso che le piattaforme online generalmente operino come agenti di commercio.

    Mentre non ci sono mai stati dubbi riguardo alle piattaforme che operano acquistando e rivendendo prodotti (esempio classico: Amazon Retail), ne erano sorti diversi riguardo a quelle piattaforme che si limitano a promuovere i prodotti di terzi, senza svolgere l’attività di acquisto e rivendita (esempio classico: Amazon Marketplace).

    Con l’introduzione della nuova versione del VBER, la Commissione europea ha voluto sgombrare il campo da qualunque dubbio, esplicitando che i fornitori di servizi di intermediazione (come le piattaforme online) si qualificano come fornitori (e non come agenti commerciali) ai sensi del VBER. Ciò riflette l’approccio del Regolamento (UE) 2019/1150 (“Regolamento P2B”), che per la prima volta ha dettato una disciplina specifica per le piattaforme digitali. Il regolamento prevede una serie di regole per creare un “ambiente equo, trasparente e prevedibile per le imprese e i clienti più piccoli” e secondo la ratio del Digital Markets Act, che vieta alcune pratiche utilizzate dalle grandi piattaforme che agiscono come “gatekeeper”.

    Di conseguenza, tutti i contratti conclusi tra produttori e piattaforme (definite come “fornitori di servizi di intermediazione online”) sono soggetti a tutte le restrizioni imposte dal VBER, come quelle inerenti alla determinazione del prezzo, dei territori in cui o i clienti ai quali possono essere venduti i beni o i servizi intermediati, o ancora le restrizioni relative alla pubblicità e alla vendita online.

    Così, per fare un esempio, l’operatore di una piattaforma non può imporre al produttore un prezzo di vendita fisso o minimo per una transazione promossa attraverso la piattaforma stessa.

    Il secondo aspetto di maggiore impatto riguarda le piattaforme ibride, ossia le piattaforme che operano anche nel mercato rilevante per la vendita di beni o servizi intermediati. Amazon è l’esempio più noto, in quanto è al contempo un fornitore di servizi di intermediazione (“Amazon Marketplace”) e, allo stesso tempo, distribuisce i prodotti di queste parti (“Amazon Retail”). Abbiamo già approfondito la distinzione tra questi due modelli di business (e le conseguenze in termini di violazione della proprietà intellettuale) qui.

    Il nuovo VBER esplicitamente non si applica alle piattaforme ibride. Pertanto, gli accordi conclusi tra tali piattaforme e i produttori sono soggetti alle limitazioni del TFUE, in quanto tali fornitori possono avere un incentivo a favorire le proprie vendite, nonché la capacità di influenzare l’esito della concorrenza tra le imprese che utilizzano i loro servizi di intermediazione online.

    Tali accordi devono essere valutati singolarmente ai sensi dell’articolo 101 del TFUE, in quanto non limitano necessariamente la concorrenza ai sensi del TFUE, oppure possono soddisfare le condizioni di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

    Il terzo aspetto più rilevante riguarda gli obblighi di parità (detti anche clausole della nazione più favorita o “most favoured nation”, MFN), ossia le disposizioni contrattuali tramite cui un venditore (direttamente o anche indirettamente) si impegna a offrire all’acquirente le migliori condizioni tra quelle che mette a disposizione di qualsiasi altro acquirente. La previsione è di particolare rilievo perché i termini contrattuali delle piattaforme contengono spesso clausole di obbligo di parità, al fine di impedire agli utenti di offrire i loro prodotti/servizi a prezzi inferiori o a condizioni migliori sui loro siti web o su altre piattaforme.

    Il nuovo VBER si occupa esplicitamente delle clausole di parità, distinguendo tra clausole il cui scopo è quello di vietare agli utenti di una piattaforma di vendere beni o servizi a condizioni più favorevoli attraverso piattaforme concorrenti (le cosiddette “clausole di parità ampia“), e clausole che vietano le vendite a condizioni più favorevoli solo per quanto riguarda i canali gestiti direttamente dagli utenti (le cosiddette “clausole di parità stretta“).

    Le clausole di parità ampia non beneficiano dell’esenzione VBER; pertanto, tali obblighi devono essere valutati individualmente ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

    D’altro canto, le clausole di parità stretta continuano a beneficiare dell’esenzione già concessa dal vecchio VBER se non superano la soglia del 30% della quota di mercato rilevante stabilita dall’articolo 3 del nuovo VBER. Tuttavia, le nuove linee guida mettono in guardia rispetto all’utilizzo di obblighi di parità eccessivamente ristretti da parte di piattaforme online che coprono una quota significativa di utenti, affermando che se non vi sono prove di effetti pro-concorrenziali, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato.

    Impatto e conseguenze

    Il nuovo VBER è entrato in vigore il 1° giugno 2022 ed è già applicabile agli accordi firmati dopo tale data. Gli accordi già in vigore al 31 maggio 2022 che soddisfano le condizioni per l’esenzione ai sensi dell’attuale VBER ma non soddisfano i requisiti del nuovo VBER beneficeranno di un periodo di transizione di un anno.

    Il nuovo regime sarà il campo di gioco per tutte le vendite su piattaforma nei prossimi 12 anni (il regolamento scade il 31 maggio 2034). Ad oggi, le novità piuttosto restrittive sulle piattaforme ibride e gli obblighi di parità renderanno probabilmente necessarie revisioni sostanziali degli accordi commerciali esistenti.

    Ecco, quindi, alcuni consigli per gestire i contratti e i rapporti con le piattaforme online:

    • il nuovo VBER è l’occasione giusta per rivedere le reti di distribuzione esistenti. La revisione dovrà considerare non solo i nuovi limiti normativi (ad esempio, il divieto di clausole di parità ampia), ma anche la nuova disciplina riservata alle piattaforme ibride e alla distribuzione duale, al fine di coordinare i diversi canali distributivi nel modo più efficiente possibile, secondo i paletti fissati dal nuovo VBER e dalle Linee Guida;
    • è probabile che le piattaforme giochino un ruolo ancora più importante nel prossimo decennio; è quindi essenziale considerare questi canali di vendita fin dall’inizio, coordinandoli con gli altri già esistenti (vendita al dettaglio, vendita diretta, distributori, ecc.) per evitare di compromettere la commercializzazione di prodotti o servizi;
    • l’attenzione del legislatore europeo verso le piattaforme sta crescendo. Osservando la disciplina a partire dal VBER, non bisognerebbe dimenticare che le piattaforme sono soggette a una moltitudine di altri regolamenti europei, che stanno gradualmente disciplinando il settore e che devono essere presi in considerazione quando si stipulano contratti con le piattaforme stesse. Il riferimento non è solo al recente Digital Market Act e al Regolamento P2B, ma anche alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale sulle piattaforme, che – come abbiamo già visto – è una questione tuttora aperta.

    Riassunto

    Per evitare dispute con i fornitori importanti, è consigliabile pianificare gli acquisti a medio e lungo termine e non operare solo sulla base si ordini e conferme d’ordine. La pianificazione consente di concordare la durata dell’ accordo di fornitura, i volumi minimi dei prodotti da consegnare e le tempistiche di consegna, i prezzi e le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati nel tempo.
    L’utilizzo di un contratto quadro di acquisto può aiutare a evitare incertezze future e consente di utilizzare varie opzioni per gestire le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime a seconda della tipologia di prodotti , come l’indicizzazione automatica del prezzo o l’accordo di rinegoziazione in caso di oscillazioni della materia prima oltre un certo termine di tolleranza stabilito.

    Leggo in un comunicato stampa: “In questi giorni l’industria del vetro sta inviando alle imprese vitivinicole nuove modifiche unilaterali dei contratti con variazioni dei prezzi del 20%...”

    Cosa si può fare per evitare l’imposizione di aumenti da parte dei fornitori?

    • Conoscere i propri diritti e agire in modo informato
    • Pianificare e organizzare la supply chain 

    Il mio fornitore ha diritto ad aumentare i prezzi?

    Se i contratti sono già stati conclusi, ad esempio gli ordini sono già stati confermati dal fornitore, la risposta è spesso no.

    Non è legittimo richiedere la variazione del prezzo, e meno ancora comunicarla in via unilaterale, con la minaccia di annullare l’ordine o non consegnare la merce se non venisse accolta la richiesta.

    Se mi dice che si tratta di forza maggiore?

    È sbagliato: l’aumento dei costi non rappresenta una causa di forza maggiore, ma semmai di eccessiva onerosità sopravvenuta, che è molto difficile ricorra.

    Per approfondire questo punto puoi vedere questo video.

    E se il fornitore annullasse l’ordine, aumentasse unilateralmente il prezzo, o non consegnasse la merce?

    Sarebbe inadempiente e sarebbe tenuto a risarcire i danni causati dal mancato rispetto dei suoi obblighi contrattuali.

    Come si può evitare il braccio di ferro con i fornitori?

    Gli strumenti ci sono, basta conoscerli e usarli.

    Occorre pianificare gli acquisti a medio termine, concordando con i fornitori un programma nel quale si stabiliscano:

    • le quantità di prodotti che verranno ordinate
    • i termini di consegna
    • la durata dell’accordo
    • i prezzi dei prodotti o delle materie prime
    • le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati

    Esiste uno strumento molto efficace

    L’accordo che si può utilizzare è il contratto quadro di acquisto, con il quale le parti negoziano gli elementi sopra indicati, che saranno validi per il periodo di tempo stabilito.

    Una volta concluso l’accordo, seguiranno gli ordini dei prodotti, che saranno regolati dal contratto quadro, senza bisogno di rinegoziare ogni volta il contenuto delle singole forniture.

    Per un approfondimento su questo contratto, vedi questo articolo.

    • Sì ma: i miei fornitori non me lo firmeranno mai!

    Perché? Fatevelo spiegare.

    Questo tipo di accordo è nell’interesse di entrambe le parti, perché consente di pianificare i futuri ordinativi e di avere certezza sul se, quando e quanto possa essere cambiato il prezzo.

    Al contrario, agire senza accordi scritti obbliga le parti ad operare in un contesto di incertezza, nel quale da un giorno all’altro si possono chiedere aumenti di prezzi e rifiutare le forniture se le richieste non vengono accettate.

    Come si disciplinano i cambiamenti del prezzo per le forniture future?

    Esistono diverse possibilità, a seconda della tipologia di prodotti o servizi e delle materie prime o dell’energia rilevanti nella determinazione del prezzo finale.

    • Una prima opzione è quella di indicizzare automaticamente il prezzo: ad esempio se il costo del barile del petrolio Brent aumenta / diminuisce del 10%, la parte interessata ha diritto a richiedere un corrispettivo adeguamento del prezzo del prodotto in tutti gli ordinativi trasmessi a partire dalla settimana successiva.
    • Un’alternativa è prevedere che in caso di oscillazione della materia prima di riferimento (ad esempio l’indice LME Aluminium del London Stock Exchange) oltre una certa soglia, la parte interessata possa chiedere di rinegoziare il prezzo per gli ordinativi del periodo successivo all’aumento.

    E se le parti non si mettessero d’accordo sui nuovi prezzi?

    • È possibile prevedere che il contratto si sciolga, o che la determinazione sia rimessa ad un terzo soggetto, che agisca come arbitratore e indichi i nuovi prezzi per i futuri ordini.

    Riassunto

    Il contratto quadro di fornitura è un accordo che regola una serie di future vendite e acquisti tra due soggetti (cliente e fornitore) che si svolgono nel corso di un certo arco temporale. Questo accordo determina gli elementi principali dei futuri contratti come il prezzo, i volumi di prodotto, i termini di consegna, le specifiche tecniche o di qualità e la durata dell’accordo.

    Il contratto quadro è utile per assicurare la continuità di fornitura da parte di uno o più fornitori di un certo prodotto che è essenziale per pianificare l’attività industriale o commerciale. Mentre le condizioni generali di acquisto o vendita sono le regole che si applicano a tutti i fornitori o clienti della società. Il contratto quadro è consigliabile concluderlo con i fornitori essenziali per la continuità dell’attività di impresa, in generale o in relazione ad un particolare progetto.

    Di cosa parlo in questo articolo:

    • Che cosa è il contratto quadro di fornitura?
    • Qual è la funzione del contratto quadro di fornitura?
    • La differenza con le condizioni generali di vendita o acquisto
    • Quando concludere un contratto quadro di acquisto?
    • Quando è utile concludere un contratto quadro di vendita?
    • Il contenuto del contratto quadro di fornitura
    • Clausola di revisione dei prezzi ed eccessiva onerosità sopravvenuta
    • I termini di consegna nel contratto quadro di fornitura
    • La clausola di Forza Maggiore nei contratti di vendita internazionale 
    • Vendita internazionale: legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie

    Che cos’è il contratto quadro di fornitura?

    Si tratta di un accordo che regola una serie di future vendite e acquisti tra due soggetti (cliente e fornitore), che si svolgono nel corso di un certo arco temporale.

    Si parla dunque di contratto “quadro” (framework agreement, in inglese) perché è un accordo che stabilisce le regole di una futura serie di contratti di compravendita, determinandone gli elementi principali, come il prezzo, i volumi di prodotto che si prevedono di vendere e acquistare, i termini di consegna dei prodotti, le specifiche tecniche o di qualità, la durata dell’accordo.

    Dopo avere concluso il contratto quadro le Parti si limiteranno a scambiarsi gli ordinativi e le conferme d’ordine, concludendo una serie di autonomi contratti di vendita, senza dover ridiscutere i patti già definiti nell’accordo quadro.

    A seconda dei punti di vista, questo contratto è anche denominato contratto quadro di vendita (se lo utilizza il venditore/fornitore con i propri clienti) o contratto quadro di acquisto (se lo propone il cliente ai suoi fornitori).

    Qual è la funzione del contratto quadro di fornitura?

    È utile prevedere un contratto quadro in tutti i casi in cui le Parti intendono procedere ad una serie di acquisti / vendite di prodotti continuata nel tempo e hanno interesse a dare stabilità all’accordo commerciale, determinandone gli elementi principali.

    In particolare, l’accordo quadro di acquisto è utile all’impresa che vuole assicurarsi la continuità di fornitura da parte di uno o più fornitori di un certo prodotto che è essenziale per pianificare la sua attività industriale o commerciale (materie prime, semilavorati, componenti).

    Concludendo il contratto quadro l’impresa può ottenere, ad esempio, un impegno del fornitore a fornire un certo volume minimo di prodotti, ad un certo prezzo, con modalità e specifiche tecniche già condivise, per un certo periodo temporale.

    Questo accordo è utile anche, specularmente, al venditore/fornitore, che può programmare le vendite del periodo e organizzare, a sua volta, la catena di fornitura che gli consente l’approvvigionamento delle materie prime e dei componenti necessari alla produzione dei prodotti.

    Qual è la differenza tra contratto quadro di acquisto o vendita e condizioni generali?

    Mentre Il contratto quadro è un accordo che si utilizza con uno o più fornitori particolari, per un certo prodotto e per un certo arco temporale, determinando gli elementi essenziali dei futuri contratti, le condizioni generali di acquisto (o vendita) sono le regole che si applicano a tutti i fornitori (o clienti) della società.

    Il primo accordo, dunque, viene negoziato e definito caso per caso in relazione ad un rapporto commerciale con un certo fornitore, mentre le condizioni generali sono predisposte unilateralmente dall’impresa, e i clienti o i fornitori (a seconda che si tratti di condizioni di vendita o di acquisto) si limitano ad aderire e ad accettare che le condizioni generali si applichino al singolo ordine e/o ai futuri contratti.

    Può accadere che i due accordi coesistano: in tal caso è bene specificare quale contratto debba prevalere in caso di discrepanza tra le diverse previsioni (solitamente si prevede questa gerarchia, che va dallo speciale al generale: ordine – conferma d’ordine / contratto quadro / condizioni generali di acquisto).

    Quando è importante concludere un contratto quadro di acquisto?

    È consigliabile concludere un contratto quadro con il fornitore / i fornitori essenziale / i per la continuità dell’attività di impresa, in generale o in relazione ad un particolare progetto. 

    È particolarmente importante concludere questo accordo quando si ha a che fare con un mono-fornitore o con un fornitore che sarebbe molto difficile sostituire se cessasse di vendere i prodotti all’impresa acquirente.

    I rischi che si mira ad evitare o diminuire sono le cosiddette rotture di stock, ossia le interruzioni di fornitura per la mancanza della disponibilità dei prodotti da parte del fornitore, o perché i prodotti sono disponibili ma le parti non trovano l’accordo sui tempi di consegna o sul prezzo di vendita.

    Un altro risultato che si può conseguire è quello di vincolare un fornitore strategico per un certo periodo, concordando che riservi una certa quota della produzione a favore del compratore a condizioni predeterminate evitando, per la durata dell’accordo, la concorrenza con offerte di terzi interessati ai prodotti.

    Quando è importante concludere un contratto quadro di vendita?

    Questo accordo consente al venditore / fornitore di pianificare le vendite verso un certo cliente e quindi di programmare ed organizzare la propria capacità produttiva e logistica per il periodo concordato, evitando costi extra o ritardi.

    Pianificare le vendite consente anche di gestire correttamente le incombenze finanziarie e i flussi di cassa con una visione di medio termine, armonizzando gli impegni  e gli investimenti con le vendite ai propri clienti.

    Qual è il contenuto del contratto quadro di fornitura?

    Non esiste un modello standard di questo contratto, che è nato dalla prassi commerciale per rispondere alle esigenze indicate in precedenza.

    Generalmente l’accordo prevede un arco temporale determinato (ad esempio 12 mesi) nel quale le parti si impegnano a concludere una serie di compravendite di prodotti, determinando il prezzo e le modalità di fornitura e i principali patti dei futuri contratti di vendita.

    Le clausole più importanti sono:

    • l’identificazione dei prodotti e delle specifiche tecniche (spesso individuate in un allegato)
    • il volume minimo / massimo di forniture
    • l’eventuale obbligo di acquisto / vendita di un minimo-massimo volume di prodotti
    • il calendario degli ordinativi
    • i tempi di consegna
    • la determinazione del prezzo e le condizioni per la sua eventuale modifica (si veda anche il prossimo paragrafo)
    • i casi di impedimento alla prestazione (Forza Maggiore)
    • i casi di eccessiva onerosità sopravvenuta (Hardship)
    • le penali per il ritardo o per l’inadempimento o per il mancato raggiungimento dei volumi concordati
    • la gerarchia tra il contratto quadro e gli ordinativi ed eventuali altri contratti tra le parti
    • la legge applicabile e le modalità di risoluzione delle controversie (specialmente in contratti internazionali)

    Come gestire la revisione dei prezzi in un contratto di fornitura?

    Una clausola molto importante, specie in tempi di forti oscillazioni dei prezzi delle materie prime, dei trasporti e dell’energia, è quella relativa alla revisione dei prezzi.

    In mancanza di un accordo su questo tema, infatti, le parti si accollano il rischio dell’aumento del prezzo impegnandosi a rispettare le condizioni originariamente pattuite e, salvi casi eccezionali (in cui la fluttuazione è forte, interessa un arco temporale ristretto ed è causata da eventi imprevedibili), è molto difficile poter invocare la sopravvenuta eccessiva onerosità, che consente di rinegoziare il prezzo oppure di risolvere il contratto.

    È consigliabile, per evitare l’incertezza che si genera in caso di fluttuazioni dei prezzi, concordare nel contratto sia i meccanismi per la revisione del prezzo (ad esempio l’indicizzazione automatica seguendo la quotazione di una certa materia prima), sia la cosiddetta clausola di Hardship o Sopravvenuta Eccessiva Onerosità, stabilendo quali sono i limiti di oscillazione dei prezzi accettati dalle parti e cosa accade se le variazioni oltrepassano questi limiti, prevedendo l’obbligo di rinegoziare il prezzo, o lo scioglimento del contratto se non viene trovato l’accordo entro un certo termine.

    Come gestire i termini di consegna in un rapporto di fornitura?

    Un altro patto chiave in un rapporto di fornitura di medio / lungo termine riguarda i termini di consegna: in questo caso occorre conciliare l’interesse dell’acquirente al rispetto delle date convenute con quello del fornitore ad evitare richieste di danni in caso di ritardo, soprattutto in caso di vendite che richiedano trasporti intercontinentali.

    La prima cosa da chiarire in proposito riguarda la natura dei termini di consegna: si tratta di termini essenziali oppure indicativi? Nel primo caso la parte interessata ha diritto a risolvere (ossia sciogliere) il contratto in caso di mancato rispetto del termine, nel secondo invece si possono prevedere oneri di diligenza, di informazione e di notifica tempestiva dei ritardi, mentre la risoluzione non è un rimedio che può essere automaticamente azionato in caso di ritardo.

    Uno strumento utile, a questo proposito, è quello della clausola penale: con questo patto si concorda che per ogni giorno / settimana / mese di ritardo sia dovuta una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno a favore della parte danneggiata dal ritardo.

    La penale, se quantificata in modo corretto e non eccessivo, è utile per entrambe le parti, perché consente di predeterminare i danni che possono essere invocati per il ritardo, liquidandoli in una somma equa e determinata: di conseguenza, il venditore non è esposto a domande di risarcimento legate a fattori fuori dal suo controllo, mentre il compratore può agevolmente calcolare l’indennizzo legato al ritardo, senza necessità di altre prove.

    Lo stesso meccanismo, tra l’altro, si può adottare per disciplinare il ritardo del compratore nel prendere in consegna i beni messi a disposizione dal venditore.

    Occorre tenere a mente, infine, che è buona prassi specificare il tetto massimo della penale (ad esempio il 10% del prezzo del prodotto) e un periodo massimo di tolleranza del ritardo, oltre il quale la parte interessata ha diritto di sciogliere il contratto, trattenendo la penale.

    La clausola di Forza Maggiore nei contratti di vendita internazionale

    Una situazione che viene spesso confusa con l’eccessiva onerosità, ma in realtà è molto diversa, è quella relativa alla Forza Maggiore, ossia alla impossibilità sopravvenuta di adempiere all’obbligazione contrattuale, a causa di un evento fuori dal ragionevole controllo della parte colpita, che non avrebbe potuto ragionevolmente essere previsto e i cui effetti non possano essere superati con un ragionevole sforzo.

    La funzione di questa clausola è quella di stabilire in modo chiaro quando le parti ritengono che possa essere invocata la Forza Maggiore, quali eventi specifici vengono compresi (ad esempio un lock-down dello stabilimento produttivo per ordine dell’autorità) e quali sono le conseguenze sulle obbligazioni delle parti (ad esempio la sospensione dell’obbligazione per un certo periodo, finché dura la causa di impossibilità ad adempiere, oltre il quale è possibile che la parte interessata all’adempimento dichiari di voler sciogliere il contratto).

    Occorre prestare grande attenzione alla redazione di questa clausola, perché se la formulazione è generica (come spesso accade) il rischio è che sia di poca utilità; è bene verificare, inoltre, che la regolamentazione della forza maggiore sia conforme a quanto prevedere la legge applicabile al contratto (v. punto successivo – qui un approfondimento con indicazione del regime previsto da 42 leggi nazionali).

    Legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie 

    Se il cliente o il fornitore ha sede all’estero occorre tenere presente alcune importanti differenze: la prima è la lingua del contratto, che deve essere comprensibile alla controparte straniera, e sarà quindi solitamente in inglese, o in un’altra lingua comune alle parti, eventualmente anche in doppia lingua con testo a fronte. 

    La seconda questione da tenere a mente riguarda la legge applicabile, che è bene sia espressamente indicata nel contratto: l’argomento è molto vasto e in questa sede ci limitiamo a dire che la decisione sulla legge applicabile va presa caso per caso, in modo consapevole: non sempre, infatti, è utile richiamare l’applicazione della legge italiana.

    Va poi ricordato che nella maggioranza dei contratti di vendita internazionale si applica la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili (“CISG”), che è una legge comune alle parti del contratto, equilibrata, molto chiara e facile da consultare: la CISG si applica automaticamente ed è bene non escluderla.

    Infine, in un contratto quadro di fornitura internazionale è consigliabile prestare attenzione all’individuazione delle modalità di risoluzione delle controversie: non esiste una soluzione che vada bene per tutti i contratti, ci limitiamo a ricordare che, anche in questo caso, non sempre la scelta della giurisdizione italiana è quella giusta (anzi, spesso può rivelarsi controproducente): chi fosse interessato ad un approfondimento può leggere questo articolo sul blog di Legalmondo.

    Riassunto

    Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
    Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
    Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
    Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

    Di cosa parlo in questo articolo: 

    • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
    • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
    • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
    • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
    • La durata del contratto di distribuzione all’estero
    • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
    • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
    • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
    • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
    • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

    La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

    Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

    Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

    phil

    Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

    La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

    La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

    Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

    niketiger

    Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

    A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

    Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

    Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

    Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

    Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

    Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

    Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

    Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

    Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

    Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

    Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

    L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

    Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

    Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

    Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

    La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

    In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

    Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

    In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

    Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

    Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

    In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

    Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

    Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

    Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

    Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

    Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

    Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

    In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

    Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

    E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

    Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

    Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

    Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

    L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

    Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

    Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

    In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

    Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

    Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

    L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

    Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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    Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

    Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

    E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

    Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

    Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

    La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

    Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

    Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

    Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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    Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

    È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

    Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

    I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

    È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

    Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

    La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

    La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

    Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

    Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

    La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

    I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

    Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

    La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

    Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

     Le modalità di risoluzione delle controversie

    Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

    Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

    Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

    Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

    Come possiamo aiutarti

    La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

    È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

    Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 63 paesi: scrivici la tua esigenza.

     

    Christophe Hery

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