Made in Italy: tutela dei marchi di particolare interesse e valenza nazionale

29 Gennaio 2025

  • Italia
  • Marchi e brevetti
  • Proprietà industriale e intellettuale

Il “Made in Italy”, sintomo di alta qualità produttiva ed estetica, riveste un valore aggiunto, in ambito internazionale, per prodotti di diversa natura, dall’alimentare all’abbigliamento, dall’automotive all’arredamento. Negli ultimi anni, in Italia, sono state adottate diverse iniziative a livello normativo al fine di garantire la promozione, valorizzazione e tutela dello stesso.

Nel 2024 è entrata in vigore la legge n. 206/2023, definita Nuova legge sul Made in Italy seguita il 3 luglio 2024 dal relativo Decreto attuativo, con cui il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (di seguito “Ministero”) ha introdotto numerose disposizioni di rilievo concernenti, tra le altre, l’istituzione di un contrassegno ufficiale dell’origine italiana delle merci, la lotta alla contraffazione – in particolare in sede penale – nonché l’incentivazione al ricorso alla tecnologia blockchain a tutela delle filiere produttive.

Tra le novità introdotte, vi sono specifiche disposizioni a tutela dei marchi con almeno 50 anni di registrazione o utilizzo di particolare interesse e valenza nazionale (di seguito “Marchi/o”). L’obiettivo di queste misure è quello di salvaguardare il patrimonio rappresentato dai marchi italiani con una presenza risalente sul mercato, prevenendone l’estinzione e garantendone l’utilizzo da parte di imprese legate al territorio.

Misure per garantire la continuità

Al fine di tutelare i marchi di particolare interesse e valenza nazionale sono state introdotte due distinte possibilità.

  • Notifica da parte delle imprese

La prima consiste nell’acquisizione della titolarità, da parte del Ministero, di Marchi di aziende che intendono cessare la loro attività. Al riguardo il Decreto prevede che l’impresa titolare o licenziataria di un marchio registrato da almeno 50 anni o per il quale sia possibile dimostrare l’uso continuativo da almeno 50 anni, che intenda cessare definitivamente l’attività svolta, notifichi preventivamente al Ministero le informazioni relative al progetto di cessazione dell’attività indicando, in particolare, i motivi economici, finanziari o tecnici che impongono la cessazione medesima. Il Ministero, ricevuta questa notifica, può subentrare gratuitamente nella titolarità del marchio, qualora lo stesso non sia stato oggetto di cessione a titolo oneroso da parte dell’impresa   titolare   o licenziataria.

Questa procedura, in particolare, è di recentissima attuazione, essendo la stessa applicabile dal 2 dicembre 2024.

  • Decadenza dei Marchi inutilizzati

La seconda possibilità concerne invece i Marchi che si sospettano inutilizzati da almeno 5 anni. In tal caso il Ministero può depositare all’UIBM una domanda di decadenza e quindi procedere, in caso di attestazione della stessa, alla registrazione del Marchio a proprio nome.

Dei marchi di interesse nazionale di proprietà del Ministero verrà data  evidenza sul sito web dello stesso https://www.mimit.gov.it/it/impresa/competitivita-e-nuove-imprese/proprieta-industriale/marchi-di-interesse-storico/elenco-marchi.

Alla data del 27 gennaio 2025, ad un mese dalla applicabilità delle procedure in esame  nell’elenco risultano:

  • INNOCENTI – Domanda numero 302023000141171
  • AUTOBIANCHI – Domanda numero 302023000141189

Licenze gratuite per società italiane o estere che intendono investire in Italia

Il Ministero è autorizzato ad utilizzare i Marchi, concedendoli in licenza esclusivamente in favore di imprese, anche estere, che intendano investire in Italia o trasferire in Italia attività produttive ubicate all’estero.

In particolare le imprese italiane ed estere che hanno intenzione di produrre in Italia, potranno formulare una richiesta per ottenere una licenza d’uso dei Marchi.  Tale istanza dovrà contenere dettagli specifici riguardanti il progetto di investimento previsto, con particolare attenzione agli impatti occupazionali dello stesso.

Nel caso in cui il Ministero dovesse accogliere la richiesta, alla società richiedente verrà concessa una licenza a titolo gratuito della durata di 10 anni, rinnovabile a condizione che l’impresa mantenga le attività produttive entro i confini nazionali.

È importante sottolineare che, nel caso in cui l’azienda interrompa l’attività o delocalizzi gli stabilimenti fuori dal territorio italiano, il contratto di licenza potrà essere immediatamente risolto.

“What’s next?”

Le recenti misure normative sono volte da un lato, a mantenere in vita marchi della tradizione, utilizzati in Italia da molti anni e dall’altro, a consentire ad imprese italiane e straniere di poter beneficiare dell’incentivo di licenze gratuite nel caso in cui decidano di produrre in Italia.

Sarà interessante verificare gli sviluppi imprenditoriali di questa opportunità nei prossimi mesi, nei quali cui l’elenco dei Marchi di proprietà del Ministero è destinato ad allungarsi.

“Questo accordo non è solo un’opportunità economica. È una necessità politica. Nell’attuale contesto geopolitico, caratterizzato da un crescente protezionismo e da importanti conflitti regionali, la dichiarazione di Ursula von der Leyen la dice lunga.

Anche se c’è ancora molta strada da fare prima che l’accordo venga approvato internamente a ciascun blocco ed entri in vigore, la pietra miliare è molto significativa. Ci sono voluti 25 anni dall’inizio dei negoziati tra il Mercosur e l’Unione Europea per raggiungere un testo di consenso. L’impatto sarà notevole. Insieme, i blocchi rappresentano un PIL di oltre 22 mila miliardi di dollari e ospitano oltre 700 milioni di persone.

Vediamo le informazioni più importanti sul contenuto dell’accordo e sul suo stato di avanzamento.

Che cos’è l’accordo EU-Mercosur?

L’accordo è stato firmato come trattato commerciale, con l’obiettivo principale di ridurre le tariffe di importazione e di esportazione, eliminare le barriere burocratiche e facilitare il commercio tra i Paesi del Mercosur e i membri dell’Unione Europea. Inoltre, il patto prevede impegni in aree quali la sostenibilità, i diritti del lavoro, la cooperazione tecnologica e la protezione dell’ambiente.

Il Mercosur (Mercato Comune del Sud) è un blocco economico creato nel 1991 da Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. Attualmente, Bolivia e Cile partecipano come membri associati, accedendo ad alcuni accordi commerciali, ma non sono pienamente integrati nel mercato comune. D’altra parte, l’Unione Europea, con i suoi 27 membri (20 dei quali hanno adottato la moneta comune), è un’unione più ampia con una maggiore integrazione economica e sociale rispetto al Mercosur.

Cosa prevede l’accordo UE-Mercosur?

Scambio di beni:

  • Riduzione o eliminazione delle tariffe sui prodotti scambiati tra i blocchi, come carne, cereali, frutta, automobili, vini e prodotti lattiero-caseari (la riduzione prevista riguarderà oltre il 90% delle merci scambiate tra i blocchi).
  • Accesso facilitato ai prodotti europei ad alta tecnologia e industrializzati.

Commercio di servizi:

  • Espande l’accesso ai servizi finanziari, alle telecomunicazioni, ai trasporti e alla consulenza per le imprese di entrambi i blocchi.

Movimento di persone:

  • Fornisce agevolazioni per visti temporanei per lavoratori qualificati, come professionisti della tecnologia e ingegneri, promuovendo lo scambio di talenti.
  • Incoraggia i programmi di cooperazione educativa e culturale.

Sostenibilità e ambiente:

  • Include impegni per combattere la deforestazione e raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.
  • Prevede sanzioni per le violazioni degli standard ambientali.

Proprietà intellettuale e normative:

  • Protegge le indicazioni geografiche dei formaggi e dei vini europei e del caffè e della cachaça sudamericani.
  • Armonizza gli standard normativi per ridurre la burocrazia ed evitare le barriere tecniche.

Diritti del lavoro:

  • Impegno per condizioni di lavoro dignitose e rispetto degli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

Quali benefici aspettarsi?

  • Accesso a nuovi mercati: Le aziende del Mercosur avranno un accesso più facile al mercato europeo, che conta più di 450 milioni di consumatori, mentre i prodotti europei diventeranno più competitivi in Sud America.
  • Riduzione dei costi: L’eliminazione o la riduzione delle tariffe doganali potrebbe abbassare i prezzi di prodotti come vini, formaggi e automobili e favorire le esportazioni sudamericane di carne, cereali e frutta.
  • Rafforzamento delle relazioni diplomatiche: L’accordo simboleggia un ponte di cooperazione tra due regioni storicamente legate da vincoli culturali ed economici.

Quali sono i prossimi passo?

La firma è solo il primo passo. Affinché l’accordo entri in vigore, deve essere ratificato da entrambi i blocchi e il processo di approvazione è ben distinto tra loro, poiché il Mercosur non ha un Consiglio o un Parlamento comuni.

Nell’Unione Europea, il processo di ratifica prevede molteplici passaggi istituzionali:

  • Consiglio dell’Unione Europea: I ministri degli Stati membri discuteranno e approveranno il testo dell’accordo. Questa fase è cruciale, poiché ogni Paese è rappresentato e può sollevare specifiche preoccupazioni nazionali.
  • Parlamento europeo: Dopo l’approvazione del Consiglio, il Parlamento europeo, composto da deputati eletti, vota per la ratifica dell’accordo. Il dibattito in questa fase può includere gli impatti ambientali, sociali ed economici.
  • Parlamenti nazionali: Nei casi in cui l’accordo riguardi competenze condivise tra il blocco e gli Stati membri (come le normative ambientali), deve essere approvato anche dai parlamenti di ciascun Paese membro. Questo può essere impegnativo, dato che Paesi come la Francia e l’Irlanda hanno già espresso preoccupazioni specifiche sulle questioni agricole e ambientali.

Nel Mercosur, lapprovazione dipende da ciascun Paese membro:

  • Congressi nazionali: Il testo dell’accordo viene sottoposto ai parlamenti di Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. Ogni congresso valuta in modo indipendente e l’approvazione dipende dalla maggioranza politica di ciascun Paese.
  • Contesto politico: I Paesi del Mercosur hanno realtà politiche diverse. In Brasile, ad esempio, le questioni ambientali possono suscitare accesi dibattiti, mentre in Argentina l’impatto sulla competitività agricola può essere al centro della discussione.
  • Coordinamento regionale: Anche dopo l’approvazione nazionale, è necessario garantire che tutti i membri del Mercosur ratifichino l’accordo, poiché il blocco agisce come un’unica entità negoziale.

Seguite questo blog, vi terremo aggiornato sugli sviluppi.

Ignacio Alonso recently posted his interesting article “Spain – Can an influencer be considered a “commercial agent”” where he discussed the elements that – in some specific circumstances – could lead to considering an influencer as a commercial agent, with the consequent protections that Directive 86/653/CE and the individual legislation of the EU Member States offer, and the related costs to be borne by the companies that hire them.

Ignacio also mentioned a recent ruling issued by an Italian court (“Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, judgment of March 4th 2024 n.2615”) which caused a lot of interest here, precisely because it expressly recognized the qualification of commercial agents to some influencers.

Inspired by Ignacio’s interesting contribution, this article will explain this ruling in more detail and draw some indications that may be useful for companies that want to hire influencers in Italy.

The case arose from an inspection conducted by ENASARCO (social security institution for Italian commercial agents) at a company that markets food supplements online and which had hired some influencers to promote its products on social media.

The contracts provided for the influencers’ commitment to promote the company’s branded products on its behalf on social media networks and on the websites owned by the influencer.

In promoting the products, the influencers indicated their personalized discount code for the followers to use. With this discount code, the company could track the orders from the influencer’s followers and, therefore, originated from him, paying him commissions as a percentage of these sales once paid for. The influencer also received fixed compensation for the posts he published.

The compensation was invoiced monthly, and in fact, the influencers issued dozens of invoices over the years, accruing substantial compensation.

The contracts were stipulated for an indefinite period.

The inspector had considered that the relationships between the company and the influencers were to be classified as a commercial agency and had therefore imposed fines on the company for failure to register with ENASARCO and pay the contributions for social security and termination indemnity for rather high amounts.

The administrative appeal was rejected, therefore the company took legal action before the Court of Rome (Labour and Social Security section), competent for cases against ENASARCO, to obtain the annulment of the fines.

The company’s defense was based on the following circumstances, among others:

  • the online marketing activities were only ancillary for the influencers (in fact, they were mostly personal trainers or athletes)
  • they promoted the products only occasionally
  • they actually had no direct contact with customers, so they did not actually promote sales but only did some advertising
  • they did not have an assigned area or any obligations typical of the agent (e.g. exclusivity).

The Court of Rome rejected the company’s arguments, stating that the relationships between the company and the influencers were indeed to be considered as agency agreements, thus confirming ENASARCO’s claims.

These were the main points in the courts’ reasoning:

  • the purpose of the contracts stipulated between the parties was not mere advertising but the influencer’s promotion of sales of the company’s products to his followers, as confirmed by the discount code mechanism. Promotional activity can in fact, be performed in various ways, in this case, also considering the peculiarity of the web and social networks
  • there was an “assigned area”, which the Court identified precisely in the community of the influencer’s followers (the area is not necessarily geographical but can also be identified with a group or category of customers)
  • the relationship between the parties had proven to be stable and continuous, as evidenced by the quantity and regularity of the invoices for commissions issued by the influencers over the years for an indeterminate series of deals, documented with regular account statements
  • the contract had an indefinite duration, which highlighted the parties’ desire to establish a stable and long-lasting relationship.

What considerations can be drawn from this ruling?

First of all, the scope of the agency contract is becoming much broader than in the past.

Nowadays, the traditional activity of the agent who physically goes to customers to solicit sales, collect orders, and transmit them to the principal is no longer the only method to promote sales. The qualification as an agent can also be recognized by other figures who, in different ways – taking into account the specific industrial sector, the technology developments, etc.- still carry out activities to increase sales.

What matters is the agreed purpose of the collaboration, if it is aimed at sales, and whether the activity actually carried out by the collaborator is consistent with and aimed at this purpose.

These aspects need to be carefully considered when studying and drafting the contract.

Other key requirements for establishing an agency relationship are the “stability and continuity”, to be distinguished from occasional activity.

A relationship may begin as an occasional collaboration, but over time, it can evolve and become an ongoing relationship, generating significant turnover for both parties. This could be enough to qualify the relationship as an agency.

Therefore, it is necessary to monitor the progress of the relationship and sometimes evaluate the conversion of an occasional relationship into an agency if circumstances suggest so.

As can be seen from the judgment of the court of Rome, relationships with Italian agents operating in Italy (but in some cases also with Italian agents operating abroad) must be registered with ENASARCO (unlike occasional relationships), and the related contributions must be paid, otherwise the principal may be fined.

Naturally, qualifying a relationship with an influencer as an agency agreement also means that the influencer enjoys all the protections provided for by Directive 653/86 and the legislation implementing it (in Italy, articles 1742 and following of the Civil Code and the applicable collective bargaining agreement), including, for example, the right to termination notice and termination indemnity.

A company intending to appoint an independent person with commercial tasks in Italy, including now also influencers under certain conditions, will have to take all of this into account. Of course, the case may be different if the influencer does not carry out stable and continuous promotional activities and is not remunerated with commissions on the orders generated by this activity.

I am unaware whether the ruling analysed in this article has been or will be appealed. If appealed, staying updated on the developments will certainly be interesting.

Riassunto: Nell’era digitale, le frodi aziendali hanno assunto nuove e insidiose forme. Una di queste mette nel mirino i gruppi multinazionali: si tratta della c.d. “CEO Fraud”. Questo tipo di truffa si basa sull’uso fraudolento dell’identità di figure apicali aziendali, come CEO o Presidenti del consiglio di amministrazione. Il modus operandi è subdolo: i truffatori si spacciano per il CEO o un alto dirigente del Gruppo multinazionale e contattano direttamente i Chief Financial Officers (CFO) delle filiali o controllate, simulando un’inesistente operazione di investimento riservata per indurli a eseguire bonifici urgenti verso conti correnti esteri.

Contesto e Dinamiche della CEO Fraud

La CEO Fraud è una forma di truffa in cui i criminali impersonano figure dirigenziali di alto livello per ingannare i dipendenti, solitamente i CFO, inducendoli a trasferire fondi in conti bancari controllati dai truffatori. La scelta di utilizzare le identità di figure apicali come i CEO risiede nella loro autorità percepita e nella capacità di ordinare pagamenti anche ingenti, richiesti con urgenza e con l’indicazione della massima riservatezza, senza sollevare sospetti immediati.

I truffatori adottano vari strumenti di comunicazione per rendere credibili i loro tentativi di frode: in punto di partenza è solitamente un data breach, che consente ai criminali di accedere ai dati di contatto del CEO o del CFO (email, numero di telefono fisso, numero di cellulare, account whatsapp o social media) o di altre persone all’interno dell’ufficio amministrativo dotate di poteri dispositivi e operativi sui conti correnti bancari.

A volte per la conoscenza di queste informazioni non è neppure necessario un accesso illegittimo ai sistemi informatici aziendali, perché i soggetti destinatari della truffa rendono spontaneamente pubbliche queste informazioni, ad esempio indicandole sul proprio profilo sul sito web aziendale oppure mostrando pubblicamente i contatti sui profili nei social media (account linkedin, Facebook, etc.) o ancora su presentazioni, biglietti da visita e brochure aziendali nel contesto di incontri pubblici.

Altre volte ancora, non è nemmeno necessario per i truffatori appropriarsi di tutti i dati del CEO che vogliono impersonare, ma solo di quelli del destinatario, per poi dichiarare che si sta utilizzando un account personale con numero o indirizzo mail diversi da quelli abitualmente riconducibili al vero CEO.

I contatti vengono tipicamente presi come segue:

  • WhatsApp e SMS: L’uso di messaggi permette una comunicazione immediata e personale, spesso percepita come legittima dai destinatari. Il falso CEO invia un messaggio al CFO utilizzando un numero di cellulare del paese in cui ha sede la capogruppo (ad esempio +34 nel caso della Spagna), scrivendo che si tratta del suo numero di telefono personale e utilizzando nel profilo whatsapp una foto ritratto del vero CEO, il che rafforza la percezione che si tratti del suo numero personale.
  • Telefonate: dopo il primo contatto via messaggio, segue spesso una telefonata, che può essere direttamente quella del falso CEO oppure di un sedicente avvocato o consulente incaricato dal CEO di dare al CFO le informazioni necessarie sulla falsa operazione di investimento in corso e le istruzioni per procedere al pagamento urgente.
  • Email: in alternativa o in aggiunta a messaggi e telefonate le comunicazioni possono anche passare attraverso email, spesso indistinguibili da quelle autentiche, nelle quali vengono scrupolosamente replicati i formati di testo, i loghi aziendali, le firme, etc.

Ciò è possibile tramite diverse tecniche di email spoofing in cui l’indirizzo email del mittente viene modificato per apparire come se l’email fosse inviata dal legittimo titolare. In pratica, è come se qualcuno inviasse una lettera postale mettendo un indirizzo diverso sul retro della busta per mascherare la vera origine della missiva. Nel nostro caso, questo significa che il CFO riceve un’email che – a prima vista – sembra provenire dal CEO e non dal truffatore.

Non possiamo poi escludere che i truffatori approfittino di falle nella sicurezza dei sistemi aziendali, ad esempio accedendo direttamente alle chat interne all’organizzazione.

Inoltre, la sempre maggiore diffusione di strumenti per il morphing (ossia per la creazione di immagini con sembianze umane riconducibili a persone reali) potrà rendere ancora più difficile lo smascheramento del truffatore: ai messaggi e alle telefonate potremmo infatti aggiungere messaggi video o addirittura video conferenze apparentemente tenute dal vero CEO.

La (falsa) operazione di acquisizione di una società concorrente in Europa

Vediamo un esempio realmente accaduto di CEO Fraud, per illustrare le modalità pratiche con cui vengono organizzate queste frodi.

I truffatori creano un falso profilo whatsapp del sedicente CEO di un gruppo multinazionale con sede in Spagna, che utilizza un numero telefonico spagnolo e riproduce la foto profilo nell’autentico CEO.

Tramite il falso account viene mandato un messaggio al CFO di una controllata in Italia, nel quale si comunica che è in corso una operazione riservata di investimento per acquisire una società in Portogallo. A tal fine si renderà necessario procedere, il giorno seguente, ad un bonifico di un’importante somma a favore di una società portoghese, presso una banca locale.

Il messaggio sottolinea l’importanza che l’operazione venga mantenuta strettamente riservata, motivo per cui il CFO non può rivelare la richiesta di pagamento a nessuno: prima di procedere con il pagamento viene addirittura trasmesso via email un accordo di riservatezza da parte di un (finto) studio legale, che il CFO viene convinto a firmare e a restituire al fantomatico avvocato incaricato dell’operazione.

Di seguito vengono inviate via mail al CFO le istruzioni per procedere al bonifico, con cui si sottolinea ancora l’importanza che il pagamento venga fatto il giorno stesso, in via urgente.

Il giorno dopo aver disposto il bonifico, non ricevendo più notizie dal falso CEO, il CFO provvede a contattarlo presso il suo numero di telefono aziendale e scopre la truffa: a quel punto, però, è troppo tardi perché le somme sono state già trasferite dai criminali presso uno o più conti correnti su banche estere, rendendo molto difficile, se non impossibile, rintracciare i fondi.

Le principali caratteristiche della CEO fraud

  • Eccesso di fiducia: il CFO può essere facilmente indotto a credere nella veridicità dei numeri di telefono o degli indirizzi mail tramite tecniche informatiche; addirittura, talvolta i truffatori sono talmente abili da riuscire a convincere il CFO ad agire anche utilizzando numeri diversi o servendosi di fantomatici consulenti mai incontrati prima.
  • Persuasione: il fatto che i truffatori impersonino figure apicali e facciano sentire il CFO investito di incarichi importanti genera nella vittima il desiderio di compiacere i superiori e di abbassare la guardia.
  • Pressione: i truffatori instillano nel CFO un grande senso di urgenza, chiedendo pagamenti in tempi estremamente rapidi e intimando la segretezza sull’operazione; questo induce la vittima ad agire senza pensare, cercando di essere il più efficiente possibile.
  • Rapidità: è bene sapere che una richiesta di un bonifico urgente non può essere revocata, o può essere ritirata tramite recall solo in tempi estremamente stretti; i truffatori ne approfittano per intascare le somme presso banche non troppo scrupolose o per spostarle altrove, al massimo nel giro di qualche giorno.

Come prevenire queste truffe

Gli schemi di CEO Fraud possono essere molto sofisticati, ma presentano spesso segnali che, se riconosciuti, possono fermare una truffa prima che causi danni irreparabili.

Gli indizi principali sono le modalità atipiche di contatto (whatsapp, telefonate, email da account personali del falso CEO), la richiesta di massima riservatezza sull’operazione, l’urgenza con la quale si richiede il pagamento di grandi somme, il fatto che il bonifico debba essere fatto su banche all’estero, il coinvolgimento di società o soggetti mai menzionati in precedenza. Per prevenire truffe come quella della CEO Fraud, la formazione aziendale dei dipendenti su come riconoscere e rispondere alle truffe è cruciale; è poi fondamentale predisporre solide procedure di sicurezza interna.

  • In primo luogo, una precauzione importante e di base è quella di adottare sistemi di verifica che analizzano i messaggi di posta elettronica alla ricerca di eventuali virus e segnalano la provenienza dell’email da un account esterno all’organizzazione aziendale.
  • In secondo luogo, è fondamentale che le aziende implementino chiari processi per i pagamenti verso terzi, soprattutto se le modalità sono diverse dall’operatività standard della società, ad esempio prevedendo limiti di valore ai poteri di disposizione sull’operatività dei conti correnti, oltre i quali è necessaria la doppia firma con un altro amministratore.
  • In ultimo, e in generale, è bene adottare tutte le norme di buon senso e diligenza nell’analisi del caso. Meglio fare una verifica interna in più, piuttosto che una in meno; ad esempio, in caso di una richiesta particolarmente realistica ma comunque insolita, inoltrare lo scambio con il presunto truffatore all’indirizzo che riteniamo reale e chiedere ulteriori conferme nella mail di forward, anziché rispondendo direttamente nel loop via mail, consente di capire se il mittente è fasullo.

Le azioni legali per il recupero dei fondi

Dopo la scoperta di una CEO Fraud, è cruciale agire rapidamente per aumentare le possibilità di recuperare i fondi persi e perseguire legalmente i responsabili.

Azioni Legali Possibili

Una pronta comunicazione all’istituto bancario dell’ordinante per il congelamento dei fondi presso la banca beneficiaria, oltre ad una tempestiva denuncia-querela in Italia anche una denuncia nel paese in cui ha sede la banca destinataria del pagamento sono passi immediati che possono aiutare a contenere i danni e ad iniziare il processo di recupero.

In molti paesi, infatti, lo schema del CEO Fraud è ben noto ed esistono unità di polizia giudiziaria specializzate che hanno gli strumenti per muoversi in maniera tempestiva a seguito della segnalazione del reato.

Le indagini penali nel paese di destinazione del pagamento consentono anche di verificare che siano i titolari del conto corrente e le persone coinvolte nel tentativo di truffa, in alcuni casi giungendo all’arresto dei responsabili.

Dopo aver tentato di ottenere il blocco del bonifico o dei fondi, si potrà poi valutare quale sia stato il comportamento degli istituti bancari coinvolti nella vicenda, in particolare per verificare se la banca beneficiaria abbia adempiuto in maniera corretta agli obblighi imposti dalla normativa in materia di antiriciclaggio, che impongono precisi obblighi di verifica della clientela e dell’origine dei fondi.

Conclusioni

La CEO Fraud è una minaccia significativa per le aziende di ogni dimensione e settore, resa possibile e amplificata dalle tecnologie moderne e dalla globalizzazione dei mercati finanziari. Le aziende devono rimanere vigili e proattive, aggiornando continuamente le loro procedure di sicurezza per tenere il passo con le tecniche in evoluzione dei truffatori.

L’investimento in formazione, tecnologia e consulenza non è solo una misura di protezione, ma una necessità strategica per l’operatività dell’impresa.

Nel caso in cui la truffa colpisca l’azienda, in infine, è fondamentale attivarsi in maniera tempestiva per cercare di bloccare i fondi prima che siano spostati su conti correnti in altri paesi e quindi resi irrintracciabili.

“Può aiutami, avvocato”?

(Ovviamente è urgente).

“Mi mette in contatto con un legale in [Paese straniero]? Poi ci pensiamo noi.”

Lo faccio volentieri, ci mancherebbe.

Specie se posso mettere il cliente in contatto con un avvocato esperto di Legalmondo.

Lavorare direttamente con un legale all’estero, però, comporta una serie di complessità che vengono regolarmente sottovalutate dal cliente.

Le principali sono le seguenti

  • identificare il legale giusto, che sia specializzato e abbia una specifica esperienza nella materia di interesse dell’azienda
  • la difficoltà di dialogare in una lingua che solitamente è straniera sia per il cliente, sia per il legale all’estero
  • comprendere le tematiche giuridiche oggetto dell’incarico, molto spesso regolate da una legge diversa da quella italiana
  • concordare i termini dell’incarico professionale e monitorare l’andamento delle spese, specie se si tratta di attività lunghe e complesse, in paesi nei quali i costi legali sono molto alti

Nel caso di contenziosi

  • individuare i fatti importanti e i documenti necessari
  • definire la strategia di causa, valutare la possibilità di una definizione amichevole della vertenza e ragionare sulle possibili soluzioni alternative in base agli interessi delle parti
  • gestire istruzioni e comunicazioni al legale in tempi molto stretti e lavorando in fusi orari diversi

Nel caso di negoziati commerciali

  • condividere interessi e obiettivi della trattativa
  • preparare e partecipare a call conference frequenti ed impegnative
  • seguire le varie fasi delle revisioni dei testi contrattuali

Se si tratta di operazioni straordinarie

  • impostare l’attività e condividerla con i legali delle controparti
  • allineare le risorse aziendali e i vari professionisti coinvolti per assistere il cliente
  • coordinare le diverse fasi dell’attività

Tutti passaggi nei quali il legale italiano, se è specializzato nella materia ed ha esperienza nell’assistere la clientela all’estero, può essere di grande aiuto, diventando l’interfaccia tra il cliente e i vari professionisti coinvolti nell’attività, su entrambi i lati.

È una risorsa preziosa, che consente di impostare il lavoro in modo chiaro, dialogare e ottenere risposte in tempi rapidi, assicurarsi che le informazioni, anche complesse, vengano riportate e comprese in modo corretto.

Esperienza, facilità di dialogo e rapporto di fiducia

Infine, è importante valorizzare la possibilità di confronto diretto con una persona di fiducia, esperta e che conosce l’imprenditore e l’azienda, cosa che generalmente non è possibile lavorando direttamente con uno studio all’estero, specie se di grandi dimensioni.

Il risultato è generalmente quello di lavorare in modo più consapevole, rapido, ordinato ed efficace, il che si traduce generalmente in un risparmio di tempo e denaro.

Prima di lavorare direttamente con un legale in Costa Rica, Macedonia o USA, è bene considerare l’importanza e il valore dell’incarico e pensare al legale italiano come una risorsa, non come un costo aggiuntivo.

The limited liability company – in Italian: «Società a Responsabilità Limitata» or «S.r.l.» only – is the most popular Italian company type, mainly for the following reasons:

  • a little registered capital is enough;
  • the quota holders’ liability is limited to the pro-quota subscribed capital;
  • it is a «low-cost» company, also easy to be managed.

In Italy, the S.r.l. differs from joint-stock companies as the participation in the capital is represented by «intangible» quota(s), which cannot circulate as stocks. This is why the members of an S.R.L. are called «quota holders» and not «shareholders».

Similar companies in other countries are L.L.C. in the U.S., L.T.C. in the U.K., G.m.b.H. in Germany; S.a.r.l. in France; S.L. in Spain. 

S.r.l. in a nutshell

  • Company name: Società a responsabilità limitata – S.r.l.
  • Minimum registered capital: EUR 10.000,00 (of which only EUR 2.500,00 must be paid at incorporation). The minimum corporate capital can be as low as EUR 1,00, but when the capital is lower than EUR 10.000,00 the company will be a “simplified S.R.L.”, subject to certain special rules and limitations (see below)
  • Minimum number of quota holders: One
  • Maximum number of quota holders: None
  • Nationality of the quota holders: No limits (with some rare exceptions that must be verified on a case-by-case basis)
  • Nationality of the directors: No limits (with some rare exceptions that must be verified on a case-by-case basis)
  • Limited liability: Yes
  • Auditing: Required only if (i) the company has more than 50 employees or exceeds € 4,400,000 in assets or € 8,800,000 in turnover for two consecutive years; (ii) is obliged to prepare consolidated financial statements; or (iii) controls other companies that are required to have statutory audits.

The list of info and documents needed

To incorporate an S.r.l., the information needed is as follows:

  • the name of the new company

In Italy, there are no special limitations in identifying the company name.

  • the personal data of the quota holders and the registered capital subscribed.

In the case of a sole quota holder, special rules and restrictions apply. For example, the corporate capital shall be fully paid, and all the company documents and correspondence shall point out that the corporate capital belongs to a sole quota holder; otherwise, the sole quota holder shall be jointly liable with the company for its debts.

Please note that on the day of the incorporation of the S.r.l., each quota holder must deposit in a bank account an amount equal to at least 25% of his/her/its quota of corporate capital. The unpaid capital shall be paid within 30 days if requested by the director(s). The bank deposit can be replaced by an insurance policy or a bank guarantee (under certain requirements); or by a contribution in kind. However, in this case, the law requires an independent expert valuation and some other formalities.

In case the quota holder is a company, some additional documents may be required (e.g., the resolution adopted by the shareholders’ meeting) which shall be translated into Italian (certified translation), notarized, and apostilled or legalized, depending on the case.

  • the personal data of the director(s)

The director(s) can also be foreign nationals, but they shall hold an Italian fiscal identification number («codice fiscale»), which can be obtained from any local tax office («Agenzia delle Entrate»).

The first director(s) are appointed in the deed of incorporation.

  • the address of the registered office

The office may be also a «virtual» one, for instance, located at the office of a law or accounting firm;

  • the name and personal details of the first statutory auditors, if necessary

The “Simplified” S.r.l.

As mentioned above, when the partners set up an S.r.l. with a share capital of less than € 10,000, it will be an “S.r.l. Semplificata” (simplified S.r.l.).

Compared to the ordinary S.r.l., it enjoys some economic benefits during the incorporation phase (i.e.: exemption from paying stamp duty and secretarial fees, exemption from paying notary’s fees), but also some rather significant limitations, because the bylaws must be drafted by a standard model, and registered capital may be paid only in cash.

Should the shareholders decide to increase the registered capital to a value equal to or greater than € 10,000, they will be required to transform the company into an ‘ordinary’ S.r.l. (through a notarised public deed), thus losing the limitations seen above and thus, for example, being able to amend the bylaws.

The management of a simplified S.r.l., on the other hand, does not enjoy any benefits compared to the ordinary S.r.l., and this is the main reason why it has not been very successful in Italy. Indeed, the small registered capital may constitute a limitation to obtaining bank financing or requesting credit from suppliers.

Since these disadvantages are not balanced by any advantages or tax benefit in the management of a simplified S.r.l., the ordinary S.r.l. seems preferable, unless the founders have limited resources at the incorporation stage and can exclude from the outset that the new company will need access to bank financing or enter into particular corporate operations.

How to incorporate an S.r.l.

The deed of incorporation and the by-laws shall be executed before a Public Notary.

The deed of incorporation is a quite standard document that contains all the information provided by the law to set up an S.r.l.

The by-laws contain the company governance rules and can always be amended through a resolution of the quota holders’ meeting. The founding quota holders are free – except in the case of a simplified S.r.l. – to adapt the bylaws to their needs, establishing, for example, the manner and timing of the payment of share capital, the type of governance (sole director or board of directors), the powers and duration of the company’s administrative body, the procedures for the transfer of company shares, the majorities required for decisions by the quota holders’ meeting, the procedures and conditions for the withdrawal of quota holders, the conditions for the withdrawal, etc.

After the incorporation, a copy of the deed of incorporation and the by-laws shall be filed at the Italian Companies’ Register within 20 days. Until then, any person acting on behalf of the company will be personally liable.

Riassunto

Per evitare dispute con i fornitori importanti, è consigliabile pianificare gli acquisti a medio e lungo termine e non operare solo sulla base si ordini e conferme d’ordine. La pianificazione consente di concordare la durata dell’ accordo di fornitura, i volumi minimi dei prodotti da consegnare e le tempistiche di consegna, i prezzi e le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati nel tempo.
L’utilizzo di un contratto quadro di acquisto può aiutare a evitare incertezze future e consente di utilizzare varie opzioni per gestire le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime a seconda della tipologia di prodotti , come l’indicizzazione automatica del prezzo o l’accordo di rinegoziazione in caso di oscillazioni della materia prima oltre un certo termine di tolleranza stabilito.

Leggo in un comunicato stampa: “In questi giorni l’industria del vetro sta inviando alle imprese vitivinicole nuove modifiche unilaterali dei contratti con variazioni dei prezzi del 20%...”

Cosa si può fare per evitare l’imposizione di aumenti da parte dei fornitori?

  • Conoscere i propri diritti e agire in modo informato
  • Pianificare e organizzare la supply chain 

Il mio fornitore ha diritto ad aumentare i prezzi?

Se i contratti sono già stati conclusi, ad esempio gli ordini sono già stati confermati dal fornitore, la risposta è spesso no.

Non è legittimo richiedere la variazione del prezzo, e meno ancora comunicarla in via unilaterale, con la minaccia di annullare l’ordine o non consegnare la merce se non venisse accolta la richiesta.

Se mi dice che si tratta di forza maggiore?

È sbagliato: l’aumento dei costi non rappresenta una causa di forza maggiore, ma semmai di eccessiva onerosità sopravvenuta, che è molto difficile ricorra.

Per approfondire questo punto puoi vedere questo video.

E se il fornitore annullasse l’ordine, aumentasse unilateralmente il prezzo, o non consegnasse la merce?

Sarebbe inadempiente e sarebbe tenuto a risarcire i danni causati dal mancato rispetto dei suoi obblighi contrattuali.

Come si può evitare il braccio di ferro con i fornitori?

Gli strumenti ci sono, basta conoscerli e usarli.

Occorre pianificare gli acquisti a medio termine, concordando con i fornitori un programma nel quale si stabiliscano:

  • le quantità di prodotti che verranno ordinate
  • i termini di consegna
  • la durata dell’accordo
  • i prezzi dei prodotti o delle materie prime
  • le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati

Esiste uno strumento molto efficace

L’accordo che si può utilizzare è il contratto quadro di acquisto, con il quale le parti negoziano gli elementi sopra indicati, che saranno validi per il periodo di tempo stabilito.

Una volta concluso l’accordo, seguiranno gli ordini dei prodotti, che saranno regolati dal contratto quadro, senza bisogno di rinegoziare ogni volta il contenuto delle singole forniture.

Per un approfondimento su questo contratto, vedi questo articolo.

  • Sì ma: i miei fornitori non me lo firmeranno mai!

Perché? Fatevelo spiegare.

Questo tipo di accordo è nell’interesse di entrambe le parti, perché consente di pianificare i futuri ordinativi e di avere certezza sul se, quando e quanto possa essere cambiato il prezzo.

Al contrario, agire senza accordi scritti obbliga le parti ad operare in un contesto di incertezza, nel quale da un giorno all’altro si possono chiedere aumenti di prezzi e rifiutare le forniture se le richieste non vengono accettate.

Come si disciplinano i cambiamenti del prezzo per le forniture future?

Esistono diverse possibilità, a seconda della tipologia di prodotti o servizi e delle materie prime o dell’energia rilevanti nella determinazione del prezzo finale.

  • Una prima opzione è quella di indicizzare automaticamente il prezzo: ad esempio se il costo del barile del petrolio Brent aumenta / diminuisce del 10%, la parte interessata ha diritto a richiedere un corrispettivo adeguamento del prezzo del prodotto in tutti gli ordinativi trasmessi a partire dalla settimana successiva.
  • Un’alternativa è prevedere che in caso di oscillazione della materia prima di riferimento (ad esempio l’indice LME Aluminium del London Stock Exchange) oltre una certa soglia, la parte interessata possa chiedere di rinegoziare il prezzo per gli ordinativi del periodo successivo all’aumento.

E se le parti non si mettessero d’accordo sui nuovi prezzi?

  • È possibile prevedere che il contratto si sciolga, o che la determinazione sia rimessa ad un terzo soggetto, che agisca come arbitratore e indichi i nuovi prezzi per i futuri ordini.

Riassunto

Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

Di cosa parlo in questo articolo: 

  • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
  • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
  • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
  • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
  • La durata del contratto di distribuzione all’estero
  • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
  • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
  • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
  • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
  • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

phil

Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

niketiger

Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

tiger

Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

tiger

Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

 Le modalità di risoluzione delle controversie

Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

Come possiamo aiutarti

La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 63 paesi: scrivici la tua esigenza.

 

Chiara De Cesero

Aree di attività

  • Tecnologia dell'informazione
  • Proprietà intellettuale
  • Contenzioso
Olympics_Legalmondo

France: Ambush marketing and the Paris 2024 Olympic Games

  • Distribuzione
  • Marchi e brevetti
  • Francia

MetaBirkins NFT found to infringe Hermes trademark

  • Proprietà industriale e intellettuale
  • USA
Mumbai - Legalmondo

India – How to protect your Trademark

  • Proprietà industriale e intellettuale
  • Marchi e brevetti
  • India
Shanghai - Legalmondo

Il contratto di distribuzione commerciale in Cina

  • Contratti
  • Commercio internazionale
  • Cina
eu - legalmondo

The Protection of Community Design in the European Union

  • Proprietà industriale e intellettuale
  • Contenzioso
  • Europa
amazon - legalmondo

Quando Amazon è responsabile per le violazioni dei marchi sul Marketplace?

  • eCommerce
  • Proprietà industriale e intellettuale
  • Europa
  • Italia
Intellectual Property - Legalmondo

Poland – Intellectual Property (IP) Box

  • Proprietà industriale e intellettuale
  • Polonia

Scrivi a Chiara





    Leggi la privacy policy di Legalmondo.
    Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla privacy e i Termini di servizio di Google.

    L’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Mercosur

    9 Dicembre 2024

    • Argentina
    • Brasile
    • Italia
    • Uruguay
    • Distribuzione
    • Fisco e tasse
    • Investimenti esteri

    Il “Made in Italy”, sintomo di alta qualità produttiva ed estetica, riveste un valore aggiunto, in ambito internazionale, per prodotti di diversa natura, dall’alimentare all’abbigliamento, dall’automotive all’arredamento. Negli ultimi anni, in Italia, sono state adottate diverse iniziative a livello normativo al fine di garantire la promozione, valorizzazione e tutela dello stesso.

    Nel 2024 è entrata in vigore la legge n. 206/2023, definita Nuova legge sul Made in Italy seguita il 3 luglio 2024 dal relativo Decreto attuativo, con cui il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (di seguito “Ministero”) ha introdotto numerose disposizioni di rilievo concernenti, tra le altre, l’istituzione di un contrassegno ufficiale dell’origine italiana delle merci, la lotta alla contraffazione – in particolare in sede penale – nonché l’incentivazione al ricorso alla tecnologia blockchain a tutela delle filiere produttive.

    Tra le novità introdotte, vi sono specifiche disposizioni a tutela dei marchi con almeno 50 anni di registrazione o utilizzo di particolare interesse e valenza nazionale (di seguito “Marchi/o”). L’obiettivo di queste misure è quello di salvaguardare il patrimonio rappresentato dai marchi italiani con una presenza risalente sul mercato, prevenendone l’estinzione e garantendone l’utilizzo da parte di imprese legate al territorio.

    Misure per garantire la continuità

    Al fine di tutelare i marchi di particolare interesse e valenza nazionale sono state introdotte due distinte possibilità.

    • Notifica da parte delle imprese

    La prima consiste nell’acquisizione della titolarità, da parte del Ministero, di Marchi di aziende che intendono cessare la loro attività. Al riguardo il Decreto prevede che l’impresa titolare o licenziataria di un marchio registrato da almeno 50 anni o per il quale sia possibile dimostrare l’uso continuativo da almeno 50 anni, che intenda cessare definitivamente l’attività svolta, notifichi preventivamente al Ministero le informazioni relative al progetto di cessazione dell’attività indicando, in particolare, i motivi economici, finanziari o tecnici che impongono la cessazione medesima. Il Ministero, ricevuta questa notifica, può subentrare gratuitamente nella titolarità del marchio, qualora lo stesso non sia stato oggetto di cessione a titolo oneroso da parte dell’impresa   titolare   o licenziataria.

    Questa procedura, in particolare, è di recentissima attuazione, essendo la stessa applicabile dal 2 dicembre 2024.

    • Decadenza dei Marchi inutilizzati

    La seconda possibilità concerne invece i Marchi che si sospettano inutilizzati da almeno 5 anni. In tal caso il Ministero può depositare all’UIBM una domanda di decadenza e quindi procedere, in caso di attestazione della stessa, alla registrazione del Marchio a proprio nome.

    Dei marchi di interesse nazionale di proprietà del Ministero verrà data  evidenza sul sito web dello stesso https://www.mimit.gov.it/it/impresa/competitivita-e-nuove-imprese/proprieta-industriale/marchi-di-interesse-storico/elenco-marchi.

    Alla data del 27 gennaio 2025, ad un mese dalla applicabilità delle procedure in esame  nell’elenco risultano:

    • INNOCENTI – Domanda numero 302023000141171
    • AUTOBIANCHI – Domanda numero 302023000141189

    Licenze gratuite per società italiane o estere che intendono investire in Italia

    Il Ministero è autorizzato ad utilizzare i Marchi, concedendoli in licenza esclusivamente in favore di imprese, anche estere, che intendano investire in Italia o trasferire in Italia attività produttive ubicate all’estero.

    In particolare le imprese italiane ed estere che hanno intenzione di produrre in Italia, potranno formulare una richiesta per ottenere una licenza d’uso dei Marchi.  Tale istanza dovrà contenere dettagli specifici riguardanti il progetto di investimento previsto, con particolare attenzione agli impatti occupazionali dello stesso.

    Nel caso in cui il Ministero dovesse accogliere la richiesta, alla società richiedente verrà concessa una licenza a titolo gratuito della durata di 10 anni, rinnovabile a condizione che l’impresa mantenga le attività produttive entro i confini nazionali.

    È importante sottolineare che, nel caso in cui l’azienda interrompa l’attività o delocalizzi gli stabilimenti fuori dal territorio italiano, il contratto di licenza potrà essere immediatamente risolto.

    “What’s next?”

    Le recenti misure normative sono volte da un lato, a mantenere in vita marchi della tradizione, utilizzati in Italia da molti anni e dall’altro, a consentire ad imprese italiane e straniere di poter beneficiare dell’incentivo di licenze gratuite nel caso in cui decidano di produrre in Italia.

    Sarà interessante verificare gli sviluppi imprenditoriali di questa opportunità nei prossimi mesi, nei quali cui l’elenco dei Marchi di proprietà del Ministero è destinato ad allungarsi.

    “Questo accordo non è solo un’opportunità economica. È una necessità politica. Nell’attuale contesto geopolitico, caratterizzato da un crescente protezionismo e da importanti conflitti regionali, la dichiarazione di Ursula von der Leyen la dice lunga.

    Anche se c’è ancora molta strada da fare prima che l’accordo venga approvato internamente a ciascun blocco ed entri in vigore, la pietra miliare è molto significativa. Ci sono voluti 25 anni dall’inizio dei negoziati tra il Mercosur e l’Unione Europea per raggiungere un testo di consenso. L’impatto sarà notevole. Insieme, i blocchi rappresentano un PIL di oltre 22 mila miliardi di dollari e ospitano oltre 700 milioni di persone.

    Vediamo le informazioni più importanti sul contenuto dell’accordo e sul suo stato di avanzamento.

    Che cos’è l’accordo EU-Mercosur?

    L’accordo è stato firmato come trattato commerciale, con l’obiettivo principale di ridurre le tariffe di importazione e di esportazione, eliminare le barriere burocratiche e facilitare il commercio tra i Paesi del Mercosur e i membri dell’Unione Europea. Inoltre, il patto prevede impegni in aree quali la sostenibilità, i diritti del lavoro, la cooperazione tecnologica e la protezione dell’ambiente.

    Il Mercosur (Mercato Comune del Sud) è un blocco economico creato nel 1991 da Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. Attualmente, Bolivia e Cile partecipano come membri associati, accedendo ad alcuni accordi commerciali, ma non sono pienamente integrati nel mercato comune. D’altra parte, l’Unione Europea, con i suoi 27 membri (20 dei quali hanno adottato la moneta comune), è un’unione più ampia con una maggiore integrazione economica e sociale rispetto al Mercosur.

    Cosa prevede l’accordo UE-Mercosur?

    Scambio di beni:

    • Riduzione o eliminazione delle tariffe sui prodotti scambiati tra i blocchi, come carne, cereali, frutta, automobili, vini e prodotti lattiero-caseari (la riduzione prevista riguarderà oltre il 90% delle merci scambiate tra i blocchi).
    • Accesso facilitato ai prodotti europei ad alta tecnologia e industrializzati.

    Commercio di servizi:

    • Espande l’accesso ai servizi finanziari, alle telecomunicazioni, ai trasporti e alla consulenza per le imprese di entrambi i blocchi.

    Movimento di persone:

    • Fornisce agevolazioni per visti temporanei per lavoratori qualificati, come professionisti della tecnologia e ingegneri, promuovendo lo scambio di talenti.
    • Incoraggia i programmi di cooperazione educativa e culturale.

    Sostenibilità e ambiente:

    • Include impegni per combattere la deforestazione e raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.
    • Prevede sanzioni per le violazioni degli standard ambientali.

    Proprietà intellettuale e normative:

    • Protegge le indicazioni geografiche dei formaggi e dei vini europei e del caffè e della cachaça sudamericani.
    • Armonizza gli standard normativi per ridurre la burocrazia ed evitare le barriere tecniche.

    Diritti del lavoro:

    • Impegno per condizioni di lavoro dignitose e rispetto degli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

    Quali benefici aspettarsi?

    • Accesso a nuovi mercati: Le aziende del Mercosur avranno un accesso più facile al mercato europeo, che conta più di 450 milioni di consumatori, mentre i prodotti europei diventeranno più competitivi in Sud America.
    • Riduzione dei costi: L’eliminazione o la riduzione delle tariffe doganali potrebbe abbassare i prezzi di prodotti come vini, formaggi e automobili e favorire le esportazioni sudamericane di carne, cereali e frutta.
    • Rafforzamento delle relazioni diplomatiche: L’accordo simboleggia un ponte di cooperazione tra due regioni storicamente legate da vincoli culturali ed economici.

    Quali sono i prossimi passo?

    La firma è solo il primo passo. Affinché l’accordo entri in vigore, deve essere ratificato da entrambi i blocchi e il processo di approvazione è ben distinto tra loro, poiché il Mercosur non ha un Consiglio o un Parlamento comuni.

    Nell’Unione Europea, il processo di ratifica prevede molteplici passaggi istituzionali:

    • Consiglio dell’Unione Europea: I ministri degli Stati membri discuteranno e approveranno il testo dell’accordo. Questa fase è cruciale, poiché ogni Paese è rappresentato e può sollevare specifiche preoccupazioni nazionali.
    • Parlamento europeo: Dopo l’approvazione del Consiglio, il Parlamento europeo, composto da deputati eletti, vota per la ratifica dell’accordo. Il dibattito in questa fase può includere gli impatti ambientali, sociali ed economici.
    • Parlamenti nazionali: Nei casi in cui l’accordo riguardi competenze condivise tra il blocco e gli Stati membri (come le normative ambientali), deve essere approvato anche dai parlamenti di ciascun Paese membro. Questo può essere impegnativo, dato che Paesi come la Francia e l’Irlanda hanno già espresso preoccupazioni specifiche sulle questioni agricole e ambientali.

    Nel Mercosur, lapprovazione dipende da ciascun Paese membro:

    • Congressi nazionali: Il testo dell’accordo viene sottoposto ai parlamenti di Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. Ogni congresso valuta in modo indipendente e l’approvazione dipende dalla maggioranza politica di ciascun Paese.
    • Contesto politico: I Paesi del Mercosur hanno realtà politiche diverse. In Brasile, ad esempio, le questioni ambientali possono suscitare accesi dibattiti, mentre in Argentina l’impatto sulla competitività agricola può essere al centro della discussione.
    • Coordinamento regionale: Anche dopo l’approvazione nazionale, è necessario garantire che tutti i membri del Mercosur ratifichino l’accordo, poiché il blocco agisce come un’unica entità negoziale.

    Seguite questo blog, vi terremo aggiornato sugli sviluppi.

    Ignacio Alonso recently posted his interesting article “Spain – Can an influencer be considered a “commercial agent”” where he discussed the elements that – in some specific circumstances – could lead to considering an influencer as a commercial agent, with the consequent protections that Directive 86/653/CE and the individual legislation of the EU Member States offer, and the related costs to be borne by the companies that hire them.

    Ignacio also mentioned a recent ruling issued by an Italian court (“Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, judgment of March 4th 2024 n.2615”) which caused a lot of interest here, precisely because it expressly recognized the qualification of commercial agents to some influencers.

    Inspired by Ignacio’s interesting contribution, this article will explain this ruling in more detail and draw some indications that may be useful for companies that want to hire influencers in Italy.

    The case arose from an inspection conducted by ENASARCO (social security institution for Italian commercial agents) at a company that markets food supplements online and which had hired some influencers to promote its products on social media.

    The contracts provided for the influencers’ commitment to promote the company’s branded products on its behalf on social media networks and on the websites owned by the influencer.

    In promoting the products, the influencers indicated their personalized discount code for the followers to use. With this discount code, the company could track the orders from the influencer’s followers and, therefore, originated from him, paying him commissions as a percentage of these sales once paid for. The influencer also received fixed compensation for the posts he published.

    The compensation was invoiced monthly, and in fact, the influencers issued dozens of invoices over the years, accruing substantial compensation.

    The contracts were stipulated for an indefinite period.

    The inspector had considered that the relationships between the company and the influencers were to be classified as a commercial agency and had therefore imposed fines on the company for failure to register with ENASARCO and pay the contributions for social security and termination indemnity for rather high amounts.

    The administrative appeal was rejected, therefore the company took legal action before the Court of Rome (Labour and Social Security section), competent for cases against ENASARCO, to obtain the annulment of the fines.

    The company’s defense was based on the following circumstances, among others:

    • the online marketing activities were only ancillary for the influencers (in fact, they were mostly personal trainers or athletes)
    • they promoted the products only occasionally
    • they actually had no direct contact with customers, so they did not actually promote sales but only did some advertising
    • they did not have an assigned area or any obligations typical of the agent (e.g. exclusivity).

    The Court of Rome rejected the company’s arguments, stating that the relationships between the company and the influencers were indeed to be considered as agency agreements, thus confirming ENASARCO’s claims.

    These were the main points in the courts’ reasoning:

    • the purpose of the contracts stipulated between the parties was not mere advertising but the influencer’s promotion of sales of the company’s products to his followers, as confirmed by the discount code mechanism. Promotional activity can in fact, be performed in various ways, in this case, also considering the peculiarity of the web and social networks
    • there was an “assigned area”, which the Court identified precisely in the community of the influencer’s followers (the area is not necessarily geographical but can also be identified with a group or category of customers)
    • the relationship between the parties had proven to be stable and continuous, as evidenced by the quantity and regularity of the invoices for commissions issued by the influencers over the years for an indeterminate series of deals, documented with regular account statements
    • the contract had an indefinite duration, which highlighted the parties’ desire to establish a stable and long-lasting relationship.

    What considerations can be drawn from this ruling?

    First of all, the scope of the agency contract is becoming much broader than in the past.

    Nowadays, the traditional activity of the agent who physically goes to customers to solicit sales, collect orders, and transmit them to the principal is no longer the only method to promote sales. The qualification as an agent can also be recognized by other figures who, in different ways – taking into account the specific industrial sector, the technology developments, etc.- still carry out activities to increase sales.

    What matters is the agreed purpose of the collaboration, if it is aimed at sales, and whether the activity actually carried out by the collaborator is consistent with and aimed at this purpose.

    These aspects need to be carefully considered when studying and drafting the contract.

    Other key requirements for establishing an agency relationship are the “stability and continuity”, to be distinguished from occasional activity.

    A relationship may begin as an occasional collaboration, but over time, it can evolve and become an ongoing relationship, generating significant turnover for both parties. This could be enough to qualify the relationship as an agency.

    Therefore, it is necessary to monitor the progress of the relationship and sometimes evaluate the conversion of an occasional relationship into an agency if circumstances suggest so.

    As can be seen from the judgment of the court of Rome, relationships with Italian agents operating in Italy (but in some cases also with Italian agents operating abroad) must be registered with ENASARCO (unlike occasional relationships), and the related contributions must be paid, otherwise the principal may be fined.

    Naturally, qualifying a relationship with an influencer as an agency agreement also means that the influencer enjoys all the protections provided for by Directive 653/86 and the legislation implementing it (in Italy, articles 1742 and following of the Civil Code and the applicable collective bargaining agreement), including, for example, the right to termination notice and termination indemnity.

    A company intending to appoint an independent person with commercial tasks in Italy, including now also influencers under certain conditions, will have to take all of this into account. Of course, the case may be different if the influencer does not carry out stable and continuous promotional activities and is not remunerated with commissions on the orders generated by this activity.

    I am unaware whether the ruling analysed in this article has been or will be appealed. If appealed, staying updated on the developments will certainly be interesting.

    Riassunto: Nell’era digitale, le frodi aziendali hanno assunto nuove e insidiose forme. Una di queste mette nel mirino i gruppi multinazionali: si tratta della c.d. “CEO Fraud”. Questo tipo di truffa si basa sull’uso fraudolento dell’identità di figure apicali aziendali, come CEO o Presidenti del consiglio di amministrazione. Il modus operandi è subdolo: i truffatori si spacciano per il CEO o un alto dirigente del Gruppo multinazionale e contattano direttamente i Chief Financial Officers (CFO) delle filiali o controllate, simulando un’inesistente operazione di investimento riservata per indurli a eseguire bonifici urgenti verso conti correnti esteri.

    Contesto e Dinamiche della CEO Fraud

    La CEO Fraud è una forma di truffa in cui i criminali impersonano figure dirigenziali di alto livello per ingannare i dipendenti, solitamente i CFO, inducendoli a trasferire fondi in conti bancari controllati dai truffatori. La scelta di utilizzare le identità di figure apicali come i CEO risiede nella loro autorità percepita e nella capacità di ordinare pagamenti anche ingenti, richiesti con urgenza e con l’indicazione della massima riservatezza, senza sollevare sospetti immediati.

    I truffatori adottano vari strumenti di comunicazione per rendere credibili i loro tentativi di frode: in punto di partenza è solitamente un data breach, che consente ai criminali di accedere ai dati di contatto del CEO o del CFO (email, numero di telefono fisso, numero di cellulare, account whatsapp o social media) o di altre persone all’interno dell’ufficio amministrativo dotate di poteri dispositivi e operativi sui conti correnti bancari.

    A volte per la conoscenza di queste informazioni non è neppure necessario un accesso illegittimo ai sistemi informatici aziendali, perché i soggetti destinatari della truffa rendono spontaneamente pubbliche queste informazioni, ad esempio indicandole sul proprio profilo sul sito web aziendale oppure mostrando pubblicamente i contatti sui profili nei social media (account linkedin, Facebook, etc.) o ancora su presentazioni, biglietti da visita e brochure aziendali nel contesto di incontri pubblici.

    Altre volte ancora, non è nemmeno necessario per i truffatori appropriarsi di tutti i dati del CEO che vogliono impersonare, ma solo di quelli del destinatario, per poi dichiarare che si sta utilizzando un account personale con numero o indirizzo mail diversi da quelli abitualmente riconducibili al vero CEO.

    I contatti vengono tipicamente presi come segue:

    • WhatsApp e SMS: L’uso di messaggi permette una comunicazione immediata e personale, spesso percepita come legittima dai destinatari. Il falso CEO invia un messaggio al CFO utilizzando un numero di cellulare del paese in cui ha sede la capogruppo (ad esempio +34 nel caso della Spagna), scrivendo che si tratta del suo numero di telefono personale e utilizzando nel profilo whatsapp una foto ritratto del vero CEO, il che rafforza la percezione che si tratti del suo numero personale.
    • Telefonate: dopo il primo contatto via messaggio, segue spesso una telefonata, che può essere direttamente quella del falso CEO oppure di un sedicente avvocato o consulente incaricato dal CEO di dare al CFO le informazioni necessarie sulla falsa operazione di investimento in corso e le istruzioni per procedere al pagamento urgente.
    • Email: in alternativa o in aggiunta a messaggi e telefonate le comunicazioni possono anche passare attraverso email, spesso indistinguibili da quelle autentiche, nelle quali vengono scrupolosamente replicati i formati di testo, i loghi aziendali, le firme, etc.

    Ciò è possibile tramite diverse tecniche di email spoofing in cui l’indirizzo email del mittente viene modificato per apparire come se l’email fosse inviata dal legittimo titolare. In pratica, è come se qualcuno inviasse una lettera postale mettendo un indirizzo diverso sul retro della busta per mascherare la vera origine della missiva. Nel nostro caso, questo significa che il CFO riceve un’email che – a prima vista – sembra provenire dal CEO e non dal truffatore.

    Non possiamo poi escludere che i truffatori approfittino di falle nella sicurezza dei sistemi aziendali, ad esempio accedendo direttamente alle chat interne all’organizzazione.

    Inoltre, la sempre maggiore diffusione di strumenti per il morphing (ossia per la creazione di immagini con sembianze umane riconducibili a persone reali) potrà rendere ancora più difficile lo smascheramento del truffatore: ai messaggi e alle telefonate potremmo infatti aggiungere messaggi video o addirittura video conferenze apparentemente tenute dal vero CEO.

    La (falsa) operazione di acquisizione di una società concorrente in Europa

    Vediamo un esempio realmente accaduto di CEO Fraud, per illustrare le modalità pratiche con cui vengono organizzate queste frodi.

    I truffatori creano un falso profilo whatsapp del sedicente CEO di un gruppo multinazionale con sede in Spagna, che utilizza un numero telefonico spagnolo e riproduce la foto profilo nell’autentico CEO.

    Tramite il falso account viene mandato un messaggio al CFO di una controllata in Italia, nel quale si comunica che è in corso una operazione riservata di investimento per acquisire una società in Portogallo. A tal fine si renderà necessario procedere, il giorno seguente, ad un bonifico di un’importante somma a favore di una società portoghese, presso una banca locale.

    Il messaggio sottolinea l’importanza che l’operazione venga mantenuta strettamente riservata, motivo per cui il CFO non può rivelare la richiesta di pagamento a nessuno: prima di procedere con il pagamento viene addirittura trasmesso via email un accordo di riservatezza da parte di un (finto) studio legale, che il CFO viene convinto a firmare e a restituire al fantomatico avvocato incaricato dell’operazione.

    Di seguito vengono inviate via mail al CFO le istruzioni per procedere al bonifico, con cui si sottolinea ancora l’importanza che il pagamento venga fatto il giorno stesso, in via urgente.

    Il giorno dopo aver disposto il bonifico, non ricevendo più notizie dal falso CEO, il CFO provvede a contattarlo presso il suo numero di telefono aziendale e scopre la truffa: a quel punto, però, è troppo tardi perché le somme sono state già trasferite dai criminali presso uno o più conti correnti su banche estere, rendendo molto difficile, se non impossibile, rintracciare i fondi.

    Le principali caratteristiche della CEO fraud

    • Eccesso di fiducia: il CFO può essere facilmente indotto a credere nella veridicità dei numeri di telefono o degli indirizzi mail tramite tecniche informatiche; addirittura, talvolta i truffatori sono talmente abili da riuscire a convincere il CFO ad agire anche utilizzando numeri diversi o servendosi di fantomatici consulenti mai incontrati prima.
    • Persuasione: il fatto che i truffatori impersonino figure apicali e facciano sentire il CFO investito di incarichi importanti genera nella vittima il desiderio di compiacere i superiori e di abbassare la guardia.
    • Pressione: i truffatori instillano nel CFO un grande senso di urgenza, chiedendo pagamenti in tempi estremamente rapidi e intimando la segretezza sull’operazione; questo induce la vittima ad agire senza pensare, cercando di essere il più efficiente possibile.
    • Rapidità: è bene sapere che una richiesta di un bonifico urgente non può essere revocata, o può essere ritirata tramite recall solo in tempi estremamente stretti; i truffatori ne approfittano per intascare le somme presso banche non troppo scrupolose o per spostarle altrove, al massimo nel giro di qualche giorno.

    Come prevenire queste truffe

    Gli schemi di CEO Fraud possono essere molto sofisticati, ma presentano spesso segnali che, se riconosciuti, possono fermare una truffa prima che causi danni irreparabili.

    Gli indizi principali sono le modalità atipiche di contatto (whatsapp, telefonate, email da account personali del falso CEO), la richiesta di massima riservatezza sull’operazione, l’urgenza con la quale si richiede il pagamento di grandi somme, il fatto che il bonifico debba essere fatto su banche all’estero, il coinvolgimento di società o soggetti mai menzionati in precedenza. Per prevenire truffe come quella della CEO Fraud, la formazione aziendale dei dipendenti su come riconoscere e rispondere alle truffe è cruciale; è poi fondamentale predisporre solide procedure di sicurezza interna.

    • In primo luogo, una precauzione importante e di base è quella di adottare sistemi di verifica che analizzano i messaggi di posta elettronica alla ricerca di eventuali virus e segnalano la provenienza dell’email da un account esterno all’organizzazione aziendale.
    • In secondo luogo, è fondamentale che le aziende implementino chiari processi per i pagamenti verso terzi, soprattutto se le modalità sono diverse dall’operatività standard della società, ad esempio prevedendo limiti di valore ai poteri di disposizione sull’operatività dei conti correnti, oltre i quali è necessaria la doppia firma con un altro amministratore.
    • In ultimo, e in generale, è bene adottare tutte le norme di buon senso e diligenza nell’analisi del caso. Meglio fare una verifica interna in più, piuttosto che una in meno; ad esempio, in caso di una richiesta particolarmente realistica ma comunque insolita, inoltrare lo scambio con il presunto truffatore all’indirizzo che riteniamo reale e chiedere ulteriori conferme nella mail di forward, anziché rispondendo direttamente nel loop via mail, consente di capire se il mittente è fasullo.

    Le azioni legali per il recupero dei fondi

    Dopo la scoperta di una CEO Fraud, è cruciale agire rapidamente per aumentare le possibilità di recuperare i fondi persi e perseguire legalmente i responsabili.

    Azioni Legali Possibili

    Una pronta comunicazione all’istituto bancario dell’ordinante per il congelamento dei fondi presso la banca beneficiaria, oltre ad una tempestiva denuncia-querela in Italia anche una denuncia nel paese in cui ha sede la banca destinataria del pagamento sono passi immediati che possono aiutare a contenere i danni e ad iniziare il processo di recupero.

    In molti paesi, infatti, lo schema del CEO Fraud è ben noto ed esistono unità di polizia giudiziaria specializzate che hanno gli strumenti per muoversi in maniera tempestiva a seguito della segnalazione del reato.

    Le indagini penali nel paese di destinazione del pagamento consentono anche di verificare che siano i titolari del conto corrente e le persone coinvolte nel tentativo di truffa, in alcuni casi giungendo all’arresto dei responsabili.

    Dopo aver tentato di ottenere il blocco del bonifico o dei fondi, si potrà poi valutare quale sia stato il comportamento degli istituti bancari coinvolti nella vicenda, in particolare per verificare se la banca beneficiaria abbia adempiuto in maniera corretta agli obblighi imposti dalla normativa in materia di antiriciclaggio, che impongono precisi obblighi di verifica della clientela e dell’origine dei fondi.

    Conclusioni

    La CEO Fraud è una minaccia significativa per le aziende di ogni dimensione e settore, resa possibile e amplificata dalle tecnologie moderne e dalla globalizzazione dei mercati finanziari. Le aziende devono rimanere vigili e proattive, aggiornando continuamente le loro procedure di sicurezza per tenere il passo con le tecniche in evoluzione dei truffatori.

    L’investimento in formazione, tecnologia e consulenza non è solo una misura di protezione, ma una necessità strategica per l’operatività dell’impresa.

    Nel caso in cui la truffa colpisca l’azienda, in infine, è fondamentale attivarsi in maniera tempestiva per cercare di bloccare i fondi prima che siano spostati su conti correnti in altri paesi e quindi resi irrintracciabili.

    “Può aiutami, avvocato”?

    (Ovviamente è urgente).

    “Mi mette in contatto con un legale in [Paese straniero]? Poi ci pensiamo noi.”

    Lo faccio volentieri, ci mancherebbe.

    Specie se posso mettere il cliente in contatto con un avvocato esperto di Legalmondo.

    Lavorare direttamente con un legale all’estero, però, comporta una serie di complessità che vengono regolarmente sottovalutate dal cliente.

    Le principali sono le seguenti

    • identificare il legale giusto, che sia specializzato e abbia una specifica esperienza nella materia di interesse dell’azienda
    • la difficoltà di dialogare in una lingua che solitamente è straniera sia per il cliente, sia per il legale all’estero
    • comprendere le tematiche giuridiche oggetto dell’incarico, molto spesso regolate da una legge diversa da quella italiana
    • concordare i termini dell’incarico professionale e monitorare l’andamento delle spese, specie se si tratta di attività lunghe e complesse, in paesi nei quali i costi legali sono molto alti

    Nel caso di contenziosi

    • individuare i fatti importanti e i documenti necessari
    • definire la strategia di causa, valutare la possibilità di una definizione amichevole della vertenza e ragionare sulle possibili soluzioni alternative in base agli interessi delle parti
    • gestire istruzioni e comunicazioni al legale in tempi molto stretti e lavorando in fusi orari diversi

    Nel caso di negoziati commerciali

    • condividere interessi e obiettivi della trattativa
    • preparare e partecipare a call conference frequenti ed impegnative
    • seguire le varie fasi delle revisioni dei testi contrattuali

    Se si tratta di operazioni straordinarie

    • impostare l’attività e condividerla con i legali delle controparti
    • allineare le risorse aziendali e i vari professionisti coinvolti per assistere il cliente
    • coordinare le diverse fasi dell’attività

    Tutti passaggi nei quali il legale italiano, se è specializzato nella materia ed ha esperienza nell’assistere la clientela all’estero, può essere di grande aiuto, diventando l’interfaccia tra il cliente e i vari professionisti coinvolti nell’attività, su entrambi i lati.

    È una risorsa preziosa, che consente di impostare il lavoro in modo chiaro, dialogare e ottenere risposte in tempi rapidi, assicurarsi che le informazioni, anche complesse, vengano riportate e comprese in modo corretto.

    Esperienza, facilità di dialogo e rapporto di fiducia

    Infine, è importante valorizzare la possibilità di confronto diretto con una persona di fiducia, esperta e che conosce l’imprenditore e l’azienda, cosa che generalmente non è possibile lavorando direttamente con uno studio all’estero, specie se di grandi dimensioni.

    Il risultato è generalmente quello di lavorare in modo più consapevole, rapido, ordinato ed efficace, il che si traduce generalmente in un risparmio di tempo e denaro.

    Prima di lavorare direttamente con un legale in Costa Rica, Macedonia o USA, è bene considerare l’importanza e il valore dell’incarico e pensare al legale italiano come una risorsa, non come un costo aggiuntivo.

    The limited liability company – in Italian: «Società a Responsabilità Limitata» or «S.r.l.» only – is the most popular Italian company type, mainly for the following reasons:

    • a little registered capital is enough;
    • the quota holders’ liability is limited to the pro-quota subscribed capital;
    • it is a «low-cost» company, also easy to be managed.

    In Italy, the S.r.l. differs from joint-stock companies as the participation in the capital is represented by «intangible» quota(s), which cannot circulate as stocks. This is why the members of an S.R.L. are called «quota holders» and not «shareholders».

    Similar companies in other countries are L.L.C. in the U.S., L.T.C. in the U.K., G.m.b.H. in Germany; S.a.r.l. in France; S.L. in Spain. 

    S.r.l. in a nutshell

    • Company name: Società a responsabilità limitata – S.r.l.
    • Minimum registered capital: EUR 10.000,00 (of which only EUR 2.500,00 must be paid at incorporation). The minimum corporate capital can be as low as EUR 1,00, but when the capital is lower than EUR 10.000,00 the company will be a “simplified S.R.L.”, subject to certain special rules and limitations (see below)
    • Minimum number of quota holders: One
    • Maximum number of quota holders: None
    • Nationality of the quota holders: No limits (with some rare exceptions that must be verified on a case-by-case basis)
    • Nationality of the directors: No limits (with some rare exceptions that must be verified on a case-by-case basis)
    • Limited liability: Yes
    • Auditing: Required only if (i) the company has more than 50 employees or exceeds € 4,400,000 in assets or € 8,800,000 in turnover for two consecutive years; (ii) is obliged to prepare consolidated financial statements; or (iii) controls other companies that are required to have statutory audits.

    The list of info and documents needed

    To incorporate an S.r.l., the information needed is as follows:

    • the name of the new company

    In Italy, there are no special limitations in identifying the company name.

    • the personal data of the quota holders and the registered capital subscribed.

    In the case of a sole quota holder, special rules and restrictions apply. For example, the corporate capital shall be fully paid, and all the company documents and correspondence shall point out that the corporate capital belongs to a sole quota holder; otherwise, the sole quota holder shall be jointly liable with the company for its debts.

    Please note that on the day of the incorporation of the S.r.l., each quota holder must deposit in a bank account an amount equal to at least 25% of his/her/its quota of corporate capital. The unpaid capital shall be paid within 30 days if requested by the director(s). The bank deposit can be replaced by an insurance policy or a bank guarantee (under certain requirements); or by a contribution in kind. However, in this case, the law requires an independent expert valuation and some other formalities.

    In case the quota holder is a company, some additional documents may be required (e.g., the resolution adopted by the shareholders’ meeting) which shall be translated into Italian (certified translation), notarized, and apostilled or legalized, depending on the case.

    • the personal data of the director(s)

    The director(s) can also be foreign nationals, but they shall hold an Italian fiscal identification number («codice fiscale»), which can be obtained from any local tax office («Agenzia delle Entrate»).

    The first director(s) are appointed in the deed of incorporation.

    • the address of the registered office

    The office may be also a «virtual» one, for instance, located at the office of a law or accounting firm;

    • the name and personal details of the first statutory auditors, if necessary

    The “Simplified” S.r.l.

    As mentioned above, when the partners set up an S.r.l. with a share capital of less than € 10,000, it will be an “S.r.l. Semplificata” (simplified S.r.l.).

    Compared to the ordinary S.r.l., it enjoys some economic benefits during the incorporation phase (i.e.: exemption from paying stamp duty and secretarial fees, exemption from paying notary’s fees), but also some rather significant limitations, because the bylaws must be drafted by a standard model, and registered capital may be paid only in cash.

    Should the shareholders decide to increase the registered capital to a value equal to or greater than € 10,000, they will be required to transform the company into an ‘ordinary’ S.r.l. (through a notarised public deed), thus losing the limitations seen above and thus, for example, being able to amend the bylaws.

    The management of a simplified S.r.l., on the other hand, does not enjoy any benefits compared to the ordinary S.r.l., and this is the main reason why it has not been very successful in Italy. Indeed, the small registered capital may constitute a limitation to obtaining bank financing or requesting credit from suppliers.

    Since these disadvantages are not balanced by any advantages or tax benefit in the management of a simplified S.r.l., the ordinary S.r.l. seems preferable, unless the founders have limited resources at the incorporation stage and can exclude from the outset that the new company will need access to bank financing or enter into particular corporate operations.

    How to incorporate an S.r.l.

    The deed of incorporation and the by-laws shall be executed before a Public Notary.

    The deed of incorporation is a quite standard document that contains all the information provided by the law to set up an S.r.l.

    The by-laws contain the company governance rules and can always be amended through a resolution of the quota holders’ meeting. The founding quota holders are free – except in the case of a simplified S.r.l. – to adapt the bylaws to their needs, establishing, for example, the manner and timing of the payment of share capital, the type of governance (sole director or board of directors), the powers and duration of the company’s administrative body, the procedures for the transfer of company shares, the majorities required for decisions by the quota holders’ meeting, the procedures and conditions for the withdrawal of quota holders, the conditions for the withdrawal, etc.

    After the incorporation, a copy of the deed of incorporation and the by-laws shall be filed at the Italian Companies’ Register within 20 days. Until then, any person acting on behalf of the company will be personally liable.

    Riassunto

    Per evitare dispute con i fornitori importanti, è consigliabile pianificare gli acquisti a medio e lungo termine e non operare solo sulla base si ordini e conferme d’ordine. La pianificazione consente di concordare la durata dell’ accordo di fornitura, i volumi minimi dei prodotti da consegnare e le tempistiche di consegna, i prezzi e le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati nel tempo.
    L’utilizzo di un contratto quadro di acquisto può aiutare a evitare incertezze future e consente di utilizzare varie opzioni per gestire le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime a seconda della tipologia di prodotti , come l’indicizzazione automatica del prezzo o l’accordo di rinegoziazione in caso di oscillazioni della materia prima oltre un certo termine di tolleranza stabilito.

    Leggo in un comunicato stampa: “In questi giorni l’industria del vetro sta inviando alle imprese vitivinicole nuove modifiche unilaterali dei contratti con variazioni dei prezzi del 20%...”

    Cosa si può fare per evitare l’imposizione di aumenti da parte dei fornitori?

    • Conoscere i propri diritti e agire in modo informato
    • Pianificare e organizzare la supply chain 

    Il mio fornitore ha diritto ad aumentare i prezzi?

    Se i contratti sono già stati conclusi, ad esempio gli ordini sono già stati confermati dal fornitore, la risposta è spesso no.

    Non è legittimo richiedere la variazione del prezzo, e meno ancora comunicarla in via unilaterale, con la minaccia di annullare l’ordine o non consegnare la merce se non venisse accolta la richiesta.

    Se mi dice che si tratta di forza maggiore?

    È sbagliato: l’aumento dei costi non rappresenta una causa di forza maggiore, ma semmai di eccessiva onerosità sopravvenuta, che è molto difficile ricorra.

    Per approfondire questo punto puoi vedere questo video.

    E se il fornitore annullasse l’ordine, aumentasse unilateralmente il prezzo, o non consegnasse la merce?

    Sarebbe inadempiente e sarebbe tenuto a risarcire i danni causati dal mancato rispetto dei suoi obblighi contrattuali.

    Come si può evitare il braccio di ferro con i fornitori?

    Gli strumenti ci sono, basta conoscerli e usarli.

    Occorre pianificare gli acquisti a medio termine, concordando con i fornitori un programma nel quale si stabiliscano:

    • le quantità di prodotti che verranno ordinate
    • i termini di consegna
    • la durata dell’accordo
    • i prezzi dei prodotti o delle materie prime
    • le condizioni alle quali i prezzi possono essere variati

    Esiste uno strumento molto efficace

    L’accordo che si può utilizzare è il contratto quadro di acquisto, con il quale le parti negoziano gli elementi sopra indicati, che saranno validi per il periodo di tempo stabilito.

    Una volta concluso l’accordo, seguiranno gli ordini dei prodotti, che saranno regolati dal contratto quadro, senza bisogno di rinegoziare ogni volta il contenuto delle singole forniture.

    Per un approfondimento su questo contratto, vedi questo articolo.

    • Sì ma: i miei fornitori non me lo firmeranno mai!

    Perché? Fatevelo spiegare.

    Questo tipo di accordo è nell’interesse di entrambe le parti, perché consente di pianificare i futuri ordinativi e di avere certezza sul se, quando e quanto possa essere cambiato il prezzo.

    Al contrario, agire senza accordi scritti obbliga le parti ad operare in un contesto di incertezza, nel quale da un giorno all’altro si possono chiedere aumenti di prezzi e rifiutare le forniture se le richieste non vengono accettate.

    Come si disciplinano i cambiamenti del prezzo per le forniture future?

    Esistono diverse possibilità, a seconda della tipologia di prodotti o servizi e delle materie prime o dell’energia rilevanti nella determinazione del prezzo finale.

    • Una prima opzione è quella di indicizzare automaticamente il prezzo: ad esempio se il costo del barile del petrolio Brent aumenta / diminuisce del 10%, la parte interessata ha diritto a richiedere un corrispettivo adeguamento del prezzo del prodotto in tutti gli ordinativi trasmessi a partire dalla settimana successiva.
    • Un’alternativa è prevedere che in caso di oscillazione della materia prima di riferimento (ad esempio l’indice LME Aluminium del London Stock Exchange) oltre una certa soglia, la parte interessata possa chiedere di rinegoziare il prezzo per gli ordinativi del periodo successivo all’aumento.

    E se le parti non si mettessero d’accordo sui nuovi prezzi?

    • È possibile prevedere che il contratto si sciolga, o che la determinazione sia rimessa ad un terzo soggetto, che agisca come arbitratore e indichi i nuovi prezzi per i futuri ordini.

    Riassunto

    Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
    Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
    Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
    Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

    Di cosa parlo in questo articolo: 

    • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
    • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
    • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
    • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
    • La durata del contratto di distribuzione all’estero
    • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
    • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
    • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
    • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
    • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

    La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

    Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

    Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

    phil

    Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

    La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

    La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

    Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

    niketiger

    Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

    A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

    Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

    Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

    Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

    Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

    Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

    Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

    Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

    Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

    Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

    Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

    L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

    Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

    Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

    Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

    La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

    In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

    Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

    In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

    Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

    Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

    In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

    Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

    Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

    Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

    Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

    Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

    Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

    In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

    Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

    E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

    Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

    Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

    Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

    L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

    Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

    Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

    In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

    Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

    Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

    L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

    Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

    tiger

    Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

    Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

    E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

    Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

    Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

    La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

    Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

    Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

    Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

    tiger

    Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

    È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

    Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

    I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

    È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

    Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

    La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

    La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

    Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

    Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

    La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

    I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

    Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

    La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

    Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

     Le modalità di risoluzione delle controversie

    Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

    Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

    Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

    Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

    Come possiamo aiutarti

    La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

    È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

    Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 63 paesi: scrivici la tua esigenza.

     

    Geraldo Fonseca

    Aree di attività

    • Diritto societario
    • Recupero credito
    • Fallimentare
    • Commercio internazionale
    • Contenzioso