La distribuzione attraverso le piattaforme digitali | Principali novità

29 Marzo 2023

  • Europa
  • Distribuzione

Sintesi

il 1° giugno 2022, il Regolamento UE n. 720/2022, ovvero il nuovo Regolamento di esenzione per categoria relativo agli accordi verticali (anche “Vertical Block Exemption Regulation”, di seguito: “VBER”), ha sostituito la precedente versione (Regolamento UE n. 330/2010), scaduta il 31 maggio 2022.

Il nuovo VBER e le nuove linee guida verticali (di seguito: “Linee guida”) hanno recepito le principali osservazioni raccolte durante la vigenza del precedente VBER e contengono alcune disposizioni rilevanti per la disciplina di tutti gli accordi B2B tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura.

In questo articolo ci concentreremo sull’impatto del nuovo VBER sulle vendite tramite le piattaforme digitali, elencando le principali novità che impattano sulle catene distributive, tra cui anche le piattaforme per la commercializzazione di prodotti/servizi.

La disciplina generale degli accordi verticali

L’articolo 101(1) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”) vieta tutti gli accordi che impediscono, restringono o falsano la concorrenza all’interno del mercato dell’UE, e ne elenca anche le principali tipologie, tra cui la fissazione dei prezzi, la compartimentazione dei mercati, le limitazioni alla produzione/sviluppo/investimenti, le clausole abusive, ecc.

Tuttavia, l’articolo 101(3) del TFUE esenta da tali restrizioni gli accordi che contribuiscono a migliorare il mercato dell’UE, i quali dovranno essere individuati in un apposito regolamento di categoria. Il VBER è il regolamento che definisce la categoria degli accordi verticali (cioè gli accordi tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura), determinando quali di questi accordi sono esenti dal divieto di cui all’articolo 101(1) del TFUE.

In breve, si presume che gli accordi verticali siano esenti (e quindi validi) se non contengono le cosiddette “restrizioni fondamentali” (cioè gravi restrizioni della concorrenza, come il divieto assoluto di vendita in un territorio o la determinazione da parte del produttore del prezzo di rivendita del distributore) e se la quota di mercato di nessuna delle parti supera il 30%.

Gli accordi esenti beneficiano di quello che è stato definito il “safe harbour” (porto sicuro) del VBER. Gli altri, invece, saranno soggetti al divieto generale di cui all’articolo 101(1) del TFUE, a meno che non possano beneficiare di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101(3) del TFUE.

Le novità introdotte dal nuovo VBER per le piattaforme online

Il primo aspetto rilevante riguarda la classificazione delle piattaforme, in quanto la Commissione europea ha escluso che le piattaforme online generalmente operino come agenti di commercio.

Mentre non ci sono mai stati dubbi riguardo alle piattaforme che operano acquistando e rivendendo prodotti (esempio classico: Amazon Retail), ne erano sorti diversi riguardo a quelle piattaforme che si limitano a promuovere i prodotti di terzi, senza svolgere l’attività di acquisto e rivendita (esempio classico: Amazon Marketplace).

Con l’introduzione della nuova versione del VBER, la Commissione europea ha voluto sgombrare il campo da qualunque dubbio, esplicitando che i fornitori di servizi di intermediazione (come le piattaforme online) si qualificano come fornitori (e non come agenti commerciali) ai sensi del VBER. Ciò riflette l’approccio del Regolamento (UE) 2019/1150 (“Regolamento P2B”), che per la prima volta ha dettato una disciplina specifica per le piattaforme digitali. Il regolamento prevede una serie di regole per creare un “ambiente equo, trasparente e prevedibile per le imprese e i clienti più piccoli” e secondo la ratio del Digital Markets Act, che vieta alcune pratiche utilizzate dalle grandi piattaforme che agiscono come “gatekeeper”.

Di conseguenza, tutti i contratti conclusi tra produttori e piattaforme (definite come “fornitori di servizi di intermediazione online”) sono soggetti a tutte le restrizioni imposte dal VBER, come quelle inerenti alla determinazione del prezzo, dei territori in cui o i clienti ai quali possono essere venduti i beni o i servizi intermediati, o ancora le restrizioni relative alla pubblicità e alla vendita online.

Così, per fare un esempio, l’operatore di una piattaforma non può imporre al produttore un prezzo di vendita fisso o minimo per una transazione promossa attraverso la piattaforma stessa.

Il secondo aspetto di maggiore impatto riguarda le piattaforme ibride, ossia le piattaforme che operano anche nel mercato rilevante per la vendita di beni o servizi intermediati. Amazon è l’esempio più noto, in quanto è al contempo un fornitore di servizi di intermediazione (“Amazon Marketplace”) e, allo stesso tempo, distribuisce i prodotti di queste parti (“Amazon Retail”). Abbiamo già approfondito la distinzione tra questi due modelli di business (e le conseguenze in termini di violazione della proprietà intellettuale) qui.

Il nuovo VBER esplicitamente non si applica alle piattaforme ibride. Pertanto, gli accordi conclusi tra tali piattaforme e i produttori sono soggetti alle limitazioni del TFUE, in quanto tali fornitori possono avere un incentivo a favorire le proprie vendite, nonché la capacità di influenzare l’esito della concorrenza tra le imprese che utilizzano i loro servizi di intermediazione online.

Tali accordi devono essere valutati singolarmente ai sensi dell’articolo 101 del TFUE, in quanto non limitano necessariamente la concorrenza ai sensi del TFUE, oppure possono soddisfare le condizioni di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

Il terzo aspetto più rilevante riguarda gli obblighi di parità (detti anche clausole della nazione più favorita o “most favoured nation”, MFN), ossia le disposizioni contrattuali tramite cui un venditore (direttamente o anche indirettamente) si impegna a offrire all’acquirente le migliori condizioni tra quelle che mette a disposizione di qualsiasi altro acquirente. La previsione è di particolare rilievo perché i termini contrattuali delle piattaforme contengono spesso clausole di obbligo di parità, al fine di impedire agli utenti di offrire i loro prodotti/servizi a prezzi inferiori o a condizioni migliori sui loro siti web o su altre piattaforme.

Il nuovo VBER si occupa esplicitamente delle clausole di parità, distinguendo tra clausole il cui scopo è quello di vietare agli utenti di una piattaforma di vendere beni o servizi a condizioni più favorevoli attraverso piattaforme concorrenti (le cosiddette “clausole di parità ampia“), e clausole che vietano le vendite a condizioni più favorevoli solo per quanto riguarda i canali gestiti direttamente dagli utenti (le cosiddette “clausole di parità stretta“).

Le clausole di parità ampia non beneficiano dell’esenzione VBER; pertanto, tali obblighi devono essere valutati individualmente ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

D’altro canto, le clausole di parità stretta continuano a beneficiare dell’esenzione già concessa dal vecchio VBER se non superano la soglia del 30% della quota di mercato rilevante stabilita dall’articolo 3 del nuovo VBER. Tuttavia, le nuove linee guida mettono in guardia rispetto all’utilizzo di obblighi di parità eccessivamente ristretti da parte di piattaforme online che coprono una quota significativa di utenti, affermando che se non vi sono prove di effetti pro-concorrenziali, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato.

Impatto e conseguenze

Il nuovo VBER è entrato in vigore il 1° giugno 2022 ed è già applicabile agli accordi firmati dopo tale data. Gli accordi già in vigore al 31 maggio 2022 che soddisfano le condizioni per l’esenzione ai sensi dell’attuale VBER ma non soddisfano i requisiti del nuovo VBER beneficeranno di un periodo di transizione di un anno.

Il nuovo regime sarà il campo di gioco per tutte le vendite su piattaforma nei prossimi 12 anni (il regolamento scade il 31 maggio 2034). Ad oggi, le novità piuttosto restrittive sulle piattaforme ibride e gli obblighi di parità renderanno probabilmente necessarie revisioni sostanziali degli accordi commerciali esistenti.

Ecco, quindi, alcuni consigli per gestire i contratti e i rapporti con le piattaforme online:

  • il nuovo VBER è l’occasione giusta per rivedere le reti di distribuzione esistenti. La revisione dovrà considerare non solo i nuovi limiti normativi (ad esempio, il divieto di clausole di parità ampia), ma anche la nuova disciplina riservata alle piattaforme ibride e alla distribuzione duale, al fine di coordinare i diversi canali distributivi nel modo più efficiente possibile, secondo i paletti fissati dal nuovo VBER e dalle Linee Guida;
  • è probabile che le piattaforme giochino un ruolo ancora più importante nel prossimo decennio; è quindi essenziale considerare questi canali di vendita fin dall’inizio, coordinandoli con gli altri già esistenti (vendita al dettaglio, vendita diretta, distributori, ecc.) per evitare di compromettere la commercializzazione di prodotti o servizi;
  • l’attenzione del legislatore europeo verso le piattaforme sta crescendo. Osservando la disciplina a partire dal VBER, non bisognerebbe dimenticare che le piattaforme sono soggette a una moltitudine di altri regolamenti europei, che stanno gradualmente disciplinando il settore e che devono essere presi in considerazione quando si stipulano contratti con le piattaforme stesse. Il riferimento non è solo al recente Digital Market Act e al Regolamento P2B, ma anche alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale sulle piattaforme, che – come abbiamo già visto – è una questione tuttora aperta.

Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

Summary: Since 12 July 2020, new rules apply for platform service providers and search engine operators – irrespective of whether they are established in the EU or not. The transition period has run out. This article provides checklists for platform service providers and search engine operators on how to adapt their services to the Regulation (EU) 2019/1150 on the promotion of fairness and transparency for commercial users of online intermediation services – the P2B Regulation.


The P2B Regulation applies to platform service providers and search engine operators, wherever established, provided only two conditions are met:

(i) the commercial users (for online intermediation services) or the users with a company website (for online search engines) are established in the EU; and

(ii) the users offer their goods/services to consumers located in the EU for at least part of the transaction.

Accordingly, there is a need for adaption for:

  • Online intermediation services, e.g. online marketplaces, app stores, hotel and other travel booking portals, social media, and
  • Online search engines.

The P2B Regulation applies to platforms in the P2B2C business in the following constellation (i.e. pure B2B platforms are exempt):

Provider -> Business -> Consumer

The article follows up on the introduction to the P2B Regulation here and the detailed analysis of mediation as method of dispute resolution here.

 Checklist how to adapt the general terms and conditions of platform services

Online intermediation services must adapt their general terms and conditions – defined as (i) conditions / provisions that regulate the contractual relationship between the provider of online intermediation services and their business users and (ii) are unilaterally determined by the provider of online intermediation services.

The checklist shows the new main requirements to be observed in the general terms and conditions (“GTC”):

  1. Draft them in plain and intelligible language (Article 3.1 a)
  2. Make them easily available at any time (also before conclusion of contract) (Article 3.1 b)
  3. Inform on reasons for suspension / termination (Article 3.1 c)
  4. Inform on additional sales channels or partner programs (Article 3.1 d)
  5. Inform on the effects of the GTC on the IP rights of users (Article 3.1 e)
  6. Inform on (any!) changes to the GTC on a durable medium, user has the right of termination (Article 3.2)
  7. Inform on main parameters and relative importance in the ranking (incl. possible influence of remuneration), without algorithms or business secrets (Article 5.1, 5.3, 5.5)
  8. Inform on the type of any ancillary goods/services offered and any entitlement/condition that users offer their own goods/services (Article 6)
  9. Inform on possible differentiated treatment of goods / services of the provider or individual users towards other users (Article 7.1, 7.2, 7.3)
  10. No retroactive changes to the GTC (Article 8a)
  11. Inform on conditions under which users can terminate contract (Article 8b)
  12. Inform on available or non-available technical and contractual access to information that the Service maintains after contract termination (Article 8c)
  13. Inform on technical and contractual access or lack thereof for users to any data made available or generated by them or by consumers during the use of services (Article 9)
  14. Inform on reasons for possible restrictions on users to offer their goods/services elsewhere under other conditions (“best price clause”); reasons must also be made easily available to the public (Article 10)
  15. Inform on access to the internal complaint-handling system (Article 11.3)
  16. Indicate at least two mediators for any out-of-court settlement of disputes (Article 12)

These requirements – apart from the clear, understandable language of the GTC, their availability and the fundamental ineffectiveness of retroactive adjustments to the GTC – clearly go beyond what e.g. the already strict German law on general terms and conditions requires.

Checklist how to adapt the design of platform services and search engines

In addition, online intermediation services and online search engines must adapt their design and, among other things, introduce internal complaint-handling. The checklist shows the main design requirements for:

a) Online intermediation services

  1. Make identity of commercial user clearly visible (Article 3.5)
  2. State reasons for suspension / limitation / termination of services (Article 4.1, 4.2)
  3. Explain possible differentiated treatment of goods / services of providers themselves or users in relation to other users (Article 7.1, 7.2, 7.3), see above
  4. Set an internal complaint handling system, with publicly available info, annual updates (Article 11, 4.3)

b) Online search engines

  1. Explain the ranking’s main parameters and their relative importance, public, easily available, always up to date (incl. possible influence of remuneration), without algorithms or trade secrets (Article 5.2, 5.3, 5.5)
  2. If ranking changes or delistings occur due to notification by third parties: offer to inspect such notification (Article 5.4)
  3. Explain possible differentiated treatment of goods / services of providers themselves or users in relation to other users (Article 7.1, 7.2, 7.3)

The European Commission will provide guidelines regarding the ranking rules in Article 5, as announced in the P2B Regulation – see the overview here. At the same time, providers of online intermediation services and online search engines shall draw up codes of conduct together with their users.

Practical Tips

  • The Regulation significantly affects contractual freedom as it obliges platform services to adapt their general terms and conditions.
  • The Regulation is to be enforced by “representative organisations” or associations and public bodies, with the EU Member States ensuring adequate and effective enforcement. The European Commission will monitor the impact of the Regulation in practice and evaluate it for the first time on 13.01.2022 (and every three years thereafter).
  • The P2B Regulation may affect distribution relationships, in particular platforms as distribution intermediaries. Under German distribution law, platforms and other Internet intermediation services acting as authorised distributors may be entitled to a goodwill indemnity at termination (details here) if they disclose their distribution channels on the basis of corresponding platform general terms and conditions, as the Regulation does not require, but at least allows to do (see also: Rohrßen, ZVertriebsR 2019, 341, 344–346). In addition, there are numerous overlaps with antitrust, competition and data protection law.

In these times of insecurity about the future, we have nevertheless some certitudes. One of them, no doubt about it, is that “online intermediation services are key enablers of entrepreneurship and new business models”. EU Regulation 2019/1150 on promoting fairness and transparency for business users of online intermediation services is dealing with it. This Regulation shall apply from 12 July 2020.

The purpose of this Regulation is laying down rules to ensure that business users of online intermediation services and corporate website users are granted appropriate transparency, fairness and effective redress possibilities (art. 1).  It applies to online intermediation services and online search engines provided to business users and corporate website users having their place of establishment UE and offering goods or services to consumers in the Union, irrespective of the place of establishment of the providers and the applicable law.

The rules shall apply, particularly, to online marketplaces, social media outlets, application distribution platforms, platforms for the collaborative economy and general search engines.

What I would like to underline in this post is that the Regulation foresees (art. 12) the use of mediation as a specific method of conflict resolution between online intermediation service providers and professional users. Mediation is promoted without prejudice to its voluntariness and the right to judicial claim.

In particular, the providers of the intermediation services shall identify in their general terms and conditions, two or more mediators with whom they are willing to engage to attempt to reach —in good faith— an agreement with business users on the settlement, out of court, of any disputes between the provider and the business user. Only service providers that are small companies would be exempted from assuming this obligation, without prejudice to being able to do so voluntarily.

The Regulation also contains the requirements these mediators must meet: some general ones (independence, with affordable services, act without delay, easily accessible) and others more specific or that will need special qualification (ability to mediate in the language of the general conditions and who have sufficient knowledge of intra-company trade relations).

It is also interesting to notice that the service providers shall bear a reasonable proportion of the total costs of mediation in each individual case, according to the indications of the mediator and to some criteria such as relative merits of the claims of the parties, their conduct, as well as the size and their financial strength.

The conclusion seems clear: Mediation, as an alternative to court or arbitral dispute resolution, is increasing its space in the EU regulations. It is always a voluntary way to solve conflicts, and it is worth considering its effectiveness in all business areas. This Regulation is expressly considering it.

Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

Il ruolo di Amazon

La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

La decisione della Corte di Giustizia UE

Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

  • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
  • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
  • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

Conclusioni

Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

  • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
  • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
  • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
  • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

Consigli pratici

Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

  1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
  2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
  3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
  4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
  5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

Dal 1° agosto 2021 non sarà più necessario, per la costituzione di una SRL – società a responsabilità limitata, recarsi dal notaio: la procedura potrà anche essere realizzata completamente on line, salvo casi eccezionali. Ciò è previsto dalla Direttiva U.E. 2019/1151, che impone agli stati di adeguarsi entro due anni. Vediamo cosa prevede la Direttiva.

Come si costituisce una S.r.l. in Italia oggi

In Italia, per costituire una società e, in particolare, una società a responsabilità limitata, è sempre necessario rivolgersi ad un notaio.

Ciò vale anche per la c.d. «SRL semplificata», introdotta nel 2012 dal Decreto Legge «Liberalizzazioni». In questo caso, infatti, la legge prevede che, a fronte dell’utilizzo di uno statuto standard non modificabile, non vi siano oneri notarili da sostenere. Tuttavia, resta sempre necessario comparire avanti ad un notaio.

Cosa cambierà da agosto 2021 con il recepimento della Direttiva U.E. 2019/1151

Le cose dovranno cambiare con l’entrata in vigore della Direttiva U.E. 2019/1151, che modifica la Direttiva U.E. 2017/1132 in tema di uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario.

Entro il 1° agosto 2021, gli Stati membri dovranno aggiornare le procedure per la costituzione di una società in modo da garantire un doppio binario.

Dovrà, cioè, essere possibile costituire una società sia con il metodo tradizionale, ossia rivolgendosi ad un notaio, oppure con procedure esclusivamente on line.

Due eccezioni

  • l’art. 13-ter, par. 4, dispone che «ove sia giustificato da motivi di interesse pubblico per impedire l’usurpazione o l’alterazione di identità, gli Stati membri possono adottare misure che potrebbero richiedere la presenza fisica ai fini della verifica dell’identità del richiedente dinanzi a un’autorità o a qualsiasi persona od organismo incaricati… Gli Stati membri provvedono affinché la presenza fisica del richiedente possa essere richiesta solo se vi sono motivi di sospettare una falsificazione dell’identità e garantiscono che qualsiasi altra fase della procedura possa essere completata online»;
  • l’art. 13-octies, co. 8, dispone che «ove giustificato da motivi di interesse pubblici a garantire il rispetto delle norme sulla capacità giuridica e sull’autorità dei richiedenti di rappresentare una società, qualsiasi autorità o qualsiasi persona od organismo incaricato… può chiedere la presenza fisica del richiedente… Gli Stati membri garantiscono che tutte le altre fasi della procedura possano essere comunque completate on line».

Gli Stati membri dovranno mettere a disposizione i modelli necessari per la costituzione delle società a responsabilità limitata «in almeno una lingua ufficiale dell’Unione ampiamente compresa dal maggior numero possibile di utenti transfrontalieri».

Rischi

La direttiva rappresenta, indubbiamente, un interessante tentativo di semplificazione, il cui successo dipenderà, tuttavia, da come verrà recepita dai singoli Stati membri.

I rischi principali sono almeno due:

  1. il primo, facilmente intuibile, è che gli Stati membri rendano troppo oneroso l’accertamento dell’identità od il potere rappresentativo dei richiedenti, rendendo più semplice, in definitiva, il tradizionale ricorso ad un notaio;
  2. il secondo è che le procedure on line siano poco chiare o comprensibili, specie agli utenti stranieri. In tal senso, non appare sufficiente che i modelli siano resi disponibili, ma sarà necessario che le procedure online siano orientate alla maggiore semplificazione possibile e che i modelli siano tutti disponibili almeno in lingua inglese.

Infine, è evidente che la digitalizzazione del procedimento di costituzione di una società non elimina l’opportunità di rivolgersi ad un professionista con il compito di consigliare il cliente nelle scelte che sarà necessario fare, ad esempio in materia di corporate governance.

The concept of privacy by design has been around for a few decades. Although it has been referred to in studies since the 1970s and present in legislation since as far as the early 1990s, it was consolidated only in 2009 with the work of Ann Cavoukian, the Information & Privacy Commissioner of Ontario, Canada

 

This author defined the seven foundational principles of privacy by design: (i) to be proactive not reactive, preventative not remedial; (ii) privacy as the default setting; (iii) privacy embedded into design; (iv) full functionality – positive-sum, not zero-sum; (v) end-to-end security – full lifecycle protection; (vi) visibility and transparency – keep it open; and (vii) respect for user privacy – keep it user-centric.

 

After being adopted as a privacy standard by the International Data Protection and Privacy Commissioners in 2010, privacy by design was also included in the General Data Protection Regulation (GDPR – Regulation (EU) 2016/679 of the European Parliament and of the Council, of 27 April 2016). However, in the GDPR (article 25) it no longer remains as a mere principle. Instead, it has become a mandatory legal obligation and failure to comply can lead to severe administrative fines (article 83/4/a).

 

Regarding privacy by design, the GDPR establishes that the data controller shall implement the appropriate technical and organisational measures designed to implement data protection principles in an effective manner and to integrate the necessary safeguards into the processing. The appropriate technical and organisational measures are to be determined taking into account (i) the nature, scope, context and purpose of processing, (ii) the risks for rights and freedoms, (iii) the state of the art, and (iv) the cost of implementation.

 

Regarding privacy by default, the GDPR establishes that the controller shall implement the appropriate technical and organisational measures to ensure that, by default, (i) only the necessary data is processed, (ii) only to the necessary extent of processing, (iii) is only accessible by the necessary individuals, and (iv) is only stored by the necessary period of time.

 

Both privacy by design and privacy by default are established around the idea of the implementation of the appropriate technical and organisational measures to safeguard the personal data protection principles and rules. The GDPR provides some examples of these measures (such as pseudonymisation, encryption, anonymisation), but it is not a catalogue for these measures or other privacy enhancing technologies (PET) and the provided examples should not be seen as mandatory measures.

 

Clear guidance on privacy by design and by default is not to be found in the GDPR and it is a work in progress by all the community and parties involved. But the GDPR has the clear intention of impacting the core of the digital age system, reshaping its values regarding privacy.

 

The success of this ambition is uncertain, but some important challenges are already very clear, such as the role of the producers of products, services and applications, the integration of data protection principles in the design of User Experience (UX) and User Interface (UI) and also in the software development planning (agile and scrum, for instance).

 

In the meantime, examples of the real impact of privacy by design and by default are coming to light. In 2018, Valve changed the privacy settings of the users of the gaming platform Steam, making games owned private by default. As a direct consequence, the analytics activity provided by SteamSpy and other similar companies was severely damaged.

 

Privacy by design certainly is, for those closely involved in the design process of products, services and applications, one of the most interesting and challenging topics in personal data protection.

Con la recentissima pronuncia del 2 maggio 2019 (causa C-614/17), la Corte di Giustizia UE ha stabilito che la normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari deve essere interpretata nel senso che «l’utilizzo di segni figurativi che evocano l’area geografica alla quale è collegata una denominazione d’origine […] può costituire un’evocazione [vietata dalla normativa europea, n.d.r.] della medesima anche nel caso in cui i suddetti segni figurativi siano utilizzati da un produttore stabilito in tale regione, ma i cui prodotti, simili o comparabili a quelli protetti da tale denominazione d’origine, non sono protetti da quest’ultima».

Questa sentenza, che prende spunto dal curioso caso dei formaggi de La Mancha, rappresenta una pietra miliare per la tutela delle eccellenze enogastronomiche nazionali, con importanti risvolti sui prodotti «Made in Italy».

Il caso

Il caso trae origine dalla commercializzazione, da parte dell’Industrial Quesera Cuquerella SL [«IQC»], di alcuni formaggi attraverso l’utilizzo di etichette evocative del noto personaggio di Miguel de Cervantes, ossia Don Chisciotte de La Mancha.

Nella sostanza, si trattava di etichette contenenti raffigurazioni tradizionali di Don Chisciotte, di un cavallo magro evocativo del cavallo «Ronzinante» e di paesaggi con mulini a vento, per commercializzare i formaggi «Super Rocinante», «Rocinante» e «Adarga de Oro» [il termine «adarga» rappresenta un arcaismo spagnolo, utilizzato da Miguel de Cervantes per indicare lo scudo di Don Chisciotte, n.d.r.], non compresi, però, all’interno del DOP «queso manchego» [formaggio de La Mancha, in spagnolo, n.d.r.].

Per tale ragione, la Fondazione Queso Manchego [«FQM»], incaricata della gestione e della protezione della DOP «queso manchego», si rivolgeva al giudice spagnolo, affinché dichiarasse che tale utilizzo, riguardando formaggi non compresi nella DOP, rappresentava una violazione della normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari di cui al Regolamento U.E. 510/2016.

La decisione dei giudici spagnoli ed il rinvio del Tribunal Supremo

Tanto in primo che poi in secondo grado, i giudici spagnoli rigettavano la richiesta della FQM, ritenendo che l’utilizzo di immagini evocative de La Mancha per commercializzare formaggi non protetti dalla DOP «queso manchego», fosse in grado di indurre il consumatore a pensare, appunto, alla regione spagnola, ma non necessariamente alla DOP «queso manchego».

FQM si rivolgeva, quindi, al Tribunal Supremo spagnolo, che rinviava la questione alla Corte di Giustizia UE, ritenendo necessario, per risolvere il caso concreto, sapere come debba essere interpretata la normativa europea ed osservando che:

  • il termine «manchego» in spagnolo qualifica ciò che è originario de La Mancha e che la DOP «queso manchego» protegge i formaggi di pecora provenienti da tale regione e prodotti rispettando quanto previsto nel relativo disciplinare;
  • i nomi e le immagini utilizzate da IQC per commercializzare i propri formaggi, non protetti dalla DOP «queso manchego», richiamano Don Chisciotte e La Mancha, a cui tale personaggio è tradizionalmente associato.

La decisione della Corte di Giustizia UE

Con la sentenza del 02 maggio 2019, la Corte di Giustizia UE risponde ai quesiti posti dal Tribunal Supremo spagnolo.

  1. I segni figurativi sono in grado di ingenerare confusione nel consumatore?

Il Tribunal Supremo spagnolo chiede alla Corte UE di chiarire se l’uso di segni figurativi per evocare una DOP è in grado di per sé di ingenerare confusione nel consumatore.

La Corte, tenendo conto della volontà del legislatore UE di dare ampia protezione alle DOP, ha dato una risposta affermativa alla domanda del Tribunal Supremo, asserendo che «non si può escludere che segni figurativi siano in grado di richiamare direttamente nella mente del consumatore, come immagine di riferimento, i prodotti che beneficiano di una denominazione registrata, a motivo della loro vicinanza concettuale con siffatta denominazione».

  1. Ciò vale anche nel caso di prodotti simili non protetti, ma provenienti da un’area DOP?

In secondo luogo, il Tribunal Supremo chiede alla Corte UE se la tutela garantita dalla DOP vale anche nei confronti dei produttori localizzati nella stessa regione geografica, ma i cui prodotti non sono prodotti DOP.

Secondo la Corte UE, la normativa europea «non prevede alcuna deroga in favore di un produttore stabilito in un’area geografica corrispondente alla DOP e i cui prodotti, senza essere protetti da tale DOP, sono simili o comparabili a quelli protetti da quest’ultima». Pertanto anche a questa domanda va data una risposta affermativa.

Il motivo è molto semplice: se si introducesse una deroga in favore di prodotti simili non protetti, ma provenienti dalla stessa area DOP (in questo caso ci si riferisce a tutti gli altri formaggi prodotti nella regione geografica de La Mancha, ma non rientranti nella DOP «queso manchego»), si consentirebbe ad alcuni produttori di trarre «un vantaggio indebito dalla notorietà di tale denominazione».

  1. A quale nozione di consumatore bisogna fare riferimento?

Sempre secondo la Corte di Giustizia UE, spetta al giudice nazionale la relativa valutazione, avendo riguardo alla «presunta reazione del consumatore, essendo essenziale che il consumatore effettui un collegamento tra gli elementi controversi», ossia i «segni figurativi che evocano l’area geografica il cui nome fa parte di una denominazione d’origine […] e la denominazione registrata».

La nozione di «consumatore» a cui bisogna fare riferimento per valutare se l’utilizzo di immagini richiamati una DOP può ingenerare confusione sul mercato, è quella di «consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto», tenendo presente, tuttavia, che lo scopo della normativa europea è quella di «garantire una protezione effettiva e uniforme delle denominazioni registrate contro qualsiasi evocazione nel territorio dell’Unione».

Di conseguenza, conclude la Corte di Giustizia UE:

  • la valutazione con riferimento al consumatore dello Stato membro potrebbe già da sola sufficiente a far scattare la tutela predisposta;
  • tuttavia, il fatto che si possa escludere l’evocazione per il consumatore di uno Stato membro, non è di per sé sufficiente a escludere che l’utilizzo delle immagini possa ingenerare confusione nei consumatori.

La tutela del «Made in Italy»

La sentenza della Corte di Giustizia UE rappresenta un precedente importantissimo per il c.d. «Made in Italy», perché concede ai consorzi italiani di agire contro i produttori che – attraverso l’utilizzo di immagini evocative – cercano di ingenerare nel consumatore la convinzione che loro i prodotti siano di origine protetta.

I falsi prodotti DOP non rappresentano soltanto una forma di concorrenza sleale, attribuendo un «vantaggio indebito» derivante dalla notorietà di una denominazione, ma sono in grado di determinare un danno di immagine gravissimo ai produttori italiani, conosciuti in tutto il mondo per la loro eccellenza, e che nel 2017 hanno contribuito a creare un giro d’affari legato al turismo enogastronomico pari a più di 12 miliardi di euro.

Una questione che, in fin dei conti, non interessa, quindi, soltanto i produttori.

Giuliano Stasio

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    The Protection of Community Design in the European Union

    17 Settembre 2020

    • Europa
    • Proprietà industriale e intellettuale
    • Contenzioso

    Sintesi

    il 1° giugno 2022, il Regolamento UE n. 720/2022, ovvero il nuovo Regolamento di esenzione per categoria relativo agli accordi verticali (anche “Vertical Block Exemption Regulation”, di seguito: “VBER”), ha sostituito la precedente versione (Regolamento UE n. 330/2010), scaduta il 31 maggio 2022.

    Il nuovo VBER e le nuove linee guida verticali (di seguito: “Linee guida”) hanno recepito le principali osservazioni raccolte durante la vigenza del precedente VBER e contengono alcune disposizioni rilevanti per la disciplina di tutti gli accordi B2B tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura.

    In questo articolo ci concentreremo sull’impatto del nuovo VBER sulle vendite tramite le piattaforme digitali, elencando le principali novità che impattano sulle catene distributive, tra cui anche le piattaforme per la commercializzazione di prodotti/servizi.

    La disciplina generale degli accordi verticali

    L’articolo 101(1) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”) vieta tutti gli accordi che impediscono, restringono o falsano la concorrenza all’interno del mercato dell’UE, e ne elenca anche le principali tipologie, tra cui la fissazione dei prezzi, la compartimentazione dei mercati, le limitazioni alla produzione/sviluppo/investimenti, le clausole abusive, ecc.

    Tuttavia, l’articolo 101(3) del TFUE esenta da tali restrizioni gli accordi che contribuiscono a migliorare il mercato dell’UE, i quali dovranno essere individuati in un apposito regolamento di categoria. Il VBER è il regolamento che definisce la categoria degli accordi verticali (cioè gli accordi tra imprese che operano a diversi livelli della catena di fornitura), determinando quali di questi accordi sono esenti dal divieto di cui all’articolo 101(1) del TFUE.

    In breve, si presume che gli accordi verticali siano esenti (e quindi validi) se non contengono le cosiddette “restrizioni fondamentali” (cioè gravi restrizioni della concorrenza, come il divieto assoluto di vendita in un territorio o la determinazione da parte del produttore del prezzo di rivendita del distributore) e se la quota di mercato di nessuna delle parti supera il 30%.

    Gli accordi esenti beneficiano di quello che è stato definito il “safe harbour” (porto sicuro) del VBER. Gli altri, invece, saranno soggetti al divieto generale di cui all’articolo 101(1) del TFUE, a meno che non possano beneficiare di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101(3) del TFUE.

    Le novità introdotte dal nuovo VBER per le piattaforme online

    Il primo aspetto rilevante riguarda la classificazione delle piattaforme, in quanto la Commissione europea ha escluso che le piattaforme online generalmente operino come agenti di commercio.

    Mentre non ci sono mai stati dubbi riguardo alle piattaforme che operano acquistando e rivendendo prodotti (esempio classico: Amazon Retail), ne erano sorti diversi riguardo a quelle piattaforme che si limitano a promuovere i prodotti di terzi, senza svolgere l’attività di acquisto e rivendita (esempio classico: Amazon Marketplace).

    Con l’introduzione della nuova versione del VBER, la Commissione europea ha voluto sgombrare il campo da qualunque dubbio, esplicitando che i fornitori di servizi di intermediazione (come le piattaforme online) si qualificano come fornitori (e non come agenti commerciali) ai sensi del VBER. Ciò riflette l’approccio del Regolamento (UE) 2019/1150 (“Regolamento P2B”), che per la prima volta ha dettato una disciplina specifica per le piattaforme digitali. Il regolamento prevede una serie di regole per creare un “ambiente equo, trasparente e prevedibile per le imprese e i clienti più piccoli” e secondo la ratio del Digital Markets Act, che vieta alcune pratiche utilizzate dalle grandi piattaforme che agiscono come “gatekeeper”.

    Di conseguenza, tutti i contratti conclusi tra produttori e piattaforme (definite come “fornitori di servizi di intermediazione online”) sono soggetti a tutte le restrizioni imposte dal VBER, come quelle inerenti alla determinazione del prezzo, dei territori in cui o i clienti ai quali possono essere venduti i beni o i servizi intermediati, o ancora le restrizioni relative alla pubblicità e alla vendita online.

    Così, per fare un esempio, l’operatore di una piattaforma non può imporre al produttore un prezzo di vendita fisso o minimo per una transazione promossa attraverso la piattaforma stessa.

    Il secondo aspetto di maggiore impatto riguarda le piattaforme ibride, ossia le piattaforme che operano anche nel mercato rilevante per la vendita di beni o servizi intermediati. Amazon è l’esempio più noto, in quanto è al contempo un fornitore di servizi di intermediazione (“Amazon Marketplace”) e, allo stesso tempo, distribuisce i prodotti di queste parti (“Amazon Retail”). Abbiamo già approfondito la distinzione tra questi due modelli di business (e le conseguenze in termini di violazione della proprietà intellettuale) qui.

    Il nuovo VBER esplicitamente non si applica alle piattaforme ibride. Pertanto, gli accordi conclusi tra tali piattaforme e i produttori sono soggetti alle limitazioni del TFUE, in quanto tali fornitori possono avere un incentivo a favorire le proprie vendite, nonché la capacità di influenzare l’esito della concorrenza tra le imprese che utilizzano i loro servizi di intermediazione online.

    Tali accordi devono essere valutati singolarmente ai sensi dell’articolo 101 del TFUE, in quanto non limitano necessariamente la concorrenza ai sensi del TFUE, oppure possono soddisfare le condizioni di un’esenzione individuale ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

    Il terzo aspetto più rilevante riguarda gli obblighi di parità (detti anche clausole della nazione più favorita o “most favoured nation”, MFN), ossia le disposizioni contrattuali tramite cui un venditore (direttamente o anche indirettamente) si impegna a offrire all’acquirente le migliori condizioni tra quelle che mette a disposizione di qualsiasi altro acquirente. La previsione è di particolare rilievo perché i termini contrattuali delle piattaforme contengono spesso clausole di obbligo di parità, al fine di impedire agli utenti di offrire i loro prodotti/servizi a prezzi inferiori o a condizioni migliori sui loro siti web o su altre piattaforme.

    Il nuovo VBER si occupa esplicitamente delle clausole di parità, distinguendo tra clausole il cui scopo è quello di vietare agli utenti di una piattaforma di vendere beni o servizi a condizioni più favorevoli attraverso piattaforme concorrenti (le cosiddette “clausole di parità ampia“), e clausole che vietano le vendite a condizioni più favorevoli solo per quanto riguarda i canali gestiti direttamente dagli utenti (le cosiddette “clausole di parità stretta“).

    Le clausole di parità ampia non beneficiano dell’esenzione VBER; pertanto, tali obblighi devono essere valutati individualmente ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE.

    D’altro canto, le clausole di parità stretta continuano a beneficiare dell’esenzione già concessa dal vecchio VBER se non superano la soglia del 30% della quota di mercato rilevante stabilita dall’articolo 3 del nuovo VBER. Tuttavia, le nuove linee guida mettono in guardia rispetto all’utilizzo di obblighi di parità eccessivamente ristretti da parte di piattaforme online che coprono una quota significativa di utenti, affermando che se non vi sono prove di effetti pro-concorrenziali, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato.

    Impatto e conseguenze

    Il nuovo VBER è entrato in vigore il 1° giugno 2022 ed è già applicabile agli accordi firmati dopo tale data. Gli accordi già in vigore al 31 maggio 2022 che soddisfano le condizioni per l’esenzione ai sensi dell’attuale VBER ma non soddisfano i requisiti del nuovo VBER beneficeranno di un periodo di transizione di un anno.

    Il nuovo regime sarà il campo di gioco per tutte le vendite su piattaforma nei prossimi 12 anni (il regolamento scade il 31 maggio 2034). Ad oggi, le novità piuttosto restrittive sulle piattaforme ibride e gli obblighi di parità renderanno probabilmente necessarie revisioni sostanziali degli accordi commerciali esistenti.

    Ecco, quindi, alcuni consigli per gestire i contratti e i rapporti con le piattaforme online:

    • il nuovo VBER è l’occasione giusta per rivedere le reti di distribuzione esistenti. La revisione dovrà considerare non solo i nuovi limiti normativi (ad esempio, il divieto di clausole di parità ampia), ma anche la nuova disciplina riservata alle piattaforme ibride e alla distribuzione duale, al fine di coordinare i diversi canali distributivi nel modo più efficiente possibile, secondo i paletti fissati dal nuovo VBER e dalle Linee Guida;
    • è probabile che le piattaforme giochino un ruolo ancora più importante nel prossimo decennio; è quindi essenziale considerare questi canali di vendita fin dall’inizio, coordinandoli con gli altri già esistenti (vendita al dettaglio, vendita diretta, distributori, ecc.) per evitare di compromettere la commercializzazione di prodotti o servizi;
    • l’attenzione del legislatore europeo verso le piattaforme sta crescendo. Osservando la disciplina a partire dal VBER, non bisognerebbe dimenticare che le piattaforme sono soggette a una moltitudine di altri regolamenti europei, che stanno gradualmente disciplinando il settore e che devono essere presi in considerazione quando si stipulano contratti con le piattaforme stesse. Il riferimento non è solo al recente Digital Market Act e al Regolamento P2B, ma anche alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale sulle piattaforme, che – come abbiamo già visto – è una questione tuttora aperta.

    Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


    Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

    Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

    In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

    The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

    The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

    First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

    The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

    The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

    Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

    Summary: Since 12 July 2020, new rules apply for platform service providers and search engine operators – irrespective of whether they are established in the EU or not. The transition period has run out. This article provides checklists for platform service providers and search engine operators on how to adapt their services to the Regulation (EU) 2019/1150 on the promotion of fairness and transparency for commercial users of online intermediation services – the P2B Regulation.


    The P2B Regulation applies to platform service providers and search engine operators, wherever established, provided only two conditions are met:

    (i) the commercial users (for online intermediation services) or the users with a company website (for online search engines) are established in the EU; and

    (ii) the users offer their goods/services to consumers located in the EU for at least part of the transaction.

    Accordingly, there is a need for adaption for:

    • Online intermediation services, e.g. online marketplaces, app stores, hotel and other travel booking portals, social media, and
    • Online search engines.

    The P2B Regulation applies to platforms in the P2B2C business in the following constellation (i.e. pure B2B platforms are exempt):

    Provider -> Business -> Consumer

    The article follows up on the introduction to the P2B Regulation here and the detailed analysis of mediation as method of dispute resolution here.

     Checklist how to adapt the general terms and conditions of platform services

    Online intermediation services must adapt their general terms and conditions – defined as (i) conditions / provisions that regulate the contractual relationship between the provider of online intermediation services and their business users and (ii) are unilaterally determined by the provider of online intermediation services.

    The checklist shows the new main requirements to be observed in the general terms and conditions (“GTC”):

    1. Draft them in plain and intelligible language (Article 3.1 a)
    2. Make them easily available at any time (also before conclusion of contract) (Article 3.1 b)
    3. Inform on reasons for suspension / termination (Article 3.1 c)
    4. Inform on additional sales channels or partner programs (Article 3.1 d)
    5. Inform on the effects of the GTC on the IP rights of users (Article 3.1 e)
    6. Inform on (any!) changes to the GTC on a durable medium, user has the right of termination (Article 3.2)
    7. Inform on main parameters and relative importance in the ranking (incl. possible influence of remuneration), without algorithms or business secrets (Article 5.1, 5.3, 5.5)
    8. Inform on the type of any ancillary goods/services offered and any entitlement/condition that users offer their own goods/services (Article 6)
    9. Inform on possible differentiated treatment of goods / services of the provider or individual users towards other users (Article 7.1, 7.2, 7.3)
    10. No retroactive changes to the GTC (Article 8a)
    11. Inform on conditions under which users can terminate contract (Article 8b)
    12. Inform on available or non-available technical and contractual access to information that the Service maintains after contract termination (Article 8c)
    13. Inform on technical and contractual access or lack thereof for users to any data made available or generated by them or by consumers during the use of services (Article 9)
    14. Inform on reasons for possible restrictions on users to offer their goods/services elsewhere under other conditions (“best price clause”); reasons must also be made easily available to the public (Article 10)
    15. Inform on access to the internal complaint-handling system (Article 11.3)
    16. Indicate at least two mediators for any out-of-court settlement of disputes (Article 12)

    These requirements – apart from the clear, understandable language of the GTC, their availability and the fundamental ineffectiveness of retroactive adjustments to the GTC – clearly go beyond what e.g. the already strict German law on general terms and conditions requires.

    Checklist how to adapt the design of platform services and search engines

    In addition, online intermediation services and online search engines must adapt their design and, among other things, introduce internal complaint-handling. The checklist shows the main design requirements for:

    a) Online intermediation services

    1. Make identity of commercial user clearly visible (Article 3.5)
    2. State reasons for suspension / limitation / termination of services (Article 4.1, 4.2)
    3. Explain possible differentiated treatment of goods / services of providers themselves or users in relation to other users (Article 7.1, 7.2, 7.3), see above
    4. Set an internal complaint handling system, with publicly available info, annual updates (Article 11, 4.3)

    b) Online search engines

    1. Explain the ranking’s main parameters and their relative importance, public, easily available, always up to date (incl. possible influence of remuneration), without algorithms or trade secrets (Article 5.2, 5.3, 5.5)
    2. If ranking changes or delistings occur due to notification by third parties: offer to inspect such notification (Article 5.4)
    3. Explain possible differentiated treatment of goods / services of providers themselves or users in relation to other users (Article 7.1, 7.2, 7.3)

    The European Commission will provide guidelines regarding the ranking rules in Article 5, as announced in the P2B Regulation – see the overview here. At the same time, providers of online intermediation services and online search engines shall draw up codes of conduct together with their users.

    Practical Tips

    • The Regulation significantly affects contractual freedom as it obliges platform services to adapt their general terms and conditions.
    • The Regulation is to be enforced by “representative organisations” or associations and public bodies, with the EU Member States ensuring adequate and effective enforcement. The European Commission will monitor the impact of the Regulation in practice and evaluate it for the first time on 13.01.2022 (and every three years thereafter).
    • The P2B Regulation may affect distribution relationships, in particular platforms as distribution intermediaries. Under German distribution law, platforms and other Internet intermediation services acting as authorised distributors may be entitled to a goodwill indemnity at termination (details here) if they disclose their distribution channels on the basis of corresponding platform general terms and conditions, as the Regulation does not require, but at least allows to do (see also: Rohrßen, ZVertriebsR 2019, 341, 344–346). In addition, there are numerous overlaps with antitrust, competition and data protection law.

    In these times of insecurity about the future, we have nevertheless some certitudes. One of them, no doubt about it, is that “online intermediation services are key enablers of entrepreneurship and new business models”. EU Regulation 2019/1150 on promoting fairness and transparency for business users of online intermediation services is dealing with it. This Regulation shall apply from 12 July 2020.

    The purpose of this Regulation is laying down rules to ensure that business users of online intermediation services and corporate website users are granted appropriate transparency, fairness and effective redress possibilities (art. 1).  It applies to online intermediation services and online search engines provided to business users and corporate website users having their place of establishment UE and offering goods or services to consumers in the Union, irrespective of the place of establishment of the providers and the applicable law.

    The rules shall apply, particularly, to online marketplaces, social media outlets, application distribution platforms, platforms for the collaborative economy and general search engines.

    What I would like to underline in this post is that the Regulation foresees (art. 12) the use of mediation as a specific method of conflict resolution between online intermediation service providers and professional users. Mediation is promoted without prejudice to its voluntariness and the right to judicial claim.

    In particular, the providers of the intermediation services shall identify in their general terms and conditions, two or more mediators with whom they are willing to engage to attempt to reach —in good faith— an agreement with business users on the settlement, out of court, of any disputes between the provider and the business user. Only service providers that are small companies would be exempted from assuming this obligation, without prejudice to being able to do so voluntarily.

    The Regulation also contains the requirements these mediators must meet: some general ones (independence, with affordable services, act without delay, easily accessible) and others more specific or that will need special qualification (ability to mediate in the language of the general conditions and who have sufficient knowledge of intra-company trade relations).

    It is also interesting to notice that the service providers shall bear a reasonable proportion of the total costs of mediation in each individual case, according to the indications of the mediator and to some criteria such as relative merits of the claims of the parties, their conduct, as well as the size and their financial strength.

    The conclusion seems clear: Mediation, as an alternative to court or arbitral dispute resolution, is increasing its space in the EU regulations. It is always a voluntary way to solve conflicts, and it is worth considering its effectiveness in all business areas. This Regulation is expressly considering it.

    Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


    Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

    Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

    Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

    Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

    Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

    Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

    Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

    Il ruolo di Amazon

    La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

    La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

    Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

    Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

    Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

    La decisione della Corte di Giustizia UE

    Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

    Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

    La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

    • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
    • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
    • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

    Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

    Conclusioni

    Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

    Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

    • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
    • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
    • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
    • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

    Consigli pratici

    Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

    1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
    2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
    3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
    4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
    5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

    Dal 1° agosto 2021 non sarà più necessario, per la costituzione di una SRL – società a responsabilità limitata, recarsi dal notaio: la procedura potrà anche essere realizzata completamente on line, salvo casi eccezionali. Ciò è previsto dalla Direttiva U.E. 2019/1151, che impone agli stati di adeguarsi entro due anni. Vediamo cosa prevede la Direttiva.

    Come si costituisce una S.r.l. in Italia oggi

    In Italia, per costituire una società e, in particolare, una società a responsabilità limitata, è sempre necessario rivolgersi ad un notaio.

    Ciò vale anche per la c.d. «SRL semplificata», introdotta nel 2012 dal Decreto Legge «Liberalizzazioni». In questo caso, infatti, la legge prevede che, a fronte dell’utilizzo di uno statuto standard non modificabile, non vi siano oneri notarili da sostenere. Tuttavia, resta sempre necessario comparire avanti ad un notaio.

    Cosa cambierà da agosto 2021 con il recepimento della Direttiva U.E. 2019/1151

    Le cose dovranno cambiare con l’entrata in vigore della Direttiva U.E. 2019/1151, che modifica la Direttiva U.E. 2017/1132 in tema di uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario.

    Entro il 1° agosto 2021, gli Stati membri dovranno aggiornare le procedure per la costituzione di una società in modo da garantire un doppio binario.

    Dovrà, cioè, essere possibile costituire una società sia con il metodo tradizionale, ossia rivolgendosi ad un notaio, oppure con procedure esclusivamente on line.

    Due eccezioni

    • l’art. 13-ter, par. 4, dispone che «ove sia giustificato da motivi di interesse pubblico per impedire l’usurpazione o l’alterazione di identità, gli Stati membri possono adottare misure che potrebbero richiedere la presenza fisica ai fini della verifica dell’identità del richiedente dinanzi a un’autorità o a qualsiasi persona od organismo incaricati… Gli Stati membri provvedono affinché la presenza fisica del richiedente possa essere richiesta solo se vi sono motivi di sospettare una falsificazione dell’identità e garantiscono che qualsiasi altra fase della procedura possa essere completata online»;
    • l’art. 13-octies, co. 8, dispone che «ove giustificato da motivi di interesse pubblici a garantire il rispetto delle norme sulla capacità giuridica e sull’autorità dei richiedenti di rappresentare una società, qualsiasi autorità o qualsiasi persona od organismo incaricato… può chiedere la presenza fisica del richiedente… Gli Stati membri garantiscono che tutte le altre fasi della procedura possano essere comunque completate on line».

    Gli Stati membri dovranno mettere a disposizione i modelli necessari per la costituzione delle società a responsabilità limitata «in almeno una lingua ufficiale dell’Unione ampiamente compresa dal maggior numero possibile di utenti transfrontalieri».

    Rischi

    La direttiva rappresenta, indubbiamente, un interessante tentativo di semplificazione, il cui successo dipenderà, tuttavia, da come verrà recepita dai singoli Stati membri.

    I rischi principali sono almeno due:

    1. il primo, facilmente intuibile, è che gli Stati membri rendano troppo oneroso l’accertamento dell’identità od il potere rappresentativo dei richiedenti, rendendo più semplice, in definitiva, il tradizionale ricorso ad un notaio;
    2. il secondo è che le procedure on line siano poco chiare o comprensibili, specie agli utenti stranieri. In tal senso, non appare sufficiente che i modelli siano resi disponibili, ma sarà necessario che le procedure online siano orientate alla maggiore semplificazione possibile e che i modelli siano tutti disponibili almeno in lingua inglese.

    Infine, è evidente che la digitalizzazione del procedimento di costituzione di una società non elimina l’opportunità di rivolgersi ad un professionista con il compito di consigliare il cliente nelle scelte che sarà necessario fare, ad esempio in materia di corporate governance.

    The concept of privacy by design has been around for a few decades. Although it has been referred to in studies since the 1970s and present in legislation since as far as the early 1990s, it was consolidated only in 2009 with the work of Ann Cavoukian, the Information & Privacy Commissioner of Ontario, Canada

     

    This author defined the seven foundational principles of privacy by design: (i) to be proactive not reactive, preventative not remedial; (ii) privacy as the default setting; (iii) privacy embedded into design; (iv) full functionality – positive-sum, not zero-sum; (v) end-to-end security – full lifecycle protection; (vi) visibility and transparency – keep it open; and (vii) respect for user privacy – keep it user-centric.

     

    After being adopted as a privacy standard by the International Data Protection and Privacy Commissioners in 2010, privacy by design was also included in the General Data Protection Regulation (GDPR – Regulation (EU) 2016/679 of the European Parliament and of the Council, of 27 April 2016). However, in the GDPR (article 25) it no longer remains as a mere principle. Instead, it has become a mandatory legal obligation and failure to comply can lead to severe administrative fines (article 83/4/a).

     

    Regarding privacy by design, the GDPR establishes that the data controller shall implement the appropriate technical and organisational measures designed to implement data protection principles in an effective manner and to integrate the necessary safeguards into the processing. The appropriate technical and organisational measures are to be determined taking into account (i) the nature, scope, context and purpose of processing, (ii) the risks for rights and freedoms, (iii) the state of the art, and (iv) the cost of implementation.

     

    Regarding privacy by default, the GDPR establishes that the controller shall implement the appropriate technical and organisational measures to ensure that, by default, (i) only the necessary data is processed, (ii) only to the necessary extent of processing, (iii) is only accessible by the necessary individuals, and (iv) is only stored by the necessary period of time.

     

    Both privacy by design and privacy by default are established around the idea of the implementation of the appropriate technical and organisational measures to safeguard the personal data protection principles and rules. The GDPR provides some examples of these measures (such as pseudonymisation, encryption, anonymisation), but it is not a catalogue for these measures or other privacy enhancing technologies (PET) and the provided examples should not be seen as mandatory measures.

     

    Clear guidance on privacy by design and by default is not to be found in the GDPR and it is a work in progress by all the community and parties involved. But the GDPR has the clear intention of impacting the core of the digital age system, reshaping its values regarding privacy.

     

    The success of this ambition is uncertain, but some important challenges are already very clear, such as the role of the producers of products, services and applications, the integration of data protection principles in the design of User Experience (UX) and User Interface (UI) and also in the software development planning (agile and scrum, for instance).

     

    In the meantime, examples of the real impact of privacy by design and by default are coming to light. In 2018, Valve changed the privacy settings of the users of the gaming platform Steam, making games owned private by default. As a direct consequence, the analytics activity provided by SteamSpy and other similar companies was severely damaged.

     

    Privacy by design certainly is, for those closely involved in the design process of products, services and applications, one of the most interesting and challenging topics in personal data protection.

    Con la recentissima pronuncia del 2 maggio 2019 (causa C-614/17), la Corte di Giustizia UE ha stabilito che la normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari deve essere interpretata nel senso che «l’utilizzo di segni figurativi che evocano l’area geografica alla quale è collegata una denominazione d’origine […] può costituire un’evocazione [vietata dalla normativa europea, n.d.r.] della medesima anche nel caso in cui i suddetti segni figurativi siano utilizzati da un produttore stabilito in tale regione, ma i cui prodotti, simili o comparabili a quelli protetti da tale denominazione d’origine, non sono protetti da quest’ultima».

    Questa sentenza, che prende spunto dal curioso caso dei formaggi de La Mancha, rappresenta una pietra miliare per la tutela delle eccellenze enogastronomiche nazionali, con importanti risvolti sui prodotti «Made in Italy».

    Il caso

    Il caso trae origine dalla commercializzazione, da parte dell’Industrial Quesera Cuquerella SL [«IQC»], di alcuni formaggi attraverso l’utilizzo di etichette evocative del noto personaggio di Miguel de Cervantes, ossia Don Chisciotte de La Mancha.

    Nella sostanza, si trattava di etichette contenenti raffigurazioni tradizionali di Don Chisciotte, di un cavallo magro evocativo del cavallo «Ronzinante» e di paesaggi con mulini a vento, per commercializzare i formaggi «Super Rocinante», «Rocinante» e «Adarga de Oro» [il termine «adarga» rappresenta un arcaismo spagnolo, utilizzato da Miguel de Cervantes per indicare lo scudo di Don Chisciotte, n.d.r.], non compresi, però, all’interno del DOP «queso manchego» [formaggio de La Mancha, in spagnolo, n.d.r.].

    Per tale ragione, la Fondazione Queso Manchego [«FQM»], incaricata della gestione e della protezione della DOP «queso manchego», si rivolgeva al giudice spagnolo, affinché dichiarasse che tale utilizzo, riguardando formaggi non compresi nella DOP, rappresentava una violazione della normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari di cui al Regolamento U.E. 510/2016.

    La decisione dei giudici spagnoli ed il rinvio del Tribunal Supremo

    Tanto in primo che poi in secondo grado, i giudici spagnoli rigettavano la richiesta della FQM, ritenendo che l’utilizzo di immagini evocative de La Mancha per commercializzare formaggi non protetti dalla DOP «queso manchego», fosse in grado di indurre il consumatore a pensare, appunto, alla regione spagnola, ma non necessariamente alla DOP «queso manchego».

    FQM si rivolgeva, quindi, al Tribunal Supremo spagnolo, che rinviava la questione alla Corte di Giustizia UE, ritenendo necessario, per risolvere il caso concreto, sapere come debba essere interpretata la normativa europea ed osservando che:

    • il termine «manchego» in spagnolo qualifica ciò che è originario de La Mancha e che la DOP «queso manchego» protegge i formaggi di pecora provenienti da tale regione e prodotti rispettando quanto previsto nel relativo disciplinare;
    • i nomi e le immagini utilizzate da IQC per commercializzare i propri formaggi, non protetti dalla DOP «queso manchego», richiamano Don Chisciotte e La Mancha, a cui tale personaggio è tradizionalmente associato.

    La decisione della Corte di Giustizia UE

    Con la sentenza del 02 maggio 2019, la Corte di Giustizia UE risponde ai quesiti posti dal Tribunal Supremo spagnolo.

    1. I segni figurativi sono in grado di ingenerare confusione nel consumatore?

    Il Tribunal Supremo spagnolo chiede alla Corte UE di chiarire se l’uso di segni figurativi per evocare una DOP è in grado di per sé di ingenerare confusione nel consumatore.

    La Corte, tenendo conto della volontà del legislatore UE di dare ampia protezione alle DOP, ha dato una risposta affermativa alla domanda del Tribunal Supremo, asserendo che «non si può escludere che segni figurativi siano in grado di richiamare direttamente nella mente del consumatore, come immagine di riferimento, i prodotti che beneficiano di una denominazione registrata, a motivo della loro vicinanza concettuale con siffatta denominazione».

    1. Ciò vale anche nel caso di prodotti simili non protetti, ma provenienti da un’area DOP?

    In secondo luogo, il Tribunal Supremo chiede alla Corte UE se la tutela garantita dalla DOP vale anche nei confronti dei produttori localizzati nella stessa regione geografica, ma i cui prodotti non sono prodotti DOP.

    Secondo la Corte UE, la normativa europea «non prevede alcuna deroga in favore di un produttore stabilito in un’area geografica corrispondente alla DOP e i cui prodotti, senza essere protetti da tale DOP, sono simili o comparabili a quelli protetti da quest’ultima». Pertanto anche a questa domanda va data una risposta affermativa.

    Il motivo è molto semplice: se si introducesse una deroga in favore di prodotti simili non protetti, ma provenienti dalla stessa area DOP (in questo caso ci si riferisce a tutti gli altri formaggi prodotti nella regione geografica de La Mancha, ma non rientranti nella DOP «queso manchego»), si consentirebbe ad alcuni produttori di trarre «un vantaggio indebito dalla notorietà di tale denominazione».

    1. A quale nozione di consumatore bisogna fare riferimento?

    Sempre secondo la Corte di Giustizia UE, spetta al giudice nazionale la relativa valutazione, avendo riguardo alla «presunta reazione del consumatore, essendo essenziale che il consumatore effettui un collegamento tra gli elementi controversi», ossia i «segni figurativi che evocano l’area geografica il cui nome fa parte di una denominazione d’origine […] e la denominazione registrata».

    La nozione di «consumatore» a cui bisogna fare riferimento per valutare se l’utilizzo di immagini richiamati una DOP può ingenerare confusione sul mercato, è quella di «consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto», tenendo presente, tuttavia, che lo scopo della normativa europea è quella di «garantire una protezione effettiva e uniforme delle denominazioni registrate contro qualsiasi evocazione nel territorio dell’Unione».

    Di conseguenza, conclude la Corte di Giustizia UE:

    • la valutazione con riferimento al consumatore dello Stato membro potrebbe già da sola sufficiente a far scattare la tutela predisposta;
    • tuttavia, il fatto che si possa escludere l’evocazione per il consumatore di uno Stato membro, non è di per sé sufficiente a escludere che l’utilizzo delle immagini possa ingenerare confusione nei consumatori.

    La tutela del «Made in Italy»

    La sentenza della Corte di Giustizia UE rappresenta un precedente importantissimo per il c.d. «Made in Italy», perché concede ai consorzi italiani di agire contro i produttori che – attraverso l’utilizzo di immagini evocative – cercano di ingenerare nel consumatore la convinzione che loro i prodotti siano di origine protetta.

    I falsi prodotti DOP non rappresentano soltanto una forma di concorrenza sleale, attribuendo un «vantaggio indebito» derivante dalla notorietà di una denominazione, ma sono in grado di determinare un danno di immagine gravissimo ai produttori italiani, conosciuti in tutto il mondo per la loro eccellenza, e che nel 2017 hanno contribuito a creare un giro d’affari legato al turismo enogastronomico pari a più di 12 miliardi di euro.

    Una questione che, in fin dei conti, non interessa, quindi, soltanto i produttori.

    Christian Montana

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