Germania – Distribuzione commerciale e rivenditori non autorizzati

12 Giugno 2018

  • Germania
  • Distribuzione

Il presidente Erdogan ha emanato un decreto presidenziale che impone l’uso obbligatorio della Lira Turca negli accordi conclusi tra soggetti residenti in Turchia. Il decreto (d’ora innanzi: Decreto), che modifica il decreto sulla protezione del valore della lira turca, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed è entrato in vigore il 13 settembre 2018.

Il Decreto impone l’uso della Lira Turca per l’acquisto e la vendita di tutti i tipi di beni, merci, servizi e immobili. Tutti i contratti di affitto di veicoli, immobili e qualunque altro tipo di beni devono essere effettuati utilizzando le Lire Turche. Il Decreto stabilisce inoltre che i contratti non possono fare riferimento al tasso di cambio della Lira Turca con una valuta straniera.

Andiamo a vedere punto per punto le modifiche introdotte dal regolamento.

Impossibilità di utilizzare le valute straniere nei contratti nazionali

Il Decreto, come già anticipato, prevede che tutti i pagamenti relativi a contratti tra soggetti residenti in Turchia devono essere obbligatoriamente effettuati in Lire Turche, sia che riguardino persone giuridiche, sia che riguardino persone fisiche.

Inoltre, anche tutti i contratti aventi ad oggetto immobili dovranno essere effettuate in Lire Turche, senza alcuna possibilità di far riferimento a valute estere.

Tutti i contratti devono essere modificati entro 30 giorni

Il Decreto prevede, inoltre, che tutti i contratti tra soggetti residenti in Turchia stipulati prima del 13 settembre 2018 devono essere modificati e i pagamenti devono essere convertiti in Lire Turche entro 30 giorni dalla data di pubblicazione del Decreto (13 settembre 2018): ciò significa che tutti i contratti tra soggetti residenti, basati su valute straniere devono essere modificati entro il 14 ottobre 2018, senza – come già visto – poter vincolare gli importi contrattuali al tasso di cambio con qualsivoglia valuta estera.

Le parti, quindi, sono libere di concordare qualsiasi tasso di cambio nel momento in cui modificano il contratto (ossia entro il 14 ottobre), ma non possono vincolare il contenuto del contratto alle oscillazioni future.

Importazione ed esportazione di beni e servizi

Il nuovo Decreto non ha alcun impatto sui contratti di import-export, a patto che una delle parti del contratto non sia residente in Turchia. Tuttavia si deve notare che il Decreto può avere un impatto sulle controllate turche di società multinazionali che commerciano in valuta straniera.

Non vi è alcuna limitazione nel portare valuta estera nel paese.

Sanzioni

La nuova politica monetaria non prevede alcuna sanzione penale o amministrativa. È probabile che queste vengano adottate dalle nuove regolamentazioni, che dovranno implementare alcuni aspetti pratici per la completa applicazione del Decreto. È opportuno però sottolineare che, in caso di mancata conversione il Lire Turche di un contratto stipulato in valuta straniera, sarà facile per una delle due parti richiedere al Tribunale la modifica del contratto.

Conclusioni

Questo Decreto è uno dei provvedimenti presi dal governo turco per sostenere la Lira Turca, in grande difficoltà. Il crollo del valore della Lira Turca, infatti, è al centro dei provvedimenti governativi degli ultimi 6 mesi, interamente volti a cercare di arginarne il calo del valore.

Fino al 1983 in Turchia erano in vigore politiche simili, sempre allo scopo di proteggere la moneta locale, che poi sono state eliminate dopo le elezioni del 1983 e la nuova visione liberale. Si trattava, però, di un’epoca ed un’economia diversa rispetto a oggi.

Non è ancora chiaro se questo Decreto possa o meno portare ad un miglioramento, ma quello che è sicuro è che gli investitori stranieri (o locali finanziati da istituzioni straniere) dovranno modificare i loro contratti in vigore stipulati in valute estere, convertendoli in Lire Turche.

Not what you would expect 

When can you terminate, how should you terminate, and how much are you exposed?!

The outcomes of termination of a business relationship with an Israeli counterpart in Israel arise again and again as a question in many disputes between International corporations and Israeli counterparts, such as distributors or franchisees.

This is mainly because Israeli law does not include specific laws regulating or regarding distribution or franchising or other kinds of business ventures (except a relatively new agency law – referring in a limited manner to specific kinds of agency only) – and thus disputes in said regards are determined based on the general principles of contract law, the contractual and factual bases – obviously resulting in considerable uncertainty as to specific matters.

However, substantial case law, such as in the matter of Johnson & Johnson International that ended up paying compensation in the equivalent to over 1.5 Million US$, indicates the basics and threshold of what can be expected in such disputes, and, if implemented wisely, may assist in planning the disengagement or termination of a business relationship, in a manner that would be the least costly for the terminating party and minimize its exposure to a lawsuit.

In many cases, domestic parties invest many years and/or fortunes, in order to penetrate the domestic market with the foreign service or products, and to promote sales in the subject region, for the benefit of both the international corporation and the domestic party.

Nevertheless, often the international corporation decides for various reasons (such as establishing an “in-house” operation” in the target location or substituting the distributor/franchisee) to terminate the oral or written contractual relationship.

What are the legal foundations involved in such termination as per due notice of termination and corresponding compensation – if at all?

Generally, this issue arises in cases in which the contract does not specify a period of the business relationship, and, as a principle of law, contracts may be terminated by reasonable notice and subject to the fundamental good faith principle.

Contracts are not perceived as binding upon the parties indefinitely. The question is always what is the reasonable time for termination notice, and is the termination done in good faith (which is always a tricky and vague issue). Compensation is commonly awarded in accordance with what the courts find as the due notice period that may also entail compensation for damages related to said breach.

As always, there are exceptions, such as breach of trust toward the manufacturer/franchisor, that may have great impact on any due notice obligations, as far as justification for immediate termination that can be deemed immune to breach of due notice or good faith obligations.

The truth is the reasonability of the due notice varies from case to case!

However, Israeli case law is extremely sensitive to the actual reasoning of termination and how genuine it is, as opposed to asserting a tactical breach argument in an attempt to “justify” avoiding a due notice period or adequate compensation.

In this respect, in many cases simple “non-satisfaction” was denied as a legitimate argument for breach of contract, while safeguarding the freedom of contracts and the right to terminate an ongoing contract with due notice and good faith.

There are various common parameters referred to in the case law, to determine the adequate time of due notice, including, for instance, the magnitude of investment; the time required for rearrangement of business towards the new situation (including time required to find an alternative supplier product which can be marketed); the magnitude of the product/service out of the entire distributor’s business, etc.

Time and again, although not as binding rule, the due notice period seems to be in the range of around 12 months, as a balance between the right of termination and the reasonable time for rearranging the business in light of the termination. There were, however, cases in which due notice for termination was deemed as short as three months and as long as two years – but these are rather exceptional.

Another guiding point in the case law is the factor of exclusivity or non-exclusivity, as well as the concept that the longer the business relationship, the less the distributor/franchisee may expect compensation/reimbursement for investment – based on the concept that he has enjoyed the fruits of the investment.

The outcome of not providing such adequate due notice might result in actual compensation reflecting the loss of profit of the business in the last year before the termination, or for the whole term the court finds a due notice was in place, or, in cases of bad faith, even a longer period reflecting the damages.

In conclusion, given the legal regime in Israel, such exposure might be extremely considerable for any international or foreign business. It would, therefore, be vital and as a consequence of real value to plan the strategy of disengagement/termination of the business with the domestic counterpart in Israel, in advance and prior to executing it, and there are, indeed, adequate and wise strategies that may be implemented for the best result.

E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

Quali sono le eccezioni al divieto di fissazione del prezzo di rivendita in un contratto di distribuzione?

Come note, le intese limitative della concorrenza sono vietate ai sensi dell’art. 101 TFUE, qualora pregiudichino in modo tangibile la concorrenza, a meno che l’incidenza dell’intesa sul commercio o sulla concorrenza sia trascurabile (cfr. Corte di Giustizia UE nel caso Expedia, C-226/11, sentenza del 13 dicembre 2012). Con riguardo alla domanda se sussista una non trascurabile limitazione della concorrenza, oppure se ci si trovi piuttosto in un “porto sicuro” (safe harbour) si può prendere come punto di riferimento la Comunicazione sui De-minimis della Commissione Europea. Sulla base di tale atto, un accordo si configura, in particolare, come non “trascurabile”, qualora attraverso lo stesso si persegua una limitazione della concorrenza. Ciò vale in particolare per le limitazioni fondamentali, come l’imposizione verticale di prezzi (o dei prezzi di rivendita).

Con riguardo a una campagna speciale di prodotti per la linea, la Corte d’Appello di Celle aveva visto e deciso la questione in modo sorprendentemente diverso, sostenendo che un vincolo verticale sul prezzo non costituisse una restrizione sensibile e che, pertanto, ricadrebbe al di fuori del divieto di pratiche commerciali anticoncorrenziali di cui all’art. 101 TFUE (sentenza del 07.04.2016, n. fasc. 13 U 124/15 [Kart]). Nel caso di specie, il produttore aveva sottoposto, a un gruppo di rivenditori (farmacie), una campagna speciale con uno sconto particolare: di una volta sola, limitata nel tempo e con un limite quantitativo massimo. A tal fine, i rivenditori avrebbero dovuto obbligarsi a mettere in mostra “il prodotto … in modo ben visibile, e a non scendere al di sotto del prezzo di 15,95 Euro”.

Il Tribunale di Hannover aveva invece visto nell’accordo un’inammissibile imposizione del prezzo (sentenza del 25.8.2015, n. fasc. 18 O 91/15). La Corte Federale tedesca ha ora confermato questa linea: i prezzi minimi stabiliti nell’ambito dell’offerta speciale, limitano la concorrenza nel suo complesso (cfr. punto 26) e rientrano perciò nel divieto previsto dall’art. 101 TFUE (sentenza del 17.10.2017, n. fasc. KZR 59/16). Tale decisione è conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, caso Expedia (vedi sopra), e a quella del Corte Federale tedesca stessa riguardante la richiesta di distribuire “una barretta extra” (ossia senza maggiorazione di prezzo rispetto alla confezione normale) formulata dal produttore dolciario Ferrero (sentenza dell’08.04.2003, n. fasc. KZR 3/02), perché quest’ultima decisione riguarda formalmente “il margine di aumento del prezzo riconducibile al contenuto più ampio della confezione”; non, tuttavia, la decisione, da parte del rivenditore, di fissare il prezzo di vendita minimo.

Indicazioni pratiche:

  1. La fissazione verticale del prezzo è generalmente vietata, sebbene un prezzo di vendita consigliato dal produttore (“prezzo di rivendita consigliato”) e la fissazione di prezzi massimi di vendita siano viceversa consentiti: è questo, in sostanza, il principio base della normativa sulla concorrenza in materia distributiva tedesca ed europea, per quanto riguarda l’ambito dei prezzi. Inoltre, consigli sui prezzi e prezzi massimi di vendita sono soggetti alla condizione “che questi non equivalgano ad un prezzo fisso o ad un prezzo minimo di vendita per effetto di pressioni esercitate o incentivi offerti

da una delle parti” (art. 4 lett. a) del Regolamento di esenzione per categoria di accordi verticali). Ciò significa che:

  • il produttore o il fornitore possono fornire un’indicazione,
  • il rivenditore, tuttavia, dispone di un’ampia libertà nel fissare i propri prezzi di vendita.
  1. Eccezioni sono previste, oltre che per i vincoli verticali sui prezzi dei libri o nel caso di accordi di specializzazione – se necessario per il tramite della difesa efficiente di cui all’articolo 101 co. 3 TFUE, in casi individuali, per esempio:
  • inserimento di nuovi prodotti nel mercato, oppure
  • in caso di campagne speciali limitate nel tempo, qualora ad esse si accompagni un corrispondente vantaggio in termini di efficienza, ad esempio qualora i margini di profitto siano investiti in una migliore assistenza della clientela, la quale avvantaggi tutti i consumatori e, fissando i prezzi, eviti le forme di parassitismo da parte di quei commercianti i quali non offrono alcuna forma di assistenza (cfr. Orientamenti sulle restrizioni verticali, punto 225).

Tali offerte, tuttavia, necessitano di una preparazione molto buona, in quanto i produttori stessi possono formulare soltanto per periodi molto brevi i prezzi di rivendita e soltanto qualora gli stessi siano giustificati in modo convincente da vantaggi in termini di efficienza, come ad esempio l’impedimento di casi di parassitismo.

  1. Nel caso di imposizioni di prezzi, le autorità della concorrenza diventano presto sensibili. Per esempio, multe per imposizione verticale di prezzo sono state emesse di recente in Germania. A tal riguardo, occorre fare particolare attenzione, in modo speciale negli accordi, di distribuzione e vendita. .
  2. In modo corrispondente, i reparti vendita delle imprese dovrebbero adattare i loro metodi distributivi alla giurisprudenza finora intercorsa concernente le indicazioni sui prezzi, fissazione di prezzi massimi e offerte speciali in sconto. Indicazioni pratiche vengono inoltre fornite da

Geoblocking is a discriminatory practice preventing customers (mainly on-line customers) from accessing and/or purchasing products or services from a website located in another member State, because of the nationality of the customer or his place of residence or establishment.

The EU Regulation no. 2018/302 of 28 February 2018 on addressing unjustified geoblocking and other forms of discrimination based on customers’ nationality, place of residence or place of establishment within the internal market will enter into force on 2 December 2018.

The current situation

The EU Commission carried out a “mystery shopping” survey on over 10 000 e-commerce websites in the EU. The geoblocking figures are quite high! 63% of the websites do not let shoppers to buy from another EU country (even 86% for electric household appliances and 79% for electronics and computer hardware).

The survey shows also that 92% of on-line retailers require customers to register on their website and to provide them with e-mail address, physical address and telephone number. The registration is denied most of the time because of a foreign delivery address for 27% of the websites. Almost half of the websites give no information about the place of delivery while shopping on the website although this information on delivery restrictions has to be provided in due time during the shopping process. At the end, according to this EC survey, only 37% of the websites truly allow e-shoppers to freely buy on-line from another EU country (without restriction as regards place of establishment, place of delivery and mean of payment).

On the other side, only 50% of European customers buy products from on-line shops based in another EU member State while the value and the volume of e-commerce, globally speaking increase thoroughly year after year, but only on a domestic scope not throughout Europe.

On 23 June 2017, the European Council asked for a real implementation of the Digital Single Market strategy in all its elements including cross border partial delivery, consumer protection and prohibition of undue geoblocking.

The lack of the current legal frameworks

The service directive (n°2006/123/CE) and article 101 of the TFUE address already the discrimination practices based on nationality or place or residence or establishment.

According to article 20 (2) of the service directive, the EU member States must ensure that professionals do not treat customers differently based on their place of residence or establishment or nationality (unless objective exception). On the other side, EU competition law on vertical restraints (article 101 TFUE and the block exemption regulation and its guidelines) considers restrictions on passive sales as hard core restrictions violating EU competition rules. However, both set of rules (service directive and competition law framework) appear not to be fully effective in practice.

With this respect, the recent report of the European commission about the competition enquiry in the e-commerce sector shows, among others, that geoblocking was used at a large scale within the European e-commerce sector.

The aim of the geoblocking regulation

The goal of the geoblocking regulation is to prevent professionals from implementing direct or indirect discrimination based on the nationality, the place of residence or the place of establishment of their customers when dealing with cross border e-commerce transactions.

The scope of the geoblocking regulations

The new Regulation will only apply to online sales between businesses and end-user consumers or businesses.

The new Regulation will apply to websites operated within the European Union or to websites operated outside the European Union but proposing goods or services to customers established throughout in the European Union.

What are the new rules of management of an e-commerce website?

„As regards the access to the website

Under the Regulation, a business may neither block nor restrict, through the use of technological measures, access to their online interfaces for reasons related to nationality, place of residence or place of establishment of an internet user. However, businesses are authorized to redirect customers to a different website than the one they were trying to access provided the customer expressly agrees thereto and can still easily visit the website version they originally tried to access.

„As regards the terms and conditions of sales of the website

The Regulation forbids businesses from applying different general conditions of access to goods or services according to a customer’s nationality or place of residence or place of establishment (as identified by their IP address in particular) in the following three cases:

  • where the goods sold by the business are delivered in a different member state to which the business offers delivery (or where the goods are collected at a location jointly agreed upon by the business and the customer);
  • where the business offers electronically supplied services such as cloud, data storage, hosting services etc. (but not services offering access to copyright-protected content such as streaming or online-gaming services);
  • where the business supplies services received by the customer in a country in which the business also operates (such as car rental and hotel accommodation services or ticketing services for sporting or cultural events).

„ As regards the means of payment on the website

The Regulation forbids businesses from applying different conditions for payment transactions to accepted means of payment for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment, or to the location of the payment account or the place of establishment of the payment service provider (provided that authentication requirements are fulfilled and that payment transactions are made in a currency accepted by the business).

What are the impacts of this regulation on e-retailers?

Although formally excluded from the scope of the Regulation, relations between suppliers and distributors or wholesalers will still be impacted by it since provisions of agreements between businesses under which distributors undertake not to make passive sales (e.g., by blocking or restricting access to a website) for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment “shall be automatically void”.

The geoblocking regulation therefore impacts distributors twofold: first, directly in their relations with customers (end-user consumers or user-businesses), and second, indirectly in regard to their obligations under the exclusive distribution agreement.

The geoblocking regulation shall have to be coordinated with the existing competition law framework, especially the guidelines on vertical restraints which set up specific rules applying to on-line sales. On-line sales are likened to passive sales. The guidelines mention four examples of practices aiming to indirectly guarantee territorial protection which are prohibited when supplier and exclusive distributor agree:

  • that the exclusive distributor shall prevent customers in another territory from visiting their website or shall automatically refer them to the supplier’s or other distributors’ websites,
  • that the exclusive distributor shall terminate an online sale if the purchaser’s credit card data show that the purchaser is not from the exclusive distributor’s exclusive territory,
  • to limit the share of sales made by the exclusive distributor through the internet (but the contract may provide for minimum offline targets in absolute terms and for online sales to remain coherent compared to offline sales).
  • that the exclusive distributor shall pay a higher price for goods intended for sale on the internet than for goods intended for sale offline.

Manufacturers will have to decide whether they adopt a unique European gateway website or multiple local commercial offers, it being known that price differentiation is still possible per category of clients.

Indeed, the new Regulation does not oblige the e-retailers to harmonize their price policies, they must only allow EU consumers to access freely and easily to any version of their website. Likewise, this Regulation does not oblige e-retailers to ship products all over Europe, but just allow EU consumers to purchase goods from whichever website they want and to arrange the shipment themselves, if need be.

Finally on a more contractual level, it is not very clear yet how the new geoblocking rules could impact directly or indirectly the conflict of law rules applicable to consumer contracts, as per the Rome I regulation especially when the consumer will be allowed to handover the product purchased on a foreign website in the country of this website (which imply no specific delivery in the country where the consumer is established).

Therefore B2C general terms and conditions of websites would need to be reviewed and adapted on both marketing and legal sides.

I produttori di marca e i concessionari di licenze sul marchio (detti anche “licenziatari”) hanno spesso un interesse a proibire l’uso del loro marchio da parte di rivenditori non autorizzati, cioè operanti sul mercato “grigio”. Recentemente un tribunale tedesco ha autorizzato un concessionario di un marchio a proibire a un rivenditore non autorizzato la distribuzione di tali beni sul mercato grigio sia online che offline. Ciò in quanto tale distribuzione minaccia di danneggiare la reputazione del marchio registrato.

Produttore di beni di lusso vieta la rivendita online e offline da parte di un rivenditore non autorizzato

Oggetto della questione è se il licenziatario del marchio, sulla base dei propri diritti sul marchio, possa proibire la vendita di prodotti di lusso da parte di rivenditori non autorizzati. Nel caso di specie, il licenziatario è l’affiliato tedesco di un produttore giapponese di prodotti cosmetici di lusso. Esso distribuisce i prodotti, di alta qualità e dal valore molto alto, tramite un sistema di distribuzione selettiva. Il rivenditore non autorizzato è un rivenditore che agisce al di fuori del sistema di distribuzione selettiva. Esso vende prodotti alimentari, beni per la casa, apparecchi elettronici, tessuti, scarpe e, oltre a ciò, anche prodotti cosmetici nella propria piattaforma online e nei propri negozi fisici. Il licenziatario del marchio chiede che al rivenditore non autorizzato sia proibito di distribuire, sia online che offline, prodotti cosmetici i quali rechino il marchio stesso.

Condizioni e motivi per la proibizione del mercato “grigio” delle vendite

La Corte d’Appello di Düsseldorf ha confermato l’ingiunzione originariamente concessa dal Tribunale, sostenendo che una pretesa a un rimedio monitorio sussiste ai sensi del Regolamento sul marchio dell’Unione europea 2017/1001 (Art. 9 co. 2 lett. a). Il rivenditore non autorizzato non potrebbe invocare il principio di esaurimento (art. 15 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea), anche qualora il prodotto sia stato posto sul mercato in presenza di / con il consenso del licenziatario (decisione del 6 marzo 2018, caso n. I-20 U 113/17).

Invece, sussisteva una ragione legittima per una pretesa alla proibizione sulla base del Regolamento sul marchio dell’Unione europea (art. 15 co. 2) – con la conseguenza che i diritti sul marchio del licenziatario non erano esauriti. Tale diritto alla proibizione sussiste aldilà degli esempi legislativi della “modificazione” o dell’ “alterazione” dei beni, se l’uso del marchio rischia di danneggiare la reputazione che tali beni godono (cfr. Corte di Giustizia UE, caso C-337/95, “Dior/Evora”). In particolare, i rivenditori non dovrebbero danneggiare l’immagine di lusso di marchi aventi carattere lussuoso e di prestigio tramite i loro messaggi pubblicitari. Comunque, il proprietario del marchio potrebbe proibire l’uso del marchio soltanto se tale uso da parte del rivenditore “danneggia in modo sostanziale” la reputazione del marchio o, come la Corte d’Appello sembra altresì considerare, se “vi è il rischio di un danno alla reputazione” (punto 29 e ss.). Tale danno alla reputazione potrebbe essere causato, per esempio, dall’uso di un canale di distribuzione non conforme al sistema di distribuzione. Ciò sarebbe confermato altresì dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sulla distribuzione e antitrust nei casi L’Oréal (caso C-31/80), Copad/Dior (caso C-59/08), Pierre Fabre (caso C-439/09) e – più recentemente – Coty Germany (caso C-230/16; vedi qui l’articolo precedente sulle restrizioni alle vendite online): in base a tali decisioni, i produttori di lusso possono proibire ai loro distributori la vendita su piattaforme di terze parti ai fine di mantenere l’immagine di lusso dei beni in questione. Il criterio del “danno all’immagine di lusso” dovrebbe, secondo la Corte d’Appello, essere interpretato in modo uniforme nel diritto dei marchi e nel diritto antitrust sulla distribuzione.

Nel presente caso di distribuzione di prodotti cosmetici di lusso, la Corte ha visto un rischio di danno all’immagine di lusso del prodotto nel caso sia di vendita su piattaforma online (punto 32 e ss.), che attraverso negozio al dettaglio (punto 38 e ss.): in essi la presentazione del prodotto finirebbe per declassare i marchi di lusso a marchi normali – perciò differendo fortemente dai criteri di vendita restrittivi imposti ai rivenditori autorizzati – in quanto il rivenditore non autorizzato offre anche e soprattutto beni per l’uso quotidiano, includenti articoli a basso prezzo, presentanti in modo semplice, in stile “offerta speciale”, senza particolari esaltazioni, in modo indiscriminato e senza offrire alcun servizio di consulenza.

Consigli pratici

  1. I produttori di beni di lusso possono proibire a rivenditori non autorizzati di vendere i loro prodotti di marca attraverso canali di distribuzione contrari al sistema di distribuzione, solo se vi è il rischio di un danno alla loro reputazione. Al fine di affermare l’esistenza di un tale rischio è d’aiuto avere – o stabilire – chiare ed elaborate linee guida sulla vendita e sui criteri di distribuzione nei confronti dei distributori autorizzati, le quali sottolineino chiaramente l’immagine di lusso dei marchi e dei beni nonché il loro carattere di prestigio.
  2. Resta da vedere se la decisione darà luogo a una prassi decisoria più ampia e uniforme all’interno dell’UE (la libera circolazione di beni dev’essere tenuta in conto, vedi Corte Federale Tedesca nel caso “Klacid Pro”, punto 24). In ogni caso, la decisione è in linea con la prassi decisoria sugli accordi di distribuzione selettiva e auspica comprensibilmente una interpretazione uniforme del diritto dei marchi e del diritto antitrust sulla distribuzione – come già fatto dall’Avvocato Generale nel caso Coty riguardante divieti di usare piattaforme di terze parti (punto 71 e ss. delle sue Conclusioni).
  3. Resta inoltre da vedere se a produttori di marca anche al di fuori del segmento del lusso verrà concesso un rimedio monitorio contro rivenditori non autorizzati. Per quanto riguarda i rivenditori autorizzati, si può sostenere che non solo produttori di lusso, ma anche produttori di marca in generale possono proibire la vendita tramite piattaforme di terze parti (vedi il precedente articolo sulle restrizioni alle vendite online). In ogni caso, la prassi decisoria sulle vendite online sta divenendo sempre più chiara, vedi, per esempio, il precedente articolo sui motori di ricerca sui prezzi, qui.
  4. Protezione del marchio all’interno dell’Europa: quando vendono i prodotti all’interno dello Spazio Economico Europeo (= UE più Liechtenstein, Islanda e Norvegia), i produttori di marca e i licenziatari di marchi registrati possono proteggere i loro marchi registrati tramite un doppio sistema: (i) un unico marchio protetto lungo tutto lo Spazio economico europeo e (ii) singoli marchi registrati in ogni paese, in modo da coprire tutti gli stati membri UE. Registrare un marchio UE conferisce al proprietario i diritti esclusivi sullo stesso, e lo autorizza in particolare di proibire:
  • l’apposizione del segno sui prodotti o sul loro imballaggio;
  • l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;
  • l’importazione o l’esportazione dei prodotti sotto la copertura del segno;
  • l’uso del segno come nome commerciale o denominazione sociale o come parte di essi;
  • l’uso del segno nella corrispondenza commerciale o nella pubblicità;
  • l’uso del segno nella pubblicità comparativa in una maniera contraria alla direttiva 2006/114/CE (art. 9 co. 3 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea).

Tali diritti, tuttavia sono esauriti (non possono più essere esercitati) con riguardo a beni recanti il marchio registrato che siano stati immessi nello Spazio economico europeo con il senso del proprietario (cosiddetto principio di esaurimento). Eccezione: un proprietario potrebbe ancora proibire l’ulteriore commercializzazione dei beni in presenza di ragioni legittime. Tali ragioni sussistono, in particolare, laddove lo stato dei beni sia mutato o manomesso dopo che gli stessi sono stati immessi sul mercato, o laddove la vendita di beni recanti il marchio registrato rischi di danneggiare la reputazione, come nel presente caso tedesco.

Once convinced of the utility of mediation as a method of resolving conflicts between franchisor and franchisee and taken the decision to include a clause in the contracts that provides for it, the last step would be what elements should be taken into account when drafting it.

  1. The previous negotiation. It seems advisable that both parties grant themselves the possibility of trying to solve the problem with a previous formal negotiation. Mediation does not exclude the previous attempt made by the interested parties or their lawyers; however, it seems advisable to contractually provide a suitable end according to the circumstances. Experience shows that lengthening this phase too long may result in the conflict becoming more complicated and even more difficult to approach mediation.
  2. The clause may also provide for the place where the mediation will take place. Again at this point the parties are free. It is convenient that this is accurate indicating the concrete city.
  3. The language in which the mediation will be developed is the a faculty of the parties. There will be no difficulty in mediations in which both parties use the same language, but it is very convenient in contracts with parties that have different languages, or that belong to regions or countries with different co-official languages. The drafting or signing of the contract in a specific language does not presuppose that this must be the language of the mediation. It is an element to be taken into account also when requesting a mediator who can use that language in the chosen mediation institution.
  4. The procedure can also be decided by the parties. In particular, the number of sessions, the maximum expected duration, the participation of advisors, etc. Keep in mind that the greater or lesser regulation will allow to avoid future conflicts in this respect, although it will also imply a greater limit to the freedom of the parties that, nevertheless, will remain free to modify the agreement by mutual consent.
  5. The term of the mediation can also be contemplated. This would allow, for example, to prevent mediation from being extended only for purely procedural strategic purposes or to gather information from the other party before starting a procedure, etc. The professional mediators, however, are able to identify these manoeuvres, also having the power to put an end to mediation in those cases.
  6. Choosing the mediator or the mediation institution is an important choice. The parties can agree on who will be their mediator, indicate in the contract the elements to choose it, or submit directly to a Mediation Institution so that it is the one who designates it according to its own rules. These decisions can be alternatives (that is, that the parties agree on the mediator and, in case of lack of agreement, submit to an institution that names it), or they can be unique. The designation of an Institution requires that it has a sufficient guarantee of stability (avoid designating short-term institutions or without much future guarantee), with a sufficient panel of mediators depending on the characteristics of the mediation (language, competence, experience) and that allows the necessary flexibility for its operation.
  7. Finally, it is convenient that the clause includes an alternative way in case the mediation does not succeed either because the parties do not reach an agreement, or because they withdraw from the mediation. It is important to recall that mediation does not close the doors to the conflict be resolved by recourse to ordinary jurisdiction or arbitration. And in terms of specialized arbitration in distribution contracts, the IDArb (https://www.idiproject.com/content/idarb-idi-arbitration-project) is an excellent option.

On the topic of the importance of Mediation in Distribution Agreements, you can check out the recording our webinar “Mediation in International Conflicts”

Rimowa comunica disdetta a tutti i rivenditori in Europa“ – così titolava l’Handelsblatt il 19 marzo 2018. Il motivo? Rimowa, famoso produttore di costose valigie di marca, ristruttura nuovamente nel 2018 – dopo la precedente ristrutturazione del 2011 – la propria catena distributiva. Progetta, in particolare, di introdurre criteri qualitativi ancor più stringenti e distanti dalla concezione di vecchio negozio, al fine di giungere a una sorta di “esperienza dell’acquisto” (cfr. a tal proposito la Süddeutsche Zeitung del 21.03.2018, pag. 16).

È bene premettere che, in via generale, i produttori possono strutturare il loro sistema di distribuzione in modo libero e svilupparlo in base alla loro strategia di mercato. Essi sono inoltre sostanzialmente liberi di scegliere tra differenti intermediari distributivi (rivenditore, franchisee, agente ecc.) e di passare eventualmente anche a sistemi di distribuzione selettiva, al fine di indirizzare la distribuzione secondo determinati criteri (in particolare qualitativi) e di possibilmente ridurre, in tal modo, anche il numero dei rivenditori. Tuttavia, in via eccezionale gli stessi rivenditori possono costringere il produttore a essere riforniti: quando, cioè, si sia in presenza di produttore con un grande potere di mercato. In tal caso, un c.d. obbligo a contrarre, risultando in un obbligo di fornitura, può discendere dal divieto di discriminazione, di cui ai §§ 19 co. 1, 2 n. 1, 20 GWB.

Tale questione assume importanza pratica soprattutto quando, come nel caso di Rimowa, il produttore ristrutturi il proprio sistema di distribuzione. Rimowa l’aveva già fatto nel 2011/2012, quando era passata a una distribuzione selettiva (vedi sulla distribuzione selettiva e le eventuali restrizioni già l’articolo di Legalmondo qui). A tal fine Rimowa ha disdetto i precedenti contratti di concessione di vendita e ha richiesto la sottoscrizione di nuovi contratti, i quali, tra le altre cose, obbligano il rivenditore a presentare le merci in una determinata maniera e ad acquistare e introdurre lo Shop-in-Shop del produttore. Secondo Rimowa, un precedente distributore non corrispondeva più alla nuova concezione del business e alla nuova strategia di marketing. I due, però, non si accordavano per la stipula di un nuovo contratto di concessione di vendita. Così, il rivenditore agiva in giudizio al fine di ottenere la stipula del contratto e con esso anche le forniture per i suoi negozi.

Il Tribunale di Monaco di Baviera rigettava la domanda (sentenza del 09.09.2014, fasc. n. 1 HKO 7249/13), mentre la Corte d’Appello di Monaco di Baviera, viceversa, l’accoglieva (sentenza del 17.09.2015, fasc. n. U 3886/14 Kart): il produttore avrebbe vantato una posizione di vertice “nel rilevante mercato delle valigie costose e di alto valore”, mentre il rivenditore, viceversa, sarebbe stato in una posizione di dipendenza, in quanto le valigie del primo non avrebbero potuto essere sostituite da altre di pari valore. Ciò sarebbe dimostrato da un’alta quota distributiva presso altri rivenditori (il produttore, cioè, sarebbe il fornitore di un alto numero di rivenditori) e dal design unico, con il connesso alto fattore di riconoscimento. Ora la Corte Federale di Revisione (il BGH) ha annullato la sentenza e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello per ulteriore trattazione (sentenza del 12.12.2017, fasc. n. KZR 50/15), con la motivazione che la c.d. dipendenza del rivenditore dalla posizione di vertice del produttore (“Spitzenstellungsabhängigkeit”) non sarebbe stata adeguatamente accertata: se, nella normalità dei casi, la quota distributiva è determinante, in presenza di sistemi di distribuzione selettiva questa sarebbe meno indicativa. Per il caso di ristrutturazione del sistema di distribuzione vale quanto segue:

Qualora un fornitore decida, a un certo punto, di passare a un sistema di distribuzione selettiva, si è solitamente in presenza di una dipendenza da posizione di vertice, qualora con riferimento al periodo antecedente si accerti un’alta quota distributiva.” (punto 19)

Il produttore può opporre eccezione contro la supposta dipendenza da posizione di vertice, indicando quanti rivenditori egli abbia rifornito con prodotti propri (e non solo: anche quanti rivenditori abbiano offerto i prodotti, indipendentemente da quale ne fosse la fonte). Una cosa, questa, che impegnerà ulteriormente i tribunali. Inoltre, la quota distributiva si determina sulla base di quei rivenditori che siano paragonabili a un rivenditore il quale richiede accesso al sistema di distribuzione e alla fornitura (punto 27), come il BGH ha già accertato in precedenza con riferimento a designer di mobili imbottiti (sentenza del 09.05.2000, fasc. n. KZR 28/98, pag. 12 e ss.).

Conclusioni pratiche

  1. Valutare attentamente, in fase di ristrutturazione del sistema di distribuzione, se prevedere o meno delle disposizioni transitorie. Una buona ragione per evitarle potrebbe essere il voler rendere più facile l’esclusione di distributori indesiderati. Pertanto, nel caso Rimowa, la Corte d’Appello di Monaco di Baviera ha respinto l’obiezione del produttore secondo cui il modello commerciale del distributore “mirava ai cacciatori di occasioni“, sostenendo che il produttore avrebbe concesso agli altri distributori un termine di “12 mesi dopo la conclusione dell’accordo” per soddisfare i nuovi criteri qualitativi.
  2. Sui criteri qualitativi nelle vendite via Internet, si rimanda agli altri articoli già pubblicati su Legalmondo, in particolare sui divieti di rivendita via piattaforme internet e sul divieto di strumenti di comparazione dei prezzi.

Benedikt Rohrssen

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    Drafting the mediation clause in franchise agreements

    31 Maggio 2018

    • Spagna
    • Distribuzione
    • Franchising

    Il presidente Erdogan ha emanato un decreto presidenziale che impone l’uso obbligatorio della Lira Turca negli accordi conclusi tra soggetti residenti in Turchia. Il decreto (d’ora innanzi: Decreto), che modifica il decreto sulla protezione del valore della lira turca, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed è entrato in vigore il 13 settembre 2018.

    Il Decreto impone l’uso della Lira Turca per l’acquisto e la vendita di tutti i tipi di beni, merci, servizi e immobili. Tutti i contratti di affitto di veicoli, immobili e qualunque altro tipo di beni devono essere effettuati utilizzando le Lire Turche. Il Decreto stabilisce inoltre che i contratti non possono fare riferimento al tasso di cambio della Lira Turca con una valuta straniera.

    Andiamo a vedere punto per punto le modifiche introdotte dal regolamento.

    Impossibilità di utilizzare le valute straniere nei contratti nazionali

    Il Decreto, come già anticipato, prevede che tutti i pagamenti relativi a contratti tra soggetti residenti in Turchia devono essere obbligatoriamente effettuati in Lire Turche, sia che riguardino persone giuridiche, sia che riguardino persone fisiche.

    Inoltre, anche tutti i contratti aventi ad oggetto immobili dovranno essere effettuate in Lire Turche, senza alcuna possibilità di far riferimento a valute estere.

    Tutti i contratti devono essere modificati entro 30 giorni

    Il Decreto prevede, inoltre, che tutti i contratti tra soggetti residenti in Turchia stipulati prima del 13 settembre 2018 devono essere modificati e i pagamenti devono essere convertiti in Lire Turche entro 30 giorni dalla data di pubblicazione del Decreto (13 settembre 2018): ciò significa che tutti i contratti tra soggetti residenti, basati su valute straniere devono essere modificati entro il 14 ottobre 2018, senza – come già visto – poter vincolare gli importi contrattuali al tasso di cambio con qualsivoglia valuta estera.

    Le parti, quindi, sono libere di concordare qualsiasi tasso di cambio nel momento in cui modificano il contratto (ossia entro il 14 ottobre), ma non possono vincolare il contenuto del contratto alle oscillazioni future.

    Importazione ed esportazione di beni e servizi

    Il nuovo Decreto non ha alcun impatto sui contratti di import-export, a patto che una delle parti del contratto non sia residente in Turchia. Tuttavia si deve notare che il Decreto può avere un impatto sulle controllate turche di società multinazionali che commerciano in valuta straniera.

    Non vi è alcuna limitazione nel portare valuta estera nel paese.

    Sanzioni

    La nuova politica monetaria non prevede alcuna sanzione penale o amministrativa. È probabile che queste vengano adottate dalle nuove regolamentazioni, che dovranno implementare alcuni aspetti pratici per la completa applicazione del Decreto. È opportuno però sottolineare che, in caso di mancata conversione il Lire Turche di un contratto stipulato in valuta straniera, sarà facile per una delle due parti richiedere al Tribunale la modifica del contratto.

    Conclusioni

    Questo Decreto è uno dei provvedimenti presi dal governo turco per sostenere la Lira Turca, in grande difficoltà. Il crollo del valore della Lira Turca, infatti, è al centro dei provvedimenti governativi degli ultimi 6 mesi, interamente volti a cercare di arginarne il calo del valore.

    Fino al 1983 in Turchia erano in vigore politiche simili, sempre allo scopo di proteggere la moneta locale, che poi sono state eliminate dopo le elezioni del 1983 e la nuova visione liberale. Si trattava, però, di un’epoca ed un’economia diversa rispetto a oggi.

    Non è ancora chiaro se questo Decreto possa o meno portare ad un miglioramento, ma quello che è sicuro è che gli investitori stranieri (o locali finanziati da istituzioni straniere) dovranno modificare i loro contratti in vigore stipulati in valute estere, convertendoli in Lire Turche.

    Not what you would expect 

    When can you terminate, how should you terminate, and how much are you exposed?!

    The outcomes of termination of a business relationship with an Israeli counterpart in Israel arise again and again as a question in many disputes between International corporations and Israeli counterparts, such as distributors or franchisees.

    This is mainly because Israeli law does not include specific laws regulating or regarding distribution or franchising or other kinds of business ventures (except a relatively new agency law – referring in a limited manner to specific kinds of agency only) – and thus disputes in said regards are determined based on the general principles of contract law, the contractual and factual bases – obviously resulting in considerable uncertainty as to specific matters.

    However, substantial case law, such as in the matter of Johnson & Johnson International that ended up paying compensation in the equivalent to over 1.5 Million US$, indicates the basics and threshold of what can be expected in such disputes, and, if implemented wisely, may assist in planning the disengagement or termination of a business relationship, in a manner that would be the least costly for the terminating party and minimize its exposure to a lawsuit.

    In many cases, domestic parties invest many years and/or fortunes, in order to penetrate the domestic market with the foreign service or products, and to promote sales in the subject region, for the benefit of both the international corporation and the domestic party.

    Nevertheless, often the international corporation decides for various reasons (such as establishing an “in-house” operation” in the target location or substituting the distributor/franchisee) to terminate the oral or written contractual relationship.

    What are the legal foundations involved in such termination as per due notice of termination and corresponding compensation – if at all?

    Generally, this issue arises in cases in which the contract does not specify a period of the business relationship, and, as a principle of law, contracts may be terminated by reasonable notice and subject to the fundamental good faith principle.

    Contracts are not perceived as binding upon the parties indefinitely. The question is always what is the reasonable time for termination notice, and is the termination done in good faith (which is always a tricky and vague issue). Compensation is commonly awarded in accordance with what the courts find as the due notice period that may also entail compensation for damages related to said breach.

    As always, there are exceptions, such as breach of trust toward the manufacturer/franchisor, that may have great impact on any due notice obligations, as far as justification for immediate termination that can be deemed immune to breach of due notice or good faith obligations.

    The truth is the reasonability of the due notice varies from case to case!

    However, Israeli case law is extremely sensitive to the actual reasoning of termination and how genuine it is, as opposed to asserting a tactical breach argument in an attempt to “justify” avoiding a due notice period or adequate compensation.

    In this respect, in many cases simple “non-satisfaction” was denied as a legitimate argument for breach of contract, while safeguarding the freedom of contracts and the right to terminate an ongoing contract with due notice and good faith.

    There are various common parameters referred to in the case law, to determine the adequate time of due notice, including, for instance, the magnitude of investment; the time required for rearrangement of business towards the new situation (including time required to find an alternative supplier product which can be marketed); the magnitude of the product/service out of the entire distributor’s business, etc.

    Time and again, although not as binding rule, the due notice period seems to be in the range of around 12 months, as a balance between the right of termination and the reasonable time for rearranging the business in light of the termination. There were, however, cases in which due notice for termination was deemed as short as three months and as long as two years – but these are rather exceptional.

    Another guiding point in the case law is the factor of exclusivity or non-exclusivity, as well as the concept that the longer the business relationship, the less the distributor/franchisee may expect compensation/reimbursement for investment – based on the concept that he has enjoyed the fruits of the investment.

    The outcome of not providing such adequate due notice might result in actual compensation reflecting the loss of profit of the business in the last year before the termination, or for the whole term the court finds a due notice was in place, or, in cases of bad faith, even a longer period reflecting the damages.

    In conclusion, given the legal regime in Israel, such exposure might be extremely considerable for any international or foreign business. It would, therefore, be vital and as a consequence of real value to plan the strategy of disengagement/termination of the business with the domestic counterpart in Israel, in advance and prior to executing it, and there are, indeed, adequate and wise strategies that may be implemented for the best result.

    E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

    A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

    Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

    Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

    Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

    La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

    A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

    La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

    La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

    La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

    Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

    Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

    Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

    Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

    Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

    Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

    La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

    Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

    Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

    Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

    Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

    Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

    In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

    Quali sono le eccezioni al divieto di fissazione del prezzo di rivendita in un contratto di distribuzione?

    Come note, le intese limitative della concorrenza sono vietate ai sensi dell’art. 101 TFUE, qualora pregiudichino in modo tangibile la concorrenza, a meno che l’incidenza dell’intesa sul commercio o sulla concorrenza sia trascurabile (cfr. Corte di Giustizia UE nel caso Expedia, C-226/11, sentenza del 13 dicembre 2012). Con riguardo alla domanda se sussista una non trascurabile limitazione della concorrenza, oppure se ci si trovi piuttosto in un “porto sicuro” (safe harbour) si può prendere come punto di riferimento la Comunicazione sui De-minimis della Commissione Europea. Sulla base di tale atto, un accordo si configura, in particolare, come non “trascurabile”, qualora attraverso lo stesso si persegua una limitazione della concorrenza. Ciò vale in particolare per le limitazioni fondamentali, come l’imposizione verticale di prezzi (o dei prezzi di rivendita).

    Con riguardo a una campagna speciale di prodotti per la linea, la Corte d’Appello di Celle aveva visto e deciso la questione in modo sorprendentemente diverso, sostenendo che un vincolo verticale sul prezzo non costituisse una restrizione sensibile e che, pertanto, ricadrebbe al di fuori del divieto di pratiche commerciali anticoncorrenziali di cui all’art. 101 TFUE (sentenza del 07.04.2016, n. fasc. 13 U 124/15 [Kart]). Nel caso di specie, il produttore aveva sottoposto, a un gruppo di rivenditori (farmacie), una campagna speciale con uno sconto particolare: di una volta sola, limitata nel tempo e con un limite quantitativo massimo. A tal fine, i rivenditori avrebbero dovuto obbligarsi a mettere in mostra “il prodotto … in modo ben visibile, e a non scendere al di sotto del prezzo di 15,95 Euro”.

    Il Tribunale di Hannover aveva invece visto nell’accordo un’inammissibile imposizione del prezzo (sentenza del 25.8.2015, n. fasc. 18 O 91/15). La Corte Federale tedesca ha ora confermato questa linea: i prezzi minimi stabiliti nell’ambito dell’offerta speciale, limitano la concorrenza nel suo complesso (cfr. punto 26) e rientrano perciò nel divieto previsto dall’art. 101 TFUE (sentenza del 17.10.2017, n. fasc. KZR 59/16). Tale decisione è conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, caso Expedia (vedi sopra), e a quella del Corte Federale tedesca stessa riguardante la richiesta di distribuire “una barretta extra” (ossia senza maggiorazione di prezzo rispetto alla confezione normale) formulata dal produttore dolciario Ferrero (sentenza dell’08.04.2003, n. fasc. KZR 3/02), perché quest’ultima decisione riguarda formalmente “il margine di aumento del prezzo riconducibile al contenuto più ampio della confezione”; non, tuttavia, la decisione, da parte del rivenditore, di fissare il prezzo di vendita minimo.

    Indicazioni pratiche:

    1. La fissazione verticale del prezzo è generalmente vietata, sebbene un prezzo di vendita consigliato dal produttore (“prezzo di rivendita consigliato”) e la fissazione di prezzi massimi di vendita siano viceversa consentiti: è questo, in sostanza, il principio base della normativa sulla concorrenza in materia distributiva tedesca ed europea, per quanto riguarda l’ambito dei prezzi. Inoltre, consigli sui prezzi e prezzi massimi di vendita sono soggetti alla condizione “che questi non equivalgano ad un prezzo fisso o ad un prezzo minimo di vendita per effetto di pressioni esercitate o incentivi offerti

    da una delle parti” (art. 4 lett. a) del Regolamento di esenzione per categoria di accordi verticali). Ciò significa che:

    • il produttore o il fornitore possono fornire un’indicazione,
    • il rivenditore, tuttavia, dispone di un’ampia libertà nel fissare i propri prezzi di vendita.
    1. Eccezioni sono previste, oltre che per i vincoli verticali sui prezzi dei libri o nel caso di accordi di specializzazione – se necessario per il tramite della difesa efficiente di cui all’articolo 101 co. 3 TFUE, in casi individuali, per esempio:
    • inserimento di nuovi prodotti nel mercato, oppure
    • in caso di campagne speciali limitate nel tempo, qualora ad esse si accompagni un corrispondente vantaggio in termini di efficienza, ad esempio qualora i margini di profitto siano investiti in una migliore assistenza della clientela, la quale avvantaggi tutti i consumatori e, fissando i prezzi, eviti le forme di parassitismo da parte di quei commercianti i quali non offrono alcuna forma di assistenza (cfr. Orientamenti sulle restrizioni verticali, punto 225).

    Tali offerte, tuttavia, necessitano di una preparazione molto buona, in quanto i produttori stessi possono formulare soltanto per periodi molto brevi i prezzi di rivendita e soltanto qualora gli stessi siano giustificati in modo convincente da vantaggi in termini di efficienza, come ad esempio l’impedimento di casi di parassitismo.

    1. Nel caso di imposizioni di prezzi, le autorità della concorrenza diventano presto sensibili. Per esempio, multe per imposizione verticale di prezzo sono state emesse di recente in Germania. A tal riguardo, occorre fare particolare attenzione, in modo speciale negli accordi, di distribuzione e vendita. .
    2. In modo corrispondente, i reparti vendita delle imprese dovrebbero adattare i loro metodi distributivi alla giurisprudenza finora intercorsa concernente le indicazioni sui prezzi, fissazione di prezzi massimi e offerte speciali in sconto. Indicazioni pratiche vengono inoltre fornite da

    Geoblocking is a discriminatory practice preventing customers (mainly on-line customers) from accessing and/or purchasing products or services from a website located in another member State, because of the nationality of the customer or his place of residence or establishment.

    The EU Regulation no. 2018/302 of 28 February 2018 on addressing unjustified geoblocking and other forms of discrimination based on customers’ nationality, place of residence or place of establishment within the internal market will enter into force on 2 December 2018.

    The current situation

    The EU Commission carried out a “mystery shopping” survey on over 10 000 e-commerce websites in the EU. The geoblocking figures are quite high! 63% of the websites do not let shoppers to buy from another EU country (even 86% for electric household appliances and 79% for electronics and computer hardware).

    The survey shows also that 92% of on-line retailers require customers to register on their website and to provide them with e-mail address, physical address and telephone number. The registration is denied most of the time because of a foreign delivery address for 27% of the websites. Almost half of the websites give no information about the place of delivery while shopping on the website although this information on delivery restrictions has to be provided in due time during the shopping process. At the end, according to this EC survey, only 37% of the websites truly allow e-shoppers to freely buy on-line from another EU country (without restriction as regards place of establishment, place of delivery and mean of payment).

    On the other side, only 50% of European customers buy products from on-line shops based in another EU member State while the value and the volume of e-commerce, globally speaking increase thoroughly year after year, but only on a domestic scope not throughout Europe.

    On 23 June 2017, the European Council asked for a real implementation of the Digital Single Market strategy in all its elements including cross border partial delivery, consumer protection and prohibition of undue geoblocking.

    The lack of the current legal frameworks

    The service directive (n°2006/123/CE) and article 101 of the TFUE address already the discrimination practices based on nationality or place or residence or establishment.

    According to article 20 (2) of the service directive, the EU member States must ensure that professionals do not treat customers differently based on their place of residence or establishment or nationality (unless objective exception). On the other side, EU competition law on vertical restraints (article 101 TFUE and the block exemption regulation and its guidelines) considers restrictions on passive sales as hard core restrictions violating EU competition rules. However, both set of rules (service directive and competition law framework) appear not to be fully effective in practice.

    With this respect, the recent report of the European commission about the competition enquiry in the e-commerce sector shows, among others, that geoblocking was used at a large scale within the European e-commerce sector.

    The aim of the geoblocking regulation

    The goal of the geoblocking regulation is to prevent professionals from implementing direct or indirect discrimination based on the nationality, the place of residence or the place of establishment of their customers when dealing with cross border e-commerce transactions.

    The scope of the geoblocking regulations

    The new Regulation will only apply to online sales between businesses and end-user consumers or businesses.

    The new Regulation will apply to websites operated within the European Union or to websites operated outside the European Union but proposing goods or services to customers established throughout in the European Union.

    What are the new rules of management of an e-commerce website?

    „As regards the access to the website

    Under the Regulation, a business may neither block nor restrict, through the use of technological measures, access to their online interfaces for reasons related to nationality, place of residence or place of establishment of an internet user. However, businesses are authorized to redirect customers to a different website than the one they were trying to access provided the customer expressly agrees thereto and can still easily visit the website version they originally tried to access.

    „As regards the terms and conditions of sales of the website

    The Regulation forbids businesses from applying different general conditions of access to goods or services according to a customer’s nationality or place of residence or place of establishment (as identified by their IP address in particular) in the following three cases:

    • where the goods sold by the business are delivered in a different member state to which the business offers delivery (or where the goods are collected at a location jointly agreed upon by the business and the customer);
    • where the business offers electronically supplied services such as cloud, data storage, hosting services etc. (but not services offering access to copyright-protected content such as streaming or online-gaming services);
    • where the business supplies services received by the customer in a country in which the business also operates (such as car rental and hotel accommodation services or ticketing services for sporting or cultural events).

    „ As regards the means of payment on the website

    The Regulation forbids businesses from applying different conditions for payment transactions to accepted means of payment for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment, or to the location of the payment account or the place of establishment of the payment service provider (provided that authentication requirements are fulfilled and that payment transactions are made in a currency accepted by the business).

    What are the impacts of this regulation on e-retailers?

    Although formally excluded from the scope of the Regulation, relations between suppliers and distributors or wholesalers will still be impacted by it since provisions of agreements between businesses under which distributors undertake not to make passive sales (e.g., by blocking or restricting access to a website) for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment “shall be automatically void”.

    The geoblocking regulation therefore impacts distributors twofold: first, directly in their relations with customers (end-user consumers or user-businesses), and second, indirectly in regard to their obligations under the exclusive distribution agreement.

    The geoblocking regulation shall have to be coordinated with the existing competition law framework, especially the guidelines on vertical restraints which set up specific rules applying to on-line sales. On-line sales are likened to passive sales. The guidelines mention four examples of practices aiming to indirectly guarantee territorial protection which are prohibited when supplier and exclusive distributor agree:

    • that the exclusive distributor shall prevent customers in another territory from visiting their website or shall automatically refer them to the supplier’s or other distributors’ websites,
    • that the exclusive distributor shall terminate an online sale if the purchaser’s credit card data show that the purchaser is not from the exclusive distributor’s exclusive territory,
    • to limit the share of sales made by the exclusive distributor through the internet (but the contract may provide for minimum offline targets in absolute terms and for online sales to remain coherent compared to offline sales).
    • that the exclusive distributor shall pay a higher price for goods intended for sale on the internet than for goods intended for sale offline.

    Manufacturers will have to decide whether they adopt a unique European gateway website or multiple local commercial offers, it being known that price differentiation is still possible per category of clients.

    Indeed, the new Regulation does not oblige the e-retailers to harmonize their price policies, they must only allow EU consumers to access freely and easily to any version of their website. Likewise, this Regulation does not oblige e-retailers to ship products all over Europe, but just allow EU consumers to purchase goods from whichever website they want and to arrange the shipment themselves, if need be.

    Finally on a more contractual level, it is not very clear yet how the new geoblocking rules could impact directly or indirectly the conflict of law rules applicable to consumer contracts, as per the Rome I regulation especially when the consumer will be allowed to handover the product purchased on a foreign website in the country of this website (which imply no specific delivery in the country where the consumer is established).

    Therefore B2C general terms and conditions of websites would need to be reviewed and adapted on both marketing and legal sides.

    I produttori di marca e i concessionari di licenze sul marchio (detti anche “licenziatari”) hanno spesso un interesse a proibire l’uso del loro marchio da parte di rivenditori non autorizzati, cioè operanti sul mercato “grigio”. Recentemente un tribunale tedesco ha autorizzato un concessionario di un marchio a proibire a un rivenditore non autorizzato la distribuzione di tali beni sul mercato grigio sia online che offline. Ciò in quanto tale distribuzione minaccia di danneggiare la reputazione del marchio registrato.

    Produttore di beni di lusso vieta la rivendita online e offline da parte di un rivenditore non autorizzato

    Oggetto della questione è se il licenziatario del marchio, sulla base dei propri diritti sul marchio, possa proibire la vendita di prodotti di lusso da parte di rivenditori non autorizzati. Nel caso di specie, il licenziatario è l’affiliato tedesco di un produttore giapponese di prodotti cosmetici di lusso. Esso distribuisce i prodotti, di alta qualità e dal valore molto alto, tramite un sistema di distribuzione selettiva. Il rivenditore non autorizzato è un rivenditore che agisce al di fuori del sistema di distribuzione selettiva. Esso vende prodotti alimentari, beni per la casa, apparecchi elettronici, tessuti, scarpe e, oltre a ciò, anche prodotti cosmetici nella propria piattaforma online e nei propri negozi fisici. Il licenziatario del marchio chiede che al rivenditore non autorizzato sia proibito di distribuire, sia online che offline, prodotti cosmetici i quali rechino il marchio stesso.

    Condizioni e motivi per la proibizione del mercato “grigio” delle vendite

    La Corte d’Appello di Düsseldorf ha confermato l’ingiunzione originariamente concessa dal Tribunale, sostenendo che una pretesa a un rimedio monitorio sussiste ai sensi del Regolamento sul marchio dell’Unione europea 2017/1001 (Art. 9 co. 2 lett. a). Il rivenditore non autorizzato non potrebbe invocare il principio di esaurimento (art. 15 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea), anche qualora il prodotto sia stato posto sul mercato in presenza di / con il consenso del licenziatario (decisione del 6 marzo 2018, caso n. I-20 U 113/17).

    Invece, sussisteva una ragione legittima per una pretesa alla proibizione sulla base del Regolamento sul marchio dell’Unione europea (art. 15 co. 2) – con la conseguenza che i diritti sul marchio del licenziatario non erano esauriti. Tale diritto alla proibizione sussiste aldilà degli esempi legislativi della “modificazione” o dell’ “alterazione” dei beni, se l’uso del marchio rischia di danneggiare la reputazione che tali beni godono (cfr. Corte di Giustizia UE, caso C-337/95, “Dior/Evora”). In particolare, i rivenditori non dovrebbero danneggiare l’immagine di lusso di marchi aventi carattere lussuoso e di prestigio tramite i loro messaggi pubblicitari. Comunque, il proprietario del marchio potrebbe proibire l’uso del marchio soltanto se tale uso da parte del rivenditore “danneggia in modo sostanziale” la reputazione del marchio o, come la Corte d’Appello sembra altresì considerare, se “vi è il rischio di un danno alla reputazione” (punto 29 e ss.). Tale danno alla reputazione potrebbe essere causato, per esempio, dall’uso di un canale di distribuzione non conforme al sistema di distribuzione. Ciò sarebbe confermato altresì dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sulla distribuzione e antitrust nei casi L’Oréal (caso C-31/80), Copad/Dior (caso C-59/08), Pierre Fabre (caso C-439/09) e – più recentemente – Coty Germany (caso C-230/16; vedi qui l’articolo precedente sulle restrizioni alle vendite online): in base a tali decisioni, i produttori di lusso possono proibire ai loro distributori la vendita su piattaforme di terze parti ai fine di mantenere l’immagine di lusso dei beni in questione. Il criterio del “danno all’immagine di lusso” dovrebbe, secondo la Corte d’Appello, essere interpretato in modo uniforme nel diritto dei marchi e nel diritto antitrust sulla distribuzione.

    Nel presente caso di distribuzione di prodotti cosmetici di lusso, la Corte ha visto un rischio di danno all’immagine di lusso del prodotto nel caso sia di vendita su piattaforma online (punto 32 e ss.), che attraverso negozio al dettaglio (punto 38 e ss.): in essi la presentazione del prodotto finirebbe per declassare i marchi di lusso a marchi normali – perciò differendo fortemente dai criteri di vendita restrittivi imposti ai rivenditori autorizzati – in quanto il rivenditore non autorizzato offre anche e soprattutto beni per l’uso quotidiano, includenti articoli a basso prezzo, presentanti in modo semplice, in stile “offerta speciale”, senza particolari esaltazioni, in modo indiscriminato e senza offrire alcun servizio di consulenza.

    Consigli pratici

    1. I produttori di beni di lusso possono proibire a rivenditori non autorizzati di vendere i loro prodotti di marca attraverso canali di distribuzione contrari al sistema di distribuzione, solo se vi è il rischio di un danno alla loro reputazione. Al fine di affermare l’esistenza di un tale rischio è d’aiuto avere – o stabilire – chiare ed elaborate linee guida sulla vendita e sui criteri di distribuzione nei confronti dei distributori autorizzati, le quali sottolineino chiaramente l’immagine di lusso dei marchi e dei beni nonché il loro carattere di prestigio.
    2. Resta da vedere se la decisione darà luogo a una prassi decisoria più ampia e uniforme all’interno dell’UE (la libera circolazione di beni dev’essere tenuta in conto, vedi Corte Federale Tedesca nel caso “Klacid Pro”, punto 24). In ogni caso, la decisione è in linea con la prassi decisoria sugli accordi di distribuzione selettiva e auspica comprensibilmente una interpretazione uniforme del diritto dei marchi e del diritto antitrust sulla distribuzione – come già fatto dall’Avvocato Generale nel caso Coty riguardante divieti di usare piattaforme di terze parti (punto 71 e ss. delle sue Conclusioni).
    3. Resta inoltre da vedere se a produttori di marca anche al di fuori del segmento del lusso verrà concesso un rimedio monitorio contro rivenditori non autorizzati. Per quanto riguarda i rivenditori autorizzati, si può sostenere che non solo produttori di lusso, ma anche produttori di marca in generale possono proibire la vendita tramite piattaforme di terze parti (vedi il precedente articolo sulle restrizioni alle vendite online). In ogni caso, la prassi decisoria sulle vendite online sta divenendo sempre più chiara, vedi, per esempio, il precedente articolo sui motori di ricerca sui prezzi, qui.
    4. Protezione del marchio all’interno dell’Europa: quando vendono i prodotti all’interno dello Spazio Economico Europeo (= UE più Liechtenstein, Islanda e Norvegia), i produttori di marca e i licenziatari di marchi registrati possono proteggere i loro marchi registrati tramite un doppio sistema: (i) un unico marchio protetto lungo tutto lo Spazio economico europeo e (ii) singoli marchi registrati in ogni paese, in modo da coprire tutti gli stati membri UE. Registrare un marchio UE conferisce al proprietario i diritti esclusivi sullo stesso, e lo autorizza in particolare di proibire:
    • l’apposizione del segno sui prodotti o sul loro imballaggio;
    • l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;
    • l’importazione o l’esportazione dei prodotti sotto la copertura del segno;
    • l’uso del segno come nome commerciale o denominazione sociale o come parte di essi;
    • l’uso del segno nella corrispondenza commerciale o nella pubblicità;
    • l’uso del segno nella pubblicità comparativa in una maniera contraria alla direttiva 2006/114/CE (art. 9 co. 3 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea).

    Tali diritti, tuttavia sono esauriti (non possono più essere esercitati) con riguardo a beni recanti il marchio registrato che siano stati immessi nello Spazio economico europeo con il senso del proprietario (cosiddetto principio di esaurimento). Eccezione: un proprietario potrebbe ancora proibire l’ulteriore commercializzazione dei beni in presenza di ragioni legittime. Tali ragioni sussistono, in particolare, laddove lo stato dei beni sia mutato o manomesso dopo che gli stessi sono stati immessi sul mercato, o laddove la vendita di beni recanti il marchio registrato rischi di danneggiare la reputazione, come nel presente caso tedesco.

    Once convinced of the utility of mediation as a method of resolving conflicts between franchisor and franchisee and taken the decision to include a clause in the contracts that provides for it, the last step would be what elements should be taken into account when drafting it.

    1. The previous negotiation. It seems advisable that both parties grant themselves the possibility of trying to solve the problem with a previous formal negotiation. Mediation does not exclude the previous attempt made by the interested parties or their lawyers; however, it seems advisable to contractually provide a suitable end according to the circumstances. Experience shows that lengthening this phase too long may result in the conflict becoming more complicated and even more difficult to approach mediation.
    2. The clause may also provide for the place where the mediation will take place. Again at this point the parties are free. It is convenient that this is accurate indicating the concrete city.
    3. The language in which the mediation will be developed is the a faculty of the parties. There will be no difficulty in mediations in which both parties use the same language, but it is very convenient in contracts with parties that have different languages, or that belong to regions or countries with different co-official languages. The drafting or signing of the contract in a specific language does not presuppose that this must be the language of the mediation. It is an element to be taken into account also when requesting a mediator who can use that language in the chosen mediation institution.
    4. The procedure can also be decided by the parties. In particular, the number of sessions, the maximum expected duration, the participation of advisors, etc. Keep in mind that the greater or lesser regulation will allow to avoid future conflicts in this respect, although it will also imply a greater limit to the freedom of the parties that, nevertheless, will remain free to modify the agreement by mutual consent.
    5. The term of the mediation can also be contemplated. This would allow, for example, to prevent mediation from being extended only for purely procedural strategic purposes or to gather information from the other party before starting a procedure, etc. The professional mediators, however, are able to identify these manoeuvres, also having the power to put an end to mediation in those cases.
    6. Choosing the mediator or the mediation institution is an important choice. The parties can agree on who will be their mediator, indicate in the contract the elements to choose it, or submit directly to a Mediation Institution so that it is the one who designates it according to its own rules. These decisions can be alternatives (that is, that the parties agree on the mediator and, in case of lack of agreement, submit to an institution that names it), or they can be unique. The designation of an Institution requires that it has a sufficient guarantee of stability (avoid designating short-term institutions or without much future guarantee), with a sufficient panel of mediators depending on the characteristics of the mediation (language, competence, experience) and that allows the necessary flexibility for its operation.
    7. Finally, it is convenient that the clause includes an alternative way in case the mediation does not succeed either because the parties do not reach an agreement, or because they withdraw from the mediation. It is important to recall that mediation does not close the doors to the conflict be resolved by recourse to ordinary jurisdiction or arbitration. And in terms of specialized arbitration in distribution contracts, the IDArb (https://www.idiproject.com/content/idarb-idi-arbitration-project) is an excellent option.

    On the topic of the importance of Mediation in Distribution Agreements, you can check out the recording our webinar “Mediation in International Conflicts”

    Rimowa comunica disdetta a tutti i rivenditori in Europa“ – così titolava l’Handelsblatt il 19 marzo 2018. Il motivo? Rimowa, famoso produttore di costose valigie di marca, ristruttura nuovamente nel 2018 – dopo la precedente ristrutturazione del 2011 – la propria catena distributiva. Progetta, in particolare, di introdurre criteri qualitativi ancor più stringenti e distanti dalla concezione di vecchio negozio, al fine di giungere a una sorta di “esperienza dell’acquisto” (cfr. a tal proposito la Süddeutsche Zeitung del 21.03.2018, pag. 16).

    È bene premettere che, in via generale, i produttori possono strutturare il loro sistema di distribuzione in modo libero e svilupparlo in base alla loro strategia di mercato. Essi sono inoltre sostanzialmente liberi di scegliere tra differenti intermediari distributivi (rivenditore, franchisee, agente ecc.) e di passare eventualmente anche a sistemi di distribuzione selettiva, al fine di indirizzare la distribuzione secondo determinati criteri (in particolare qualitativi) e di possibilmente ridurre, in tal modo, anche il numero dei rivenditori. Tuttavia, in via eccezionale gli stessi rivenditori possono costringere il produttore a essere riforniti: quando, cioè, si sia in presenza di produttore con un grande potere di mercato. In tal caso, un c.d. obbligo a contrarre, risultando in un obbligo di fornitura, può discendere dal divieto di discriminazione, di cui ai §§ 19 co. 1, 2 n. 1, 20 GWB.

    Tale questione assume importanza pratica soprattutto quando, come nel caso di Rimowa, il produttore ristrutturi il proprio sistema di distribuzione. Rimowa l’aveva già fatto nel 2011/2012, quando era passata a una distribuzione selettiva (vedi sulla distribuzione selettiva e le eventuali restrizioni già l’articolo di Legalmondo qui). A tal fine Rimowa ha disdetto i precedenti contratti di concessione di vendita e ha richiesto la sottoscrizione di nuovi contratti, i quali, tra le altre cose, obbligano il rivenditore a presentare le merci in una determinata maniera e ad acquistare e introdurre lo Shop-in-Shop del produttore. Secondo Rimowa, un precedente distributore non corrispondeva più alla nuova concezione del business e alla nuova strategia di marketing. I due, però, non si accordavano per la stipula di un nuovo contratto di concessione di vendita. Così, il rivenditore agiva in giudizio al fine di ottenere la stipula del contratto e con esso anche le forniture per i suoi negozi.

    Il Tribunale di Monaco di Baviera rigettava la domanda (sentenza del 09.09.2014, fasc. n. 1 HKO 7249/13), mentre la Corte d’Appello di Monaco di Baviera, viceversa, l’accoglieva (sentenza del 17.09.2015, fasc. n. U 3886/14 Kart): il produttore avrebbe vantato una posizione di vertice “nel rilevante mercato delle valigie costose e di alto valore”, mentre il rivenditore, viceversa, sarebbe stato in una posizione di dipendenza, in quanto le valigie del primo non avrebbero potuto essere sostituite da altre di pari valore. Ciò sarebbe dimostrato da un’alta quota distributiva presso altri rivenditori (il produttore, cioè, sarebbe il fornitore di un alto numero di rivenditori) e dal design unico, con il connesso alto fattore di riconoscimento. Ora la Corte Federale di Revisione (il BGH) ha annullato la sentenza e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello per ulteriore trattazione (sentenza del 12.12.2017, fasc. n. KZR 50/15), con la motivazione che la c.d. dipendenza del rivenditore dalla posizione di vertice del produttore (“Spitzenstellungsabhängigkeit”) non sarebbe stata adeguatamente accertata: se, nella normalità dei casi, la quota distributiva è determinante, in presenza di sistemi di distribuzione selettiva questa sarebbe meno indicativa. Per il caso di ristrutturazione del sistema di distribuzione vale quanto segue:

    Qualora un fornitore decida, a un certo punto, di passare a un sistema di distribuzione selettiva, si è solitamente in presenza di una dipendenza da posizione di vertice, qualora con riferimento al periodo antecedente si accerti un’alta quota distributiva.” (punto 19)

    Il produttore può opporre eccezione contro la supposta dipendenza da posizione di vertice, indicando quanti rivenditori egli abbia rifornito con prodotti propri (e non solo: anche quanti rivenditori abbiano offerto i prodotti, indipendentemente da quale ne fosse la fonte). Una cosa, questa, che impegnerà ulteriormente i tribunali. Inoltre, la quota distributiva si determina sulla base di quei rivenditori che siano paragonabili a un rivenditore il quale richiede accesso al sistema di distribuzione e alla fornitura (punto 27), come il BGH ha già accertato in precedenza con riferimento a designer di mobili imbottiti (sentenza del 09.05.2000, fasc. n. KZR 28/98, pag. 12 e ss.).

    Conclusioni pratiche

    1. Valutare attentamente, in fase di ristrutturazione del sistema di distribuzione, se prevedere o meno delle disposizioni transitorie. Una buona ragione per evitarle potrebbe essere il voler rendere più facile l’esclusione di distributori indesiderati. Pertanto, nel caso Rimowa, la Corte d’Appello di Monaco di Baviera ha respinto l’obiezione del produttore secondo cui il modello commerciale del distributore “mirava ai cacciatori di occasioni“, sostenendo che il produttore avrebbe concesso agli altri distributori un termine di “12 mesi dopo la conclusione dell’accordo” per soddisfare i nuovi criteri qualitativi.
    2. Sui criteri qualitativi nelle vendite via Internet, si rimanda agli altri articoli già pubblicati su Legalmondo, in particolare sui divieti di rivendita via piattaforme internet e sul divieto di strumenti di comparazione dei prezzi.

    Ignacio Alonso

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