Svizzera – Misure cautelari e sequestri sui beni del debitore

13 Dicembre 2017

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E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

State commercial court in Russia is named in the Russian language – Арбитражный суд. This name of the state commercial court is often translated into English as Arbitration court. Such translation in its turn often causes actual misunderstanding between the parties, since the Russian party will most probably consider the term “Arbitration court” as a state commercial court and the other (non-Russian) party might consider that it agreed to resolve disputes by arbitration rather than in a state court.

Below are some examples of dispute resolution clauses specified by the parties in commercial contracts that caused actual misunderstanding:

“…if there is no agreement, any disputes and claims between the parties relating to the contract will be resolved by arbitration under the Rules of International Chamber of Commerce in Moscow by one or more arbitrators appointed in accordance with the said rules. The Arbitration court shall use the Russian law.”

“…if a dispute is not resolved within 30 days of written notification of the dispute by one party to the other, anyone of the parties may submit the dispute arising out of or in connection with this agreement shall be finally settled under the Rules of Arbitration of the Moscow City Arbitration Court”.

The wording of such clauses and its translation, specifically translation of the term “Arbitration court” might result in resolution of claims by the state commercial courts in Russia, rather than by arbitration. In such situations failure of the non-Russian party to defend itself in the Russian state commercial courts might lead to serious negative consequences.

One of the well-known arbitration institutions in Russia – the International Commercial Arbitration Court at the Chamber of Commerce and Industry of the Russian Federation recommends the following arbitration clause:

Any dispute, controversy or claim which may arise out of or in connection with the present contract (agreement) [in case a separate arbitration agreement is concluded a particular contract (agreement) is to be indicated], or the entering into force, conclusion, alteration, execution, breach, termination or validity thereof, shall be settled by arbitration at the International Commercial Arbitration Court at the Chamber of Commerce and Industry of the Russian Federation in accordance with its applicable regulations and rules. An arbitral award shall be final for the parties. It shall not be allowed to submit a motion to a state court to make a decision on the lack of jurisdiction of an arbitral tribunal in connection with the issuance by the arbitral tribunal of a separate order on existence of jurisdiction as a matter of preliminary nature”. (http://mkas.tpprf.ru/en/documents/)

As you can see the full name of the arbitration institution is “International Commercial Arbitration Court at the Chamber of Commerce and Industry of the Russian Federation” and using its short name “Arbitration court” might result in resolution of disputes by the state commercial court.

Another situation is when the parties actually wish to resolve commercial disputes in a state commercial court in Russia but fail to specify the name of the state commercial court correctly. Believe it or not, but there are many lawyers who consider Russian state courts as an effective and less expensive judicial body to resolve commercial disputes as opposed to arbitration.

There was one interesting case mentioned by the Supreme Court of Russia in this regard in its recent overview of court practice on resolving of disputes connected with protection of foreign investors in Russia.

A foreign company filed a claim with the state commercial court in Russia against another foreign company. The court determined that the parties of the dispute concluded prorogation agreement (choice of forum clause) in accordance with which all disputes arising from the specified contract and in connection with it shall be resolved in the courts of general competence of Russia.

The state commercial court of first instance considered that it lacked jurisdiction to resolve this case, because the parties did not agree to resolve their disputes in the state commercial courts, with that the courts of general competence do not resolve commercial disputes between companies in Russia. As a result, the court of first instance returned the claim to the claimant due to the lack of competence of the state commercial court to resolve this dispute.

In the appeal claim the claimant argued that the prorogation agreement was unenforceable, since the court specified by the parties (the courts of general competence) do not consider commercial disputes of legal entities in Russia. The foreign company also argued that there was a close connection of the dispute with the territory of the Russian Federation, and therefore the state commercial court had competence to consider this case.

The appeal court dismissed the ruling of the court of first instance and the case was returned for re-consideration to the court of first instance based on the following grounds.

The appeal court ruled that the enforceable prorogation agreement shall provide possibility to determine the actual intent (true intent) of the parties regarding competence of the state court to resolve disputes.

The appeal court determined that the prorogation agreement agreed by the parties was unenforceable, since such agreement failed to determine the intent of the parties to resolve disputes in a specific court or a system of competent state courts where the specific state court shall be determined based on the rules of internal competence of courts.

The appeal court further ruled that if prorogation agreement is unenforceable the competent court of the Russian Federation shall use general rules of competence of state commercial courts of the Russian Federation set forth in the Commercial procedural code of the Russian Federation.

In this specific case the subject of the disputed transaction was a sale of share in the charter capital of the company registered at the territory of the Russian Federation. The appeal court in this case established close connection of the dispute with the territory of the Russian Federation and ruled that the state commercial court was competent to consider such dispute.

Therefore, if the parties of the contract fail to correctly stipulate the specific state commercial court to consider their disputes in Russia, such prorogation agreement (choice of forum clause) might be considered by the state commercial court in Russia unenforceable and the claim might be returned to the claimant due to the lack of competence of the state commercial court to resolve such dispute.

Conclusions

If you wish to resolve disputes in the state commercial court in Russia, make sure that the full name of the state commercial court is specified correctly. 

If you wish to resolve disputes by arbitration in Russia it would be reasonable to use a recommended arbitration clause of respective arbitration institution.

And, of course, be sure to check translation of the English version of the contract into Russian.

La questione del litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari nell’azione revocatoria di un trust è da tempo oggetto di un ampio dibattito che ha portato alla formazione di due orientamenti tra loro contrastanti, superati dalla recente pronuncia della Cassazione n. 19376 del 3 agosto 2017.

Secondo un primo indirizzo, infatti, i beneficiari del trust non devono considerarsi parti necessarie del giudizio di revocatoria, perché oggetto della domanda azionata non sarebbe l’atto istitutivo del trust in sé, bensì il successivo atto dispositivo, compiuto dal settlor, con cui il nuovo ente, nella persona del trustee, viene dotato, senza che sia richiesta la partecipazione dei beneficiari, di un patrimonio.

I beneficiari non potrebbero ritenersi litisconsorti necessari in quanto, non essendo direttamente titolari dei beni conferiti nel trust, non subirebbero, nell’ipotesi di revoca dell’atto traslativo, un effettivo pregiudizio, ma vedrebbero semmai leso un loro mero interesse di fatto all’integrità patrimoniale dell’ente.

Essendo il trust non un ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno o più beneficiari, e formalmente intestato al “trustee”, quest’ultimo risulterebbe essere l’unico soggetto che, oltre a poter disporre in via esclusiva dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato, sarebbe legittimato a farli valere nei rapporti con i terzi, anche resistendo in giudizio (cfr. Corte d’Appello di Milano, sentenza 25 novembre 2016): infatti, sempre e solo nei suoi confronti il creditore del disponente potrebbe correttamente avviare, una volta riconosciuta l’inefficacia relativa dell’atto di disposizione all’esito del giudizio di revocatoria, l’esecuzione forzata.

Secondo altro orientamento, invece, i beneficiari del trust devono considerarsi litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria proprio perché, pur non titolari del patrimonio vincolato, sarebbero comunque interessati dagli effetti della sentenza che dispone la revoca del negozio di conferimento dei beni nel trust, venendo la loro posizione, sia giuridica che di fatto, comunque pregiudicata dagli effetti di una simile pronuncia.

Ad analoga conclusione potrebbe giungersi anche attraverso una interpretazione a contrario della giurisprudenza di legittimità in materia di fondo patrimoniale.

Con riferimento a tale istituto, la Cassazione ha, infatti, escluso la legittimazione passiva dei figli dei disponenti in giudizi analoghi, in quanto gli stessi non potrebbero vantare pretese azionabili direttamente nei confronti dei genitori – amministratori del fondo patrimoniale (cfr. Cassazione Civile, sentenza 15 maggio 2014 n. 10641; Cassazione Civile, sentenza 8 settembre 2004 n. 18065; Cassazione Civile, sentenza 17 marzo 2004 n. 5402).

I beneficiari del trust, invece, essendo nella posizione di azionare pretese nei confronti sia del trust stesso che del trustee, dovrebbero poter essere riconosciuti quali litisconsorti necessari in tutti quei giudizi che riguardano, sotto ogni aspetto, il negozio dispositivo-segregativo (cfr. S. Bartoli, Azione revocatoria di trust e litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari: la prima pronunzia della Cassazione, Il Caso, 22 Novembre 2017).

A far chiarezza sulla questione è, quindi, di recente intervenuta la Cassazione che, con la sentenza n. 19376 del 3 agosto 2017, ha proposto una soluzione alternativa a quelle appena illustrate, capace di sanare almeno in parte il contrasto interpretativo descritto.

Il caso esaminato dai giudici di legittimità è relativo al conferimento di determinati beni, dapprima in un fondo patrimoniale e poi in un trust, da parte di una coppia di coniugi che, attraverso tali strumenti, ha inteso destinare parte del proprio patrimonio alle necessità di vita e di studio dei figli.

Gli atti dispositivi sono stati, però, ritenuti pregiudizievoli per i propri interessi da una banca, creditrice di uno dei coniugi, che ha, pertanto, agito in revocatoria, ottenendo, sia in primo che in secondo grado, la declaratoria di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., di fondo patrimoniale e trust.

Contro la sentenza di appello, i coniugi hanno, dunque, promosso ricorso per Cassazione, lamentando la mancata integrazione del contraddittorio in sede di merito, non avendo la corte d’appello ordinato la chiamata in causa dei figli – beneficiari, e chiedendo, conseguentemente, la dichiarazione di nullità dell’intero processo.

I giudici di legittimità, esaminata la vicenda, hanno, però, giudicato privi di pregio i motivi di gravame proposti dai ricorrenti.

Secondo la Cassazione, infatti, nell’ipotesi di fondo patrimoniale, non essendoci alcuna mutazione nella titolarità dei beni, che restano nella titolarità dei genitori – disponenti, e non sorgendo alcun diritto soggettivo in capo ai figli – beneficiari, questi non possono essere in alcun modo considerati litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria del fondo, come peraltro generalmente riconosciuto da costante giurisprudenza sia di merito che di legittimità (sul punto si veda la giurisprudenza già citata in precedenza).

Ad analoga conclusione, secondo la Suprema Corte, deve giungersi anche con riferimento al trust.

Sul punto, però, i giudici di legittimità ritengono di non poter fare pienamente proprio nessuno degli orientamenti formatisi in giurisprudenza, ed offrono, come preannunciato, una terza via interpretativa secondo cui i beneficiari del trust possono essere considerati legittimati passivi nell’azione revocatoria solo quando l’atto costitutivo del trust riconosca loro la titolarità di diritti attuali sui beni conferiti nello stesso.

In assenza di un espresso riconoscimento di tali prerogative, unico legittimato passivo nel giudizio di revocatoria non può che essere il trustee.

Il trust, infatti, diviene operativo, spiega la Corte, in forza di due tipologie di atti: il primo, di carattere unilaterale, finalizzato esclusivamente alla sua istituzione, ed il secondo (o i secondi, potendo il settlor procedere anche con una pluralità di negozi distinti) di natura prettamente dispositiva, diretto a trasferire i singoli beni in capo al trustee.

Se l’atto istitutivo, di per sé, non appare idoneo a determinare nessun pregiudizio per le ragioni dei creditori del disponente, non andando ad incidere sulla consistenza del suo patrimonio e, dunque, sulla sua capacità di adempiere alle proprie obbligazioni, altrettanto non può dirsi degli atti con cui i beni vengono trasferiti in capo al trustee, il quale, divenendo l’unico soggetto legittimato a disporre degli stessi, diviene anche il solo a poter resistere in un giudizio per tutelarli.

Chiarito tale aspetto, i giudici di legittimità hanno inoltre osservato come l’eventuale interesse dei beneficiari alla corretta amministrazione del patrimonio conferito nel trust non rappresenti, almeno in linea teorica, una ipotesi di interesse diretto ed immediato ad intervenire nel giudizio di revocatoria, tale da giustificare la partecipazione dei beneficiari quali litisconsorti necessari.

L’interesse alla corretta amministrazione del trust costituisce una posizione giuridica che riguarda esclusivamente i rapporti tra i beneficiari ed il trustee e che, in nessun modo, può interessare i creditori del disponente.

A diversa conclusione si sarebbe potuti giungere qualora il regolamento del trust avesse consentito di qualificare i beneficiari come attuali beneficiari di reddito o come beneficiari finali aventi diritto immediato a ricevere la titolarità dei beni conferiti in trust, indipendentemente da qualsiasi valutazione discrezionale del trustee.

Solo così, infatti, i beneficiari avrebbero potuto far valere un interesse diretto ed immediato ad intervenire nella controversia che avrebbe giustificato la necessità di una loro chiamata in causa.

Pertanto, nelle ipotesi in cui i beneficiari non siano titolari di diritti soggettivi attuali sui beni conferiti in trust, oltre al debitore, legittimato passivo nell’azione revocatoria è solo il trustee, in quanto unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, e dunque anche nei rapporti con i creditori del settlor, e solo titolare di diritti sui beni sottoposti a segregazione.

La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione si pone in linea anche con quanto previsto dal diritto inglese, dal quale il nostro ordinamento ha mutuato l’istituto del trust, secondo cui nelle controversie promosse dai creditori del disponente nei confronti del trust, la protezione di questo è affidata al trustee, al posto o in aggiunta ai beneficiari (Di Sapio, Muritano, “Solo il «trustee» partecipa al giudizio di revoca del trust”, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017).

Perciò come in Italia, anche nei sistemi anglosassoni i beneficiari non sono parti necessarie del processo, ma possono intervenire volontariamente nello stesso per evitare di essere pregiudicati dalla pronuncia di revocatoria.

L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.

Come evitare che il debitore si liberi dei propri beni per evitare un’esecuzione forzata? In Svizzera un creditore può farlo con un sequestro conservativo, a due condizioni: in primo luogo, il debitore non deve essere residente o avere un domicilio in Svizzera; in secondo luogo, il creditore deve essere in possesso di una sentenza o un lodo arbitrale favorevole.

Nonostante la pressione crescente degli altri stati, la Svizzera continua a ricoprire un ruolo dominante nel panorama finanziario. Per questo motivo la giurisdizione svizzera è molto importante per i soggetti (persone fisiche o giuridiche) che desiderano eseguire i propri crediti nei confronti di debitori che detengono conti correnti bancari o altri beni in Svizzera. Sebbene nella pratica il sequestro conservativo venga effettuato principalmente su conti bancari, è possibile utilizzare lo stesso strumento anche per aggredire, con il medesimo effetto, altri beni, come ad esempio patrimoni immobiliari, opere d’arte o beni di terzi creditori nei confronti del debitore.

In questo post (in lingua inglese) sul blog di Legalmondo è stato trattato il nuovo regolamento europeo 655/2014 entrato in vigore nel gennaio 2017 (non applicabile in Svizzera) sui sequestri sui conti correnti bancari negli stati appartenenti all’Unione Europea.

Tornando alla Svizzera, un creditore può chiedere al tribunale del luogo dove si trovano i beni del debitore o la sede della banca l’emissione di un sequestro conservativo, solo se dimostra che sussistono prima facie i tre requisiti previsti dalla Legge federale sulla esecuzione e sul fallimento (“Swiss Debt Enforcement and Bankruptcy Act”), ovvero:

  • il credito è esigibile e non garantito;
  • i beni del debitore da sequestrare si trovano in Svizzera;
  • vi sono i presupposti legali per ottenere un sequestro conservativo.

Questi presupposti, come già anticipato, richiedono principalmente che:

  • Il debitore non sia residente in Svizzera e l’azione stessa sia sufficientemente connessa con la Svizzera o sia fondata su un riconoscimento del debito sottoscritto dal debitore (“sequestro contro un soggetto non residente in Svizzera”);
  • Il creditore disponga di una sentenza o un lodo arbitrale esecutivi contro il debitore (“titolo esecutivo”).

Sequestro contro un soggetto non residente in Svizzera. Ai sensi della Legge Federale, il mero fatto che i beni del debitore si trovino in Svizzera non è sufficiente a stabilire una “connessione sufficiente con la Svizzera”. Tale presupposto dipende principalmente dalle circostanze specifiche della controversia, che il tribunale svizzero valuterà caso per caso. La giurisprudenza svizzera ha, però, individuato alcuni criteri di connessione nel caso in cui: il contratto tra le parti sia stato sottoscritto o debba essere eseguito in Svizzera; il contratto sia governato dalla legge svizzera; il creditore viva in Svizzera o l’azione del creditore sia collegata ad un’attività commerciale svolta in Svizzera.

Titolo esecutivo. Al fine di poter chiedere il sequestro conservativo, il creditore deve anche disporre di un titolo esecutivo valido. La Legge Federale non fa alcuna distinzione né tra sentenze e lodi arbitrali, né tra pronunce nazionali o straniere, a patto che siano esecutive (ai sensi della Convenzione di Lugano o della Legge federale sul diritto internazionale privato, oppure – nel caso di un lodo arbitrale straniero – ai sensi della Convenzione di New York del 1958).

Il procedimento. Il tribunale svizzero chiederà al creditore di produrre prime facie la prova dei presupposti legali appena visti. Il provvedimento verrò poi emesso su istanza di parte e spesso può essere concesso inaudita altera parte, quindi – in questi casi – coglierà il debitore di sorpresa, togliendogli la possibilità di spostare le somme di denaro o i beni in altri luoghi.

Il sequestro conservativo – specialmente se emesso inaudita altera parte – è uno strumento particolarmente efficace, perché impedisce al debitore di disporre dei beni sequestrati, che non potranno essere così occultati. È quindi un’arma considerevole a disposizione del creditore che voglia assicurarsi la fruttuosità di un’azione esecutiva e, da ultimo, recuperare il suo credito.

Con la recente sentenza 16601/2017 la Suprema Corte – dopo svariate pronunce contrarie – ha aperto alla possibilità di riconoscere in Italia i provvedimenti stranieri contenenti punitive damages. In questo breve post vedremo in cosa consistono i punitive damages, a che condizioni potranno essere riconosciuti ed eseguiti in Italia e, soprattutto, che contromisure conviene adottare per affrontare questo nuovo rischio.

I danni puntivi, in inglese punitive damages, sono un istituto giuridico originario degli ordinamenti di common law che prevede la possibilità di riconoscere al danneggiato un risarcimento ulteriore rispetto alla compensazione del pregiudizio subito, nel caso in cui il danneggiante abbia agito con dolo o la colpa grave (rispettivamente “malice” e “gross negligence”).

Con i danni puntivi, cioè, oltre alla funzione compensatoria, il risarcimento del danno assume anche una finalità sanzionatoria, tipica del diritto penale, fungendo anche da deterrente nei confronti di ulteriori potenziali trasgressori.

Negli ordinamenti che prevedono i danni punitivi, il riconoscimento e la quantificazione del maggior risarcimento sono rimessi per lo più alla discrezionalità del giudice.

Negli Stati Uniti d’America i danni punitivi sono previsti dai principi di common law, ma disciplinati in maniera diversa in ogni Stato. Generalmente, tuttavia, si applicano ove la condotta del danneggiante sia intenzionalmente diretta a causare un danno o sia posta in essere senza avere riguardo delle norme a tutela della sicurezza. Solitamente non possono essere concessi per l’inadempimento di un contratto, salvo che non determini anche un illecito (tort) autonomo.

In alcuni Stati sono previsti dei limiti massimi ai punitive damages, a volte sotto forma di rapporto con i danni compensativi, a volte come tetto massimo. Inoltre, la Suprema Corte degli Stati Uniti è intervenuta in diversi casi per limitare le somme di condanna. Si consideri, ad esempio, il caso relativo all’azienda produttrice di automobili BMW, nel quale, a fronte di un danno compensativo di 4.000 USD, la Suprema Corte dell’Alabama aveva condannato BMW a 2.000.000 USD a titolo di danno punitivo. La Corte Suprema ha ritenuto tale condanna manifestamente eccessiva (“grossly excessive”) e ha rimesso nuovamente il caso alla Corte Suprema dell’Alabama, che ha in seguito ridotto a 50.000 USD i punitive damages (BMW of North America, Inc. v. Gore, 517 U.S. 559, 1996).

Non sempre, però, i punitive damages vengono ridotti. Nel 2011 i giudici del Montana hanno condannato il produttore di automobili Hyundai al pagamento della somma di 72 milioni di USD a titolo di danni punitivi per un incidente causato dal difetto allo sterzo di una vettura, che aveva causato il decesso di due giovani.

Negli ordinamenti di civil law, tra i quali l’Italia, l’istituto dei danni punitivi non viene tradizionalmente riconosciuto, in quanto la sanzione del danneggiante viene generalmente ritenuta estranea ai principi del diritto civile, ancorati alla concezione del risarcimento danni come mera restaurazione della sfera patrimoniale del danneggiato.

Di conseguenza, il riconoscimento dei danni punitivi statuiti in una pronuncia straniera era ostacolato dal limite dell’ordine pubblico e le sentenze che li prevedevano non avevano accesso allo spazio giuridico italiano.

La sentenza a Sezioni Unite n. 16601/2017 del 5 luglio 2017 della Suprema Corte di Cassazione, però, ha cambiato le carte in tavola.

Nel caso di specie veniva richiesto alla Corte di Appello di Venezia il riconoscimento (ex art. 64, legge 218/1995) di tre sentenze della District Court of Appeal of the State of Florida che, accogliendo una domanda di garanzia azionata da un rivenditore americano di caschi nei confronti della società italiana produttrice, avevano condannato quest’ultima al pagamento di 1.436.136,87 USD (oltre spese e interessi) a titolo di risarcimento dei danni causati da un difetto del casco utilizzato in occasione di un sinistro stradale.

La Corte d’Appello di Venezia aveva riconosciuto l’efficacia del provvedimento del giudice straniero considerando la somma meramente risarcitoria e non punitiva. La decisione era stata impugnata in Cassazione dalla parte soccombente, che sosteneva la contrarietà all’ordine pubblico della sentenza statunitense, in forza dell’orientamento giurisprudenziale sino a quel momento costante.

La Cassazione ha confermato la valutazione della Corte d’Appello, ritenendo la somma non punitiva, e ha dichiarato il riconoscimento della pronuncia statunitense in Italia.

Le Sezioni Unite, però, hanno colto l’occasione per affrontare la questione inerente l’ammissibilità dei danni punitivi in Italia, cambiando l’orientamento storico della Suprema Corte (si veda Cass. 1781/2012).

Secondo la Corte, la nozione di responsabilità civile intesa come mera riparazione dei danni subiti è da considerarsi ormai desueta, data l’evoluzione di tale istituto attraverso interventi legislativi e giurisprudenziali nazionali ed europei che hanno introdotto mezzi risarcitori a funzione sanzionatoria e deterrente. Nel nostro ordinamento, infatti, è possibile trovare diversi casi di risarcimenti danni con funzione sanzionatoria: in materia di diffamazione a mezzo di stampa (art. 12 L.47/48), diritto d’autore (art. 158 L. 633/41), proprietà industriale (art. 125 D. Lgs 30/2005), abuso del processo (art. 96 comma 3 c.p.c. e art. 26 comma 2 c.p.a.), diritto del lavoro (art. 18, comma 14), diritto di famiglia (art. 709-ter c.p.c.) e altri.

La Corte di Cassazione ha, quindi, affermato il seguente principio di diritto: “Nel vigente ordinamento italiano, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, perché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria della responsabilità civile. Non è, perciò, ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.

La conseguenza, molto importante, è che la pronuncia apre la porta alla possibile delibazione di sentenze straniere che condannano una parte al pagamento di una somma superiore rispetto quella sufficiente a compensare il pregiudizio subito in seguito al danno.

A tale scopo, tuttavia, la Suprema Corte ha disposto alcune condizioni affinché la sentenza straniera possa essere delibata, ossia che la decisione sia resa nell’ordinamento straniero su basi normative che:

  1. garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna;
  2. la prevedibilità della stessa; e
  3. i limiti quantitativi.

I possibili effetti della Sentenza nell’ordinamento italiano

In primo luogo, va chiarito che la Sentenza non ha modificato il sistema risarcitorio interno dell’ordinamento italiano. In altre parole, la Sentenza non permetterà ai giudici nazionali di comminare danni punitivi all’interno di procedimenti italiani.

Per quanto riguarda invece le sentenze straniere, invece, sarà ora possibile ottenere il risarcimento dei danni punitivi attraverso il riconoscimento e l’esecuzione nel sistema italiano di una decisione straniera che prevede la condanna a tale tipologia di danno, a condizione che siano rispettati i presupposti sopra indicati.

In considerazione di ciò, le imprese italiane che hanno investito o fanno affari in paesi che prevedono i danni punitivi dovranno tenere in considerazione questo nuovo rischio.

Gli strumenti per tutelarsi

L’imprenditore italiano che opera su mercati stranieri nei quali sono previsti i danni punitivi deve considerare con attenzione questo rischio, che sino ad oggi, come visto, non aveva accesso allo spazio giuridico italiano.

L’ottica deve essere necessariamente quella di prevenzione e gli strumenti a disposizione in tal senso sono diversi: in primo luogo l’adozione di clausole contrattuali che prevedano la rinuncia del danneggiato a questo tipo di danno o pongano un limite alla risarcibilità dei danni contrattuali, ad esempio ancorandola al valore dei prodotti o servizi forniti.

E’ poi fondamentale che si abbia conoscenza della legislazione e della giurisprudenza dei mercati in cui si opera, anche indirettamente (ad esempio, con la distribuzione commerciale dei prodotti) al fine di scegliere in modo consapevole la legge applicabile al contratto e la modalità di risoluzione delle controversie (ad esempio, con previsione dell’esclusiva giurisdizione del foro di un paese  che non preveda i danni punitivi.

Infine, questo tipo di responsabilità e di rischio può essere oggetto di valutazione con polizze assicurative che offrano una copertura specifica rispetto ad eventuali condanne al risarcimento di danni punitivi.

[Initial note: This article is not aimed as a political article pro or con boycott movements or the Israeli government, but rather as a legal informative overview, in light of the actual and financial impact or exposure international business may have in the referred to matter.]

It is perhaps not known to many international trading players, but under Israeli law, Bill for prevention of damage to the State of Israel through boycott – 2011, affirmed by the Supreme Court in 2015 (after a slight interpretive adjustment), boycotting Israeli origin products, or deliberate avoidance of economic or academic ties, may give rise to a lawsuit for actual damages under civil law.

In light of the international BDS movement, attempting to place pressure upon the State of Israel by means of economic and cultural pressure, Israel has realized such activity, indeed, causes actual harm and damage to Israeli based business, manufacturers, importers/exporters, etc., as well as to academic students and professors, and so on, in cultural ties of many sorts – just because the origin is Israel.

This boycott movement affects the people and businesses of Israel, as opposed to  Israeli leaders or politicians or  the State of Israel as a state, and conveys questionable (to say the least) economic and cultural negative effects upon the people facing unprecedented obstacles in trade in the international arena – for no wrongdoing on their part.

Regardless of the political opinion one may have concerning the legitimacy, or rather the non-legitimacy, of the BDS movement or concerning the current political policy of the State of Israel – the relatively new law provides actual legal tools to deal with negative economic outcomes (damages, loss of profits, etc.) that businesses or private people encounter or suffer from boycott measures, solely because of their affiliation or relation to the State of Israel.

Regardless of any opinion of the act itself or its enactment, at the end of the day the act exists and may be used and exploited by filing civil lawsuits against anyone who called for or participated in a boycott. In that sense it creates a new civil wrong as part of the Israeli tort laws.

Moreover, even a deliberate avoidance of economic, cultural or academic ties can raise liability for the avoider towards the business or ties avoided, as well as liability for anyone who has called for the boycott or publicly expressed support of it.

The law goes even further – and also excludes the defense argument of “sufficient justification” and thus provides that anyone who has caused or led to a breach of a contract, by calling for a boycott, may be liable for damages, as well.

As for the damages that can be claimed, after the adjustment to the law according to the Supreme Court ruling of 2015 (ruling that compensation must be awarded in correspondence with the actual damages or loss of profit caused, and cancelled the clause for penal compensation) – the entity that may sue for torts is the entity that suffered the damage and what can be sued for is the actual damage according to the regular Israeli torts law.

The law also prohibits a person who calls for a boycott from participating in any public tender, but this is a different focus from the side of the state.

It is worth mentioning  that the rationale for this legislation was also reviewed by the widely respected Israeli Supreme Court, that has strongly elaborated that such legislation is constitutional and, inter alia, that international entities and individuals such as the BDS movement (as opposed perhaps to states) should not be able to harm or interfere with international or domestic economic affairs without at least being accountable for the outcome of such, and that freedom of speech cannot be unlimitedly protected when it in fact calls for action (or for refraining from action)  that has an actual impact on another and is not simply an expression of an opinion.

To date, it seems that the Magistrates and District Courts of Israel have yet to render judgments in actual cases based on the boycott act, indicating that the implementation of the act is still inchoate. However, it seems that instances and measures of boycotting are on the rise and the methods of boycotting are becoming increasingly overt, in a manner that is bound to lead to considerable litigation in the near future.

Needless to say, issues of jurisdiction, and other aspects of private international law, or imposing jurisdiction on foreign players, are also yet to be resolved in reference to the emergence of lawsuits under the boycott law, but these will surely find their creative legal solutions with the actual submission of lawsuits concerning real life cases.

One of the commonly discussed advantages of international commercial arbitration over litigation in the cross-border context is the enforcement issue. For the purpose of swifter enforcement of foreign arbitral awards, the vast majority of countries signed the New York Convention on the Recognition and Enforcement of Foreign Arbitral Awards.

On contrary, there is no relevant international treaty of such scale for the enforcement of foreign court judgements. Normally, the special legal basis, such as agreement on judicial cooperation between two or more countries, needs to be relied upon in order to get a court judgment recognized and enforced in another country. There are quite many countries that do not have such an agreement with China. This includes, among others, US, Germany or the Netherlands.

Interestingly, however, recently the Chinese court in Wuhan enforced the US court judgement rendered by the Los Angeles Superior Court of California in the Liu Li v Tao Li and Tong Wu case.  It did so despite the fact that there is no agreement between China and US providing for mutual recognition and enforcement of such judgements. The court in Wuhan found, however, that the reciprocity in recognizing and enforcing the court judgments between China and US was established because of an earlier decision of the US District Court of the Central District of California recognizing and enforcing the Chinese judgement rendered by the Higher People’s Court of Hubei in the Hubei Gezhouba Sanlian Industrial Co., Ltd et. al. v Robinson Helicopter Co., Inc. case.

Interestingly, similar course of action was taken earlier in 2016 when the Chinese Nanjing Intermediate People’s Court enforced the Singaporean judgement relying on the reciprocity principle in the Kolma v SUTEX Group case.

How much does it tell us?

Should we now feel safe when opting for own courts in the dispute resolution clauses in the China-related deals? – despite the fact there are no relevant agreements between China and our country? The recent moves of the Chinese courts are, indeed, interesting developments changing the dispute resolution landscape in a desirable direction and increasing the chances for enforcing the foreign commercial court judgements. Yet, as of today, one should not see them as the universal door-openers for the foreign court judgements in similar situations. Accordingly, rather careful approach is recommended and the other dispute resolution methods securing the safer way of enforcement, like arbitration, should be kept in mind. The further changes remain to be seen.

The author of this post is Monika Prusinowska.

If your business is related to France or you wish to develop your business in this direction, you need to be aware of one very specific provision with regards to the termination of a business relationship.

Article L. 442-6, I, 5° of the French Commercial Code protects a party to a contract who considers that the other party has terminated the existing business relationship in a sudden and abrupt way, thus causing her a damage.

This is a ‘public policy’ provision and therefore any contractual provision to the contrary will be unenforceable.

Initially, the lawmaker aimed to protect any business relationship between suppliers and major large-scale retailers delisting (ie, removing a supplier’s products that were referenced by a distributor) at the moment of contracts renegotiations or renewals.

Eventually, the article has been drafted in order to extend its scope to any business relationship, regardless of the status of the professionals involved and the nature of the commercial relationship.

The party who wishes to terminate the business relationship does not need to provide any justification for her actions but must send a sufficient prior notice to the other party.

The purpose is to allow the parties, and in particular the abandoned party, to anticipate the discharge of the contract, in particular in cases of economic dependency.

It is an accentuated obligation of loyalty.

There are only two cases strictly interpreted by case law in which the partner is exempted from sending a prior notice:

  • an aggravated breach of a contractual obligation;
  • a frustration or a force majeure.

There are two main requirements to be fulfilled in order to be able to invoke this provision in front of a judge – an established business relationship and an abrupt termination.

The judge will assess whether the requirements have been fulfilled on a case by case basis.

What does the term ‘established business relationship’ mean?

The most important criterion is the duration, whether a written contract exists or not.

A relationship may be considered as long-term whether there is a single contract or a few consecutive contracts.

If there is no contract in place, the judge will take into account the following criteria:

  • the existence of a long-term established business relationship;
  • the good faith of the parties;
  • the frequency of the transactions and the importance and evolving of the turnover;
  • any agreement on the prices applied and/or the discounts granted to the other party;
  • any correspondence exchanged between the parties.

What does the term ‘abrupt termination’ mean?

The Courts consider the application of Article L442-6-I 5° if the termination is “unforeseeable, sudden and harsh”.

The termination must comply with the following three conditions in order to be considered as abrupt:

  • with no prior notice or with insufficient prior notice;
  • sudden;
  • unpredictable.

To consider whether a prior notice is sufficient, a judge may consider the following criteria:

  • the investments made by the victim of the termination;
  • the business involved (eg seasonal fashion collections);
  • a constant increase in turnover;
  • the market recognition of the products sold by the victim and the difficulty of finding replacement products;
  • the existence of a post-contractual non-compete undertaking ;
  • the existence of exclusivity between the parties;
  • the time period required for the victim to find other openings or refocus the business activity;
  • the existence of any economic dependency for the victim.

The courts have decided that a partial termination may also be considered as abrupt in the following cases:

  • an organisational change in the distribution structure of the supplier;
  • a substantial decrease in trade flows;
  • a change in pricing terms or an increase in prices without any prior notice sent by a supplier granting special prices to the buyers, or in general any unilateral and substantial change in the contract terms.

Whatever the justification for the termination, it is necessary to send a registered letter with an acknowledgment of receipt and ensure that the prior notice is sent sufficienlty in advance (some businesses have specific time periods applicable to them by law).

Compensation for a damage

The French Commercial Code provides for the award of damages in order to compensate a party for an abrupt termination of a business relationship.

The damages are calculated by multiplying the notice period which should have been applied by the average profit achieved prior to the termination. Such profit is evaluated based on the pre-tax gross margin that would have been achieved during the required notice period, had sufficient notice been given.

The courts may also award damages for incidental and consequential losses such as redundancy costs, losses of scheduled stocks, operational costs, certain unamortised investments and restructuring costs, indemnities paid to third parties or even image or reputational damage.

International law

The French supreme court competent in civil law (‘Cour de cassation’) considers that in cases where the decision to terminate the business relationship and the resulting damage take place in two different countries, it is a matter of torts and the applicable law will be the one of the country where the triggering event the most closely connected with the tort took place. Therefore the abrupt termination will be subject to French law if the business of the supplier is located in France.

However, the Court of Justice of the European Union (CJEU) has issued a preliminary ruling dated 14 July 2016 answering two questions submitted by the Paris Court of Appeal in a judgment dated 17 April 2015. A French company had been distributing in France the food products of an Italian company for the last 25 years, with no framework agreement or any exclusivity provision in place. The Italian company had terminated the business relationship with no prior notice. The French company issued proceedings against the Italian company in front of the French courts and invoked the abrupt termination of an established business relationship.

The Italian company opposed both the jurisdiction of the French courts and the legal ground for the action arguing that the Italian courts had jurisdiction as the action involved contract law and was therefore subject to the laws of the country where the commodities had been or should have been delivered, in this case Incoterm Ex-works departing from the plant in Italy.

The CJEU has considered that in case of a tacit contractual relationship and pursuant to European law, the liability will be based on contract law (in the same case, pursuant to French law, the liability will be based on torts). As a consequence, Article 5, 3° of the Regulation (EC) 44/2001, also known as Brussels I (which has been replaced by Regulation (EC) 1215/2012, also known as Brussels I bis) will not apply. Therefore, the competent judge will not be the one of the country where the damage occurred but the one of the country where the contractual obligation was being performed.

In addition and answering the second question submitted to it, the CJEU has considered that the contract is:

  • a contract for the sale of goods if its purpose is the delivery of goods, in which case the competent jurisdiction will be the one of the country where the goods have been or should have been delivered; and
  • a contract for services if its purpose is the provision of services, in which case the competent jurisdiction will be the one of the country where the services have been or should have been provided.

In this case, the Paris Court of Appeal will have to recharacherise the contractual relationship either as consecutive contracts for the sale of goods and deduct the jurisdiction of the Italian courts, or as a contract for services implying the participation of the distributor in the development and the distribution of the supplier’s goods and business strategy and deduct the jurisdiction of the French courts.

In summary, in case of an intra-Community dispute, the distributor who is the victim of an abrupt termination of an established business relationship cannot issue proceedings based on torts in front of a court in the country where the damage occurred if there is a tacit contractual relationship with the supplier. In order to determine the competent jurisdiction in such case, it is necessary to determine whether such tacit contractual relationship consists of a supply of goods or a provision of services.

The next judgment of the Paris Court of Appeal and those of the Cour de cassation to come need to be followed very closely.

Karin Graf

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    Danni Punitivi – La Corte di Cassazione apre la porta in Italia

    2 Novembre 2017

    • Italia
    • Contratti
    • Contenzioso

    E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

    A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

    Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

    Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

    Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

    La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

    A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

    La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

    La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

    La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

    Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

    Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

    Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

    Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

    Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

    Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

    La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

    Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

    Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

    Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

    Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

    Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

    In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

    State commercial court in Russia is named in the Russian language – Арбитражный суд. This name of the state commercial court is often translated into English as Arbitration court. Such translation in its turn often causes actual misunderstanding between the parties, since the Russian party will most probably consider the term “Arbitration court” as a state commercial court and the other (non-Russian) party might consider that it agreed to resolve disputes by arbitration rather than in a state court.

    Below are some examples of dispute resolution clauses specified by the parties in commercial contracts that caused actual misunderstanding:

    “…if there is no agreement, any disputes and claims between the parties relating to the contract will be resolved by arbitration under the Rules of International Chamber of Commerce in Moscow by one or more arbitrators appointed in accordance with the said rules. The Arbitration court shall use the Russian law.”

    “…if a dispute is not resolved within 30 days of written notification of the dispute by one party to the other, anyone of the parties may submit the dispute arising out of or in connection with this agreement shall be finally settled under the Rules of Arbitration of the Moscow City Arbitration Court”.

    The wording of such clauses and its translation, specifically translation of the term “Arbitration court” might result in resolution of claims by the state commercial courts in Russia, rather than by arbitration. In such situations failure of the non-Russian party to defend itself in the Russian state commercial courts might lead to serious negative consequences.

    One of the well-known arbitration institutions in Russia – the International Commercial Arbitration Court at the Chamber of Commerce and Industry of the Russian Federation recommends the following arbitration clause:

    Any dispute, controversy or claim which may arise out of or in connection with the present contract (agreement) [in case a separate arbitration agreement is concluded a particular contract (agreement) is to be indicated], or the entering into force, conclusion, alteration, execution, breach, termination or validity thereof, shall be settled by arbitration at the International Commercial Arbitration Court at the Chamber of Commerce and Industry of the Russian Federation in accordance with its applicable regulations and rules. An arbitral award shall be final for the parties. It shall not be allowed to submit a motion to a state court to make a decision on the lack of jurisdiction of an arbitral tribunal in connection with the issuance by the arbitral tribunal of a separate order on existence of jurisdiction as a matter of preliminary nature”. (http://mkas.tpprf.ru/en/documents/)

    As you can see the full name of the arbitration institution is “International Commercial Arbitration Court at the Chamber of Commerce and Industry of the Russian Federation” and using its short name “Arbitration court” might result in resolution of disputes by the state commercial court.

    Another situation is when the parties actually wish to resolve commercial disputes in a state commercial court in Russia but fail to specify the name of the state commercial court correctly. Believe it or not, but there are many lawyers who consider Russian state courts as an effective and less expensive judicial body to resolve commercial disputes as opposed to arbitration.

    There was one interesting case mentioned by the Supreme Court of Russia in this regard in its recent overview of court practice on resolving of disputes connected with protection of foreign investors in Russia.

    A foreign company filed a claim with the state commercial court in Russia against another foreign company. The court determined that the parties of the dispute concluded prorogation agreement (choice of forum clause) in accordance with which all disputes arising from the specified contract and in connection with it shall be resolved in the courts of general competence of Russia.

    The state commercial court of first instance considered that it lacked jurisdiction to resolve this case, because the parties did not agree to resolve their disputes in the state commercial courts, with that the courts of general competence do not resolve commercial disputes between companies in Russia. As a result, the court of first instance returned the claim to the claimant due to the lack of competence of the state commercial court to resolve this dispute.

    In the appeal claim the claimant argued that the prorogation agreement was unenforceable, since the court specified by the parties (the courts of general competence) do not consider commercial disputes of legal entities in Russia. The foreign company also argued that there was a close connection of the dispute with the territory of the Russian Federation, and therefore the state commercial court had competence to consider this case.

    The appeal court dismissed the ruling of the court of first instance and the case was returned for re-consideration to the court of first instance based on the following grounds.

    The appeal court ruled that the enforceable prorogation agreement shall provide possibility to determine the actual intent (true intent) of the parties regarding competence of the state court to resolve disputes.

    The appeal court determined that the prorogation agreement agreed by the parties was unenforceable, since such agreement failed to determine the intent of the parties to resolve disputes in a specific court or a system of competent state courts where the specific state court shall be determined based on the rules of internal competence of courts.

    The appeal court further ruled that if prorogation agreement is unenforceable the competent court of the Russian Federation shall use general rules of competence of state commercial courts of the Russian Federation set forth in the Commercial procedural code of the Russian Federation.

    In this specific case the subject of the disputed transaction was a sale of share in the charter capital of the company registered at the territory of the Russian Federation. The appeal court in this case established close connection of the dispute with the territory of the Russian Federation and ruled that the state commercial court was competent to consider such dispute.

    Therefore, if the parties of the contract fail to correctly stipulate the specific state commercial court to consider their disputes in Russia, such prorogation agreement (choice of forum clause) might be considered by the state commercial court in Russia unenforceable and the claim might be returned to the claimant due to the lack of competence of the state commercial court to resolve such dispute.

    Conclusions

    If you wish to resolve disputes in the state commercial court in Russia, make sure that the full name of the state commercial court is specified correctly. 

    If you wish to resolve disputes by arbitration in Russia it would be reasonable to use a recommended arbitration clause of respective arbitration institution.

    And, of course, be sure to check translation of the English version of the contract into Russian.

    La questione del litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari nell’azione revocatoria di un trust è da tempo oggetto di un ampio dibattito che ha portato alla formazione di due orientamenti tra loro contrastanti, superati dalla recente pronuncia della Cassazione n. 19376 del 3 agosto 2017.

    Secondo un primo indirizzo, infatti, i beneficiari del trust non devono considerarsi parti necessarie del giudizio di revocatoria, perché oggetto della domanda azionata non sarebbe l’atto istitutivo del trust in sé, bensì il successivo atto dispositivo, compiuto dal settlor, con cui il nuovo ente, nella persona del trustee, viene dotato, senza che sia richiesta la partecipazione dei beneficiari, di un patrimonio.

    I beneficiari non potrebbero ritenersi litisconsorti necessari in quanto, non essendo direttamente titolari dei beni conferiti nel trust, non subirebbero, nell’ipotesi di revoca dell’atto traslativo, un effettivo pregiudizio, ma vedrebbero semmai leso un loro mero interesse di fatto all’integrità patrimoniale dell’ente.

    Essendo il trust non un ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno o più beneficiari, e formalmente intestato al “trustee”, quest’ultimo risulterebbe essere l’unico soggetto che, oltre a poter disporre in via esclusiva dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato, sarebbe legittimato a farli valere nei rapporti con i terzi, anche resistendo in giudizio (cfr. Corte d’Appello di Milano, sentenza 25 novembre 2016): infatti, sempre e solo nei suoi confronti il creditore del disponente potrebbe correttamente avviare, una volta riconosciuta l’inefficacia relativa dell’atto di disposizione all’esito del giudizio di revocatoria, l’esecuzione forzata.

    Secondo altro orientamento, invece, i beneficiari del trust devono considerarsi litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria proprio perché, pur non titolari del patrimonio vincolato, sarebbero comunque interessati dagli effetti della sentenza che dispone la revoca del negozio di conferimento dei beni nel trust, venendo la loro posizione, sia giuridica che di fatto, comunque pregiudicata dagli effetti di una simile pronuncia.

    Ad analoga conclusione potrebbe giungersi anche attraverso una interpretazione a contrario della giurisprudenza di legittimità in materia di fondo patrimoniale.

    Con riferimento a tale istituto, la Cassazione ha, infatti, escluso la legittimazione passiva dei figli dei disponenti in giudizi analoghi, in quanto gli stessi non potrebbero vantare pretese azionabili direttamente nei confronti dei genitori – amministratori del fondo patrimoniale (cfr. Cassazione Civile, sentenza 15 maggio 2014 n. 10641; Cassazione Civile, sentenza 8 settembre 2004 n. 18065; Cassazione Civile, sentenza 17 marzo 2004 n. 5402).

    I beneficiari del trust, invece, essendo nella posizione di azionare pretese nei confronti sia del trust stesso che del trustee, dovrebbero poter essere riconosciuti quali litisconsorti necessari in tutti quei giudizi che riguardano, sotto ogni aspetto, il negozio dispositivo-segregativo (cfr. S. Bartoli, Azione revocatoria di trust e litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari: la prima pronunzia della Cassazione, Il Caso, 22 Novembre 2017).

    A far chiarezza sulla questione è, quindi, di recente intervenuta la Cassazione che, con la sentenza n. 19376 del 3 agosto 2017, ha proposto una soluzione alternativa a quelle appena illustrate, capace di sanare almeno in parte il contrasto interpretativo descritto.

    Il caso esaminato dai giudici di legittimità è relativo al conferimento di determinati beni, dapprima in un fondo patrimoniale e poi in un trust, da parte di una coppia di coniugi che, attraverso tali strumenti, ha inteso destinare parte del proprio patrimonio alle necessità di vita e di studio dei figli.

    Gli atti dispositivi sono stati, però, ritenuti pregiudizievoli per i propri interessi da una banca, creditrice di uno dei coniugi, che ha, pertanto, agito in revocatoria, ottenendo, sia in primo che in secondo grado, la declaratoria di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., di fondo patrimoniale e trust.

    Contro la sentenza di appello, i coniugi hanno, dunque, promosso ricorso per Cassazione, lamentando la mancata integrazione del contraddittorio in sede di merito, non avendo la corte d’appello ordinato la chiamata in causa dei figli – beneficiari, e chiedendo, conseguentemente, la dichiarazione di nullità dell’intero processo.

    I giudici di legittimità, esaminata la vicenda, hanno, però, giudicato privi di pregio i motivi di gravame proposti dai ricorrenti.

    Secondo la Cassazione, infatti, nell’ipotesi di fondo patrimoniale, non essendoci alcuna mutazione nella titolarità dei beni, che restano nella titolarità dei genitori – disponenti, e non sorgendo alcun diritto soggettivo in capo ai figli – beneficiari, questi non possono essere in alcun modo considerati litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria del fondo, come peraltro generalmente riconosciuto da costante giurisprudenza sia di merito che di legittimità (sul punto si veda la giurisprudenza già citata in precedenza).

    Ad analoga conclusione, secondo la Suprema Corte, deve giungersi anche con riferimento al trust.

    Sul punto, però, i giudici di legittimità ritengono di non poter fare pienamente proprio nessuno degli orientamenti formatisi in giurisprudenza, ed offrono, come preannunciato, una terza via interpretativa secondo cui i beneficiari del trust possono essere considerati legittimati passivi nell’azione revocatoria solo quando l’atto costitutivo del trust riconosca loro la titolarità di diritti attuali sui beni conferiti nello stesso.

    In assenza di un espresso riconoscimento di tali prerogative, unico legittimato passivo nel giudizio di revocatoria non può che essere il trustee.

    Il trust, infatti, diviene operativo, spiega la Corte, in forza di due tipologie di atti: il primo, di carattere unilaterale, finalizzato esclusivamente alla sua istituzione, ed il secondo (o i secondi, potendo il settlor procedere anche con una pluralità di negozi distinti) di natura prettamente dispositiva, diretto a trasferire i singoli beni in capo al trustee.

    Se l’atto istitutivo, di per sé, non appare idoneo a determinare nessun pregiudizio per le ragioni dei creditori del disponente, non andando ad incidere sulla consistenza del suo patrimonio e, dunque, sulla sua capacità di adempiere alle proprie obbligazioni, altrettanto non può dirsi degli atti con cui i beni vengono trasferiti in capo al trustee, il quale, divenendo l’unico soggetto legittimato a disporre degli stessi, diviene anche il solo a poter resistere in un giudizio per tutelarli.

    Chiarito tale aspetto, i giudici di legittimità hanno inoltre osservato come l’eventuale interesse dei beneficiari alla corretta amministrazione del patrimonio conferito nel trust non rappresenti, almeno in linea teorica, una ipotesi di interesse diretto ed immediato ad intervenire nel giudizio di revocatoria, tale da giustificare la partecipazione dei beneficiari quali litisconsorti necessari.

    L’interesse alla corretta amministrazione del trust costituisce una posizione giuridica che riguarda esclusivamente i rapporti tra i beneficiari ed il trustee e che, in nessun modo, può interessare i creditori del disponente.

    A diversa conclusione si sarebbe potuti giungere qualora il regolamento del trust avesse consentito di qualificare i beneficiari come attuali beneficiari di reddito o come beneficiari finali aventi diritto immediato a ricevere la titolarità dei beni conferiti in trust, indipendentemente da qualsiasi valutazione discrezionale del trustee.

    Solo così, infatti, i beneficiari avrebbero potuto far valere un interesse diretto ed immediato ad intervenire nella controversia che avrebbe giustificato la necessità di una loro chiamata in causa.

    Pertanto, nelle ipotesi in cui i beneficiari non siano titolari di diritti soggettivi attuali sui beni conferiti in trust, oltre al debitore, legittimato passivo nell’azione revocatoria è solo il trustee, in quanto unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, e dunque anche nei rapporti con i creditori del settlor, e solo titolare di diritti sui beni sottoposti a segregazione.

    La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione si pone in linea anche con quanto previsto dal diritto inglese, dal quale il nostro ordinamento ha mutuato l’istituto del trust, secondo cui nelle controversie promosse dai creditori del disponente nei confronti del trust, la protezione di questo è affidata al trustee, al posto o in aggiunta ai beneficiari (Di Sapio, Muritano, “Solo il «trustee» partecipa al giudizio di revoca del trust”, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017).

    Perciò come in Italia, anche nei sistemi anglosassoni i beneficiari non sono parti necessarie del processo, ma possono intervenire volontariamente nello stesso per evitare di essere pregiudicati dalla pronuncia di revocatoria.

    L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.

    Come evitare che il debitore si liberi dei propri beni per evitare un’esecuzione forzata? In Svizzera un creditore può farlo con un sequestro conservativo, a due condizioni: in primo luogo, il debitore non deve essere residente o avere un domicilio in Svizzera; in secondo luogo, il creditore deve essere in possesso di una sentenza o un lodo arbitrale favorevole.

    Nonostante la pressione crescente degli altri stati, la Svizzera continua a ricoprire un ruolo dominante nel panorama finanziario. Per questo motivo la giurisdizione svizzera è molto importante per i soggetti (persone fisiche o giuridiche) che desiderano eseguire i propri crediti nei confronti di debitori che detengono conti correnti bancari o altri beni in Svizzera. Sebbene nella pratica il sequestro conservativo venga effettuato principalmente su conti bancari, è possibile utilizzare lo stesso strumento anche per aggredire, con il medesimo effetto, altri beni, come ad esempio patrimoni immobiliari, opere d’arte o beni di terzi creditori nei confronti del debitore.

    In questo post (in lingua inglese) sul blog di Legalmondo è stato trattato il nuovo regolamento europeo 655/2014 entrato in vigore nel gennaio 2017 (non applicabile in Svizzera) sui sequestri sui conti correnti bancari negli stati appartenenti all’Unione Europea.

    Tornando alla Svizzera, un creditore può chiedere al tribunale del luogo dove si trovano i beni del debitore o la sede della banca l’emissione di un sequestro conservativo, solo se dimostra che sussistono prima facie i tre requisiti previsti dalla Legge federale sulla esecuzione e sul fallimento (“Swiss Debt Enforcement and Bankruptcy Act”), ovvero:

    • il credito è esigibile e non garantito;
    • i beni del debitore da sequestrare si trovano in Svizzera;
    • vi sono i presupposti legali per ottenere un sequestro conservativo.

    Questi presupposti, come già anticipato, richiedono principalmente che:

    • Il debitore non sia residente in Svizzera e l’azione stessa sia sufficientemente connessa con la Svizzera o sia fondata su un riconoscimento del debito sottoscritto dal debitore (“sequestro contro un soggetto non residente in Svizzera”);
    • Il creditore disponga di una sentenza o un lodo arbitrale esecutivi contro il debitore (“titolo esecutivo”).

    Sequestro contro un soggetto non residente in Svizzera. Ai sensi della Legge Federale, il mero fatto che i beni del debitore si trovino in Svizzera non è sufficiente a stabilire una “connessione sufficiente con la Svizzera”. Tale presupposto dipende principalmente dalle circostanze specifiche della controversia, che il tribunale svizzero valuterà caso per caso. La giurisprudenza svizzera ha, però, individuato alcuni criteri di connessione nel caso in cui: il contratto tra le parti sia stato sottoscritto o debba essere eseguito in Svizzera; il contratto sia governato dalla legge svizzera; il creditore viva in Svizzera o l’azione del creditore sia collegata ad un’attività commerciale svolta in Svizzera.

    Titolo esecutivo. Al fine di poter chiedere il sequestro conservativo, il creditore deve anche disporre di un titolo esecutivo valido. La Legge Federale non fa alcuna distinzione né tra sentenze e lodi arbitrali, né tra pronunce nazionali o straniere, a patto che siano esecutive (ai sensi della Convenzione di Lugano o della Legge federale sul diritto internazionale privato, oppure – nel caso di un lodo arbitrale straniero – ai sensi della Convenzione di New York del 1958).

    Il procedimento. Il tribunale svizzero chiederà al creditore di produrre prime facie la prova dei presupposti legali appena visti. Il provvedimento verrò poi emesso su istanza di parte e spesso può essere concesso inaudita altera parte, quindi – in questi casi – coglierà il debitore di sorpresa, togliendogli la possibilità di spostare le somme di denaro o i beni in altri luoghi.

    Il sequestro conservativo – specialmente se emesso inaudita altera parte – è uno strumento particolarmente efficace, perché impedisce al debitore di disporre dei beni sequestrati, che non potranno essere così occultati. È quindi un’arma considerevole a disposizione del creditore che voglia assicurarsi la fruttuosità di un’azione esecutiva e, da ultimo, recuperare il suo credito.

    Con la recente sentenza 16601/2017 la Suprema Corte – dopo svariate pronunce contrarie – ha aperto alla possibilità di riconoscere in Italia i provvedimenti stranieri contenenti punitive damages. In questo breve post vedremo in cosa consistono i punitive damages, a che condizioni potranno essere riconosciuti ed eseguiti in Italia e, soprattutto, che contromisure conviene adottare per affrontare questo nuovo rischio.

    I danni puntivi, in inglese punitive damages, sono un istituto giuridico originario degli ordinamenti di common law che prevede la possibilità di riconoscere al danneggiato un risarcimento ulteriore rispetto alla compensazione del pregiudizio subito, nel caso in cui il danneggiante abbia agito con dolo o la colpa grave (rispettivamente “malice” e “gross negligence”).

    Con i danni puntivi, cioè, oltre alla funzione compensatoria, il risarcimento del danno assume anche una finalità sanzionatoria, tipica del diritto penale, fungendo anche da deterrente nei confronti di ulteriori potenziali trasgressori.

    Negli ordinamenti che prevedono i danni punitivi, il riconoscimento e la quantificazione del maggior risarcimento sono rimessi per lo più alla discrezionalità del giudice.

    Negli Stati Uniti d’America i danni punitivi sono previsti dai principi di common law, ma disciplinati in maniera diversa in ogni Stato. Generalmente, tuttavia, si applicano ove la condotta del danneggiante sia intenzionalmente diretta a causare un danno o sia posta in essere senza avere riguardo delle norme a tutela della sicurezza. Solitamente non possono essere concessi per l’inadempimento di un contratto, salvo che non determini anche un illecito (tort) autonomo.

    In alcuni Stati sono previsti dei limiti massimi ai punitive damages, a volte sotto forma di rapporto con i danni compensativi, a volte come tetto massimo. Inoltre, la Suprema Corte degli Stati Uniti è intervenuta in diversi casi per limitare le somme di condanna. Si consideri, ad esempio, il caso relativo all’azienda produttrice di automobili BMW, nel quale, a fronte di un danno compensativo di 4.000 USD, la Suprema Corte dell’Alabama aveva condannato BMW a 2.000.000 USD a titolo di danno punitivo. La Corte Suprema ha ritenuto tale condanna manifestamente eccessiva (“grossly excessive”) e ha rimesso nuovamente il caso alla Corte Suprema dell’Alabama, che ha in seguito ridotto a 50.000 USD i punitive damages (BMW of North America, Inc. v. Gore, 517 U.S. 559, 1996).

    Non sempre, però, i punitive damages vengono ridotti. Nel 2011 i giudici del Montana hanno condannato il produttore di automobili Hyundai al pagamento della somma di 72 milioni di USD a titolo di danni punitivi per un incidente causato dal difetto allo sterzo di una vettura, che aveva causato il decesso di due giovani.

    Negli ordinamenti di civil law, tra i quali l’Italia, l’istituto dei danni punitivi non viene tradizionalmente riconosciuto, in quanto la sanzione del danneggiante viene generalmente ritenuta estranea ai principi del diritto civile, ancorati alla concezione del risarcimento danni come mera restaurazione della sfera patrimoniale del danneggiato.

    Di conseguenza, il riconoscimento dei danni punitivi statuiti in una pronuncia straniera era ostacolato dal limite dell’ordine pubblico e le sentenze che li prevedevano non avevano accesso allo spazio giuridico italiano.

    La sentenza a Sezioni Unite n. 16601/2017 del 5 luglio 2017 della Suprema Corte di Cassazione, però, ha cambiato le carte in tavola.

    Nel caso di specie veniva richiesto alla Corte di Appello di Venezia il riconoscimento (ex art. 64, legge 218/1995) di tre sentenze della District Court of Appeal of the State of Florida che, accogliendo una domanda di garanzia azionata da un rivenditore americano di caschi nei confronti della società italiana produttrice, avevano condannato quest’ultima al pagamento di 1.436.136,87 USD (oltre spese e interessi) a titolo di risarcimento dei danni causati da un difetto del casco utilizzato in occasione di un sinistro stradale.

    La Corte d’Appello di Venezia aveva riconosciuto l’efficacia del provvedimento del giudice straniero considerando la somma meramente risarcitoria e non punitiva. La decisione era stata impugnata in Cassazione dalla parte soccombente, che sosteneva la contrarietà all’ordine pubblico della sentenza statunitense, in forza dell’orientamento giurisprudenziale sino a quel momento costante.

    La Cassazione ha confermato la valutazione della Corte d’Appello, ritenendo la somma non punitiva, e ha dichiarato il riconoscimento della pronuncia statunitense in Italia.

    Le Sezioni Unite, però, hanno colto l’occasione per affrontare la questione inerente l’ammissibilità dei danni punitivi in Italia, cambiando l’orientamento storico della Suprema Corte (si veda Cass. 1781/2012).

    Secondo la Corte, la nozione di responsabilità civile intesa come mera riparazione dei danni subiti è da considerarsi ormai desueta, data l’evoluzione di tale istituto attraverso interventi legislativi e giurisprudenziali nazionali ed europei che hanno introdotto mezzi risarcitori a funzione sanzionatoria e deterrente. Nel nostro ordinamento, infatti, è possibile trovare diversi casi di risarcimenti danni con funzione sanzionatoria: in materia di diffamazione a mezzo di stampa (art. 12 L.47/48), diritto d’autore (art. 158 L. 633/41), proprietà industriale (art. 125 D. Lgs 30/2005), abuso del processo (art. 96 comma 3 c.p.c. e art. 26 comma 2 c.p.a.), diritto del lavoro (art. 18, comma 14), diritto di famiglia (art. 709-ter c.p.c.) e altri.

    La Corte di Cassazione ha, quindi, affermato il seguente principio di diritto: “Nel vigente ordinamento italiano, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, perché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria della responsabilità civile. Non è, perciò, ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.

    La conseguenza, molto importante, è che la pronuncia apre la porta alla possibile delibazione di sentenze straniere che condannano una parte al pagamento di una somma superiore rispetto quella sufficiente a compensare il pregiudizio subito in seguito al danno.

    A tale scopo, tuttavia, la Suprema Corte ha disposto alcune condizioni affinché la sentenza straniera possa essere delibata, ossia che la decisione sia resa nell’ordinamento straniero su basi normative che:

    1. garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna;
    2. la prevedibilità della stessa; e
    3. i limiti quantitativi.

    I possibili effetti della Sentenza nell’ordinamento italiano

    In primo luogo, va chiarito che la Sentenza non ha modificato il sistema risarcitorio interno dell’ordinamento italiano. In altre parole, la Sentenza non permetterà ai giudici nazionali di comminare danni punitivi all’interno di procedimenti italiani.

    Per quanto riguarda invece le sentenze straniere, invece, sarà ora possibile ottenere il risarcimento dei danni punitivi attraverso il riconoscimento e l’esecuzione nel sistema italiano di una decisione straniera che prevede la condanna a tale tipologia di danno, a condizione che siano rispettati i presupposti sopra indicati.

    In considerazione di ciò, le imprese italiane che hanno investito o fanno affari in paesi che prevedono i danni punitivi dovranno tenere in considerazione questo nuovo rischio.

    Gli strumenti per tutelarsi

    L’imprenditore italiano che opera su mercati stranieri nei quali sono previsti i danni punitivi deve considerare con attenzione questo rischio, che sino ad oggi, come visto, non aveva accesso allo spazio giuridico italiano.

    L’ottica deve essere necessariamente quella di prevenzione e gli strumenti a disposizione in tal senso sono diversi: in primo luogo l’adozione di clausole contrattuali che prevedano la rinuncia del danneggiato a questo tipo di danno o pongano un limite alla risarcibilità dei danni contrattuali, ad esempio ancorandola al valore dei prodotti o servizi forniti.

    E’ poi fondamentale che si abbia conoscenza della legislazione e della giurisprudenza dei mercati in cui si opera, anche indirettamente (ad esempio, con la distribuzione commerciale dei prodotti) al fine di scegliere in modo consapevole la legge applicabile al contratto e la modalità di risoluzione delle controversie (ad esempio, con previsione dell’esclusiva giurisdizione del foro di un paese  che non preveda i danni punitivi.

    Infine, questo tipo di responsabilità e di rischio può essere oggetto di valutazione con polizze assicurative che offrano una copertura specifica rispetto ad eventuali condanne al risarcimento di danni punitivi.

    [Initial note: This article is not aimed as a political article pro or con boycott movements or the Israeli government, but rather as a legal informative overview, in light of the actual and financial impact or exposure international business may have in the referred to matter.]

    It is perhaps not known to many international trading players, but under Israeli law, Bill for prevention of damage to the State of Israel through boycott – 2011, affirmed by the Supreme Court in 2015 (after a slight interpretive adjustment), boycotting Israeli origin products, or deliberate avoidance of economic or academic ties, may give rise to a lawsuit for actual damages under civil law.

    In light of the international BDS movement, attempting to place pressure upon the State of Israel by means of economic and cultural pressure, Israel has realized such activity, indeed, causes actual harm and damage to Israeli based business, manufacturers, importers/exporters, etc., as well as to academic students and professors, and so on, in cultural ties of many sorts – just because the origin is Israel.

    This boycott movement affects the people and businesses of Israel, as opposed to  Israeli leaders or politicians or  the State of Israel as a state, and conveys questionable (to say the least) economic and cultural negative effects upon the people facing unprecedented obstacles in trade in the international arena – for no wrongdoing on their part.

    Regardless of the political opinion one may have concerning the legitimacy, or rather the non-legitimacy, of the BDS movement or concerning the current political policy of the State of Israel – the relatively new law provides actual legal tools to deal with negative economic outcomes (damages, loss of profits, etc.) that businesses or private people encounter or suffer from boycott measures, solely because of their affiliation or relation to the State of Israel.

    Regardless of any opinion of the act itself or its enactment, at the end of the day the act exists and may be used and exploited by filing civil lawsuits against anyone who called for or participated in a boycott. In that sense it creates a new civil wrong as part of the Israeli tort laws.

    Moreover, even a deliberate avoidance of economic, cultural or academic ties can raise liability for the avoider towards the business or ties avoided, as well as liability for anyone who has called for the boycott or publicly expressed support of it.

    The law goes even further – and also excludes the defense argument of “sufficient justification” and thus provides that anyone who has caused or led to a breach of a contract, by calling for a boycott, may be liable for damages, as well.

    As for the damages that can be claimed, after the adjustment to the law according to the Supreme Court ruling of 2015 (ruling that compensation must be awarded in correspondence with the actual damages or loss of profit caused, and cancelled the clause for penal compensation) – the entity that may sue for torts is the entity that suffered the damage and what can be sued for is the actual damage according to the regular Israeli torts law.

    The law also prohibits a person who calls for a boycott from participating in any public tender, but this is a different focus from the side of the state.

    It is worth mentioning  that the rationale for this legislation was also reviewed by the widely respected Israeli Supreme Court, that has strongly elaborated that such legislation is constitutional and, inter alia, that international entities and individuals such as the BDS movement (as opposed perhaps to states) should not be able to harm or interfere with international or domestic economic affairs without at least being accountable for the outcome of such, and that freedom of speech cannot be unlimitedly protected when it in fact calls for action (or for refraining from action)  that has an actual impact on another and is not simply an expression of an opinion.

    To date, it seems that the Magistrates and District Courts of Israel have yet to render judgments in actual cases based on the boycott act, indicating that the implementation of the act is still inchoate. However, it seems that instances and measures of boycotting are on the rise and the methods of boycotting are becoming increasingly overt, in a manner that is bound to lead to considerable litigation in the near future.

    Needless to say, issues of jurisdiction, and other aspects of private international law, or imposing jurisdiction on foreign players, are also yet to be resolved in reference to the emergence of lawsuits under the boycott law, but these will surely find their creative legal solutions with the actual submission of lawsuits concerning real life cases.

    One of the commonly discussed advantages of international commercial arbitration over litigation in the cross-border context is the enforcement issue. For the purpose of swifter enforcement of foreign arbitral awards, the vast majority of countries signed the New York Convention on the Recognition and Enforcement of Foreign Arbitral Awards.

    On contrary, there is no relevant international treaty of such scale for the enforcement of foreign court judgements. Normally, the special legal basis, such as agreement on judicial cooperation between two or more countries, needs to be relied upon in order to get a court judgment recognized and enforced in another country. There are quite many countries that do not have such an agreement with China. This includes, among others, US, Germany or the Netherlands.

    Interestingly, however, recently the Chinese court in Wuhan enforced the US court judgement rendered by the Los Angeles Superior Court of California in the Liu Li v Tao Li and Tong Wu case.  It did so despite the fact that there is no agreement between China and US providing for mutual recognition and enforcement of such judgements. The court in Wuhan found, however, that the reciprocity in recognizing and enforcing the court judgments between China and US was established because of an earlier decision of the US District Court of the Central District of California recognizing and enforcing the Chinese judgement rendered by the Higher People’s Court of Hubei in the Hubei Gezhouba Sanlian Industrial Co., Ltd et. al. v Robinson Helicopter Co., Inc. case.

    Interestingly, similar course of action was taken earlier in 2016 when the Chinese Nanjing Intermediate People’s Court enforced the Singaporean judgement relying on the reciprocity principle in the Kolma v SUTEX Group case.

    How much does it tell us?

    Should we now feel safe when opting for own courts in the dispute resolution clauses in the China-related deals? – despite the fact there are no relevant agreements between China and our country? The recent moves of the Chinese courts are, indeed, interesting developments changing the dispute resolution landscape in a desirable direction and increasing the chances for enforcing the foreign commercial court judgements. Yet, as of today, one should not see them as the universal door-openers for the foreign court judgements in similar situations. Accordingly, rather careful approach is recommended and the other dispute resolution methods securing the safer way of enforcement, like arbitration, should be kept in mind. The further changes remain to be seen.

    The author of this post is Monika Prusinowska.

    If your business is related to France or you wish to develop your business in this direction, you need to be aware of one very specific provision with regards to the termination of a business relationship.

    Article L. 442-6, I, 5° of the French Commercial Code protects a party to a contract who considers that the other party has terminated the existing business relationship in a sudden and abrupt way, thus causing her a damage.

    This is a ‘public policy’ provision and therefore any contractual provision to the contrary will be unenforceable.

    Initially, the lawmaker aimed to protect any business relationship between suppliers and major large-scale retailers delisting (ie, removing a supplier’s products that were referenced by a distributor) at the moment of contracts renegotiations or renewals.

    Eventually, the article has been drafted in order to extend its scope to any business relationship, regardless of the status of the professionals involved and the nature of the commercial relationship.

    The party who wishes to terminate the business relationship does not need to provide any justification for her actions but must send a sufficient prior notice to the other party.

    The purpose is to allow the parties, and in particular the abandoned party, to anticipate the discharge of the contract, in particular in cases of economic dependency.

    It is an accentuated obligation of loyalty.

    There are only two cases strictly interpreted by case law in which the partner is exempted from sending a prior notice:

    • an aggravated breach of a contractual obligation;
    • a frustration or a force majeure.

    There are two main requirements to be fulfilled in order to be able to invoke this provision in front of a judge – an established business relationship and an abrupt termination.

    The judge will assess whether the requirements have been fulfilled on a case by case basis.

    What does the term ‘established business relationship’ mean?

    The most important criterion is the duration, whether a written contract exists or not.

    A relationship may be considered as long-term whether there is a single contract or a few consecutive contracts.

    If there is no contract in place, the judge will take into account the following criteria:

    • the existence of a long-term established business relationship;
    • the good faith of the parties;
    • the frequency of the transactions and the importance and evolving of the turnover;
    • any agreement on the prices applied and/or the discounts granted to the other party;
    • any correspondence exchanged between the parties.

    What does the term ‘abrupt termination’ mean?

    The Courts consider the application of Article L442-6-I 5° if the termination is “unforeseeable, sudden and harsh”.

    The termination must comply with the following three conditions in order to be considered as abrupt:

    • with no prior notice or with insufficient prior notice;
    • sudden;
    • unpredictable.

    To consider whether a prior notice is sufficient, a judge may consider the following criteria:

    • the investments made by the victim of the termination;
    • the business involved (eg seasonal fashion collections);
    • a constant increase in turnover;
    • the market recognition of the products sold by the victim and the difficulty of finding replacement products;
    • the existence of a post-contractual non-compete undertaking ;
    • the existence of exclusivity between the parties;
    • the time period required for the victim to find other openings or refocus the business activity;
    • the existence of any economic dependency for the victim.

    The courts have decided that a partial termination may also be considered as abrupt in the following cases:

    • an organisational change in the distribution structure of the supplier;
    • a substantial decrease in trade flows;
    • a change in pricing terms or an increase in prices without any prior notice sent by a supplier granting special prices to the buyers, or in general any unilateral and substantial change in the contract terms.

    Whatever the justification for the termination, it is necessary to send a registered letter with an acknowledgment of receipt and ensure that the prior notice is sent sufficienlty in advance (some businesses have specific time periods applicable to them by law).

    Compensation for a damage

    The French Commercial Code provides for the award of damages in order to compensate a party for an abrupt termination of a business relationship.

    The damages are calculated by multiplying the notice period which should have been applied by the average profit achieved prior to the termination. Such profit is evaluated based on the pre-tax gross margin that would have been achieved during the required notice period, had sufficient notice been given.

    The courts may also award damages for incidental and consequential losses such as redundancy costs, losses of scheduled stocks, operational costs, certain unamortised investments and restructuring costs, indemnities paid to third parties or even image or reputational damage.

    International law

    The French supreme court competent in civil law (‘Cour de cassation’) considers that in cases where the decision to terminate the business relationship and the resulting damage take place in two different countries, it is a matter of torts and the applicable law will be the one of the country where the triggering event the most closely connected with the tort took place. Therefore the abrupt termination will be subject to French law if the business of the supplier is located in France.

    However, the Court of Justice of the European Union (CJEU) has issued a preliminary ruling dated 14 July 2016 answering two questions submitted by the Paris Court of Appeal in a judgment dated 17 April 2015. A French company had been distributing in France the food products of an Italian company for the last 25 years, with no framework agreement or any exclusivity provision in place. The Italian company had terminated the business relationship with no prior notice. The French company issued proceedings against the Italian company in front of the French courts and invoked the abrupt termination of an established business relationship.

    The Italian company opposed both the jurisdiction of the French courts and the legal ground for the action arguing that the Italian courts had jurisdiction as the action involved contract law and was therefore subject to the laws of the country where the commodities had been or should have been delivered, in this case Incoterm Ex-works departing from the plant in Italy.

    The CJEU has considered that in case of a tacit contractual relationship and pursuant to European law, the liability will be based on contract law (in the same case, pursuant to French law, the liability will be based on torts). As a consequence, Article 5, 3° of the Regulation (EC) 44/2001, also known as Brussels I (which has been replaced by Regulation (EC) 1215/2012, also known as Brussels I bis) will not apply. Therefore, the competent judge will not be the one of the country where the damage occurred but the one of the country where the contractual obligation was being performed.

    In addition and answering the second question submitted to it, the CJEU has considered that the contract is:

    • a contract for the sale of goods if its purpose is the delivery of goods, in which case the competent jurisdiction will be the one of the country where the goods have been or should have been delivered; and
    • a contract for services if its purpose is the provision of services, in which case the competent jurisdiction will be the one of the country where the services have been or should have been provided.

    In this case, the Paris Court of Appeal will have to recharacherise the contractual relationship either as consecutive contracts for the sale of goods and deduct the jurisdiction of the Italian courts, or as a contract for services implying the participation of the distributor in the development and the distribution of the supplier’s goods and business strategy and deduct the jurisdiction of the French courts.

    In summary, in case of an intra-Community dispute, the distributor who is the victim of an abrupt termination of an established business relationship cannot issue proceedings based on torts in front of a court in the country where the damage occurred if there is a tacit contractual relationship with the supplier. In order to determine the competent jurisdiction in such case, it is necessary to determine whether such tacit contractual relationship consists of a supply of goods or a provision of services.

    The next judgment of the Paris Court of Appeal and those of the Cour de cassation to come need to be followed very closely.

    Roberto Luzi Crivellini

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