Vendita internazionale: attenzione alle garanzie implicite!

12 Febbraio 2023

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  • Contratti

Riassunto

Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

Di cosa parlo in questo articolo: 

  • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
  • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
  • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
  • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
  • La durata del contratto di distribuzione all’estero
  • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
  • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
  • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
  • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
  • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

phil

Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

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Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

 Le modalità di risoluzione delle controversie

Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

Come possiamo aiutarti

La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 63 paesi: scrivici la tua esigenza.

 

Un caso deciso di recente dalla Corte di Cassazione italiana chiarisce quali sono i rischi per chi vende i propri prodotti all’estero senza avere posto adeguata attenzione alla parte legale del contratto (Ordinanza, Sez. 2, n.36144 del 2022, pubblicata il 12.12.2022).

Perché è importante: nei contratti occorre fare attenzione non solo a ciò che si scrive, ma anche a ciò che non è scritto, altrimenti vi è il rischio che si applichino garanzie implicite di commerciabilità, che possono rendere il prodotto inadatto all’uso, anche se è conforme alle specifiche tecniche pattuire nel contratto.

Il contratto di vendita internazionale e la decisione di primo grado

Una società tedesca aveva convenuto in giudizio in Italia (Tribunale di Chieti) una società italiana per ottenere la sua condanna al pagamento del prezzo di vendita di due fatture per forniture di merce (acciaio).

La società italiana acquirente si era difesa affermando che le due fatture non erano state deliberatamente pagate, a causa della non conformità di tre precedenti forniture della stessa venditrice tedesca. Chiedeva quindi in via riconvenzionale l’accertamento dei difetti e la riduzione del prezzo, da compensare con il credito della controparte, oltre al risarcimento del danno.

In primo grado, il Tribunale di Chieti aveva accolto parzialmente sia la domanda di pagamento della venditrice tedesca (per circa la metà del credito) sia la riconvenzionale dell’acquirente.

La consulenza tecnica d’ufficio aveva rilevato che l’acciaio fornito dalla venditrice, pur conforme alla scheda tecnica concordata, presentava un valore molto basso di silicio rispetto ai valori all’acciaio di altri produttori; tuttavia, il giudice di primo grado escludeva si trattasse di un vero e proprio vizio.

Il giudizio d’appello

La Corte d’Appello di L’Aquila, adita in secondo grado dall’acquirente, era giunta ad una conclusione diversa rispetto al Tribunale di primo grado, riducendo sensibilmente l’importo a debito dell’acquirente italiana, per le seguenti ragioni:

  • si applicava il regime delle “garanzie implicite” di cui all’art.35 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci dell’11.4.80 (“CISG”, ratificata sia in Italia che in Germania), in quanto le sue società avevano sede d’affari in due Paesi diversi, entrambi parte della Convenzione;
  • in particolare, la composizione chimica dell’acciaio fornito dalla venditrice, pur non costituendo un “vizio” del prodotto (ovvero un’anomalia o imperfezione) doveva comunque considerarsi “mancanza di conformità” ai sensi degli artt.35, secondo comma lett.a) e dell’art.36 comma 1 della CISG, in quanto rendeva l’acciaio inadatto all’uso a cui servirebbero abitualmente merci dello stesso genere (anche nota come “garanzia di commerciabilità”).

La sentenza della Corte di Cassazione

La venditrice tedesca ricorreva quindi in Cassazione contro la pronuncia della Corte d’Appello, affermando in sintesi che, secondo la CISG, la conformità o meno della merce deve valutarsi rispetto a quanto pattuito nel contratto fra le parti; e che la “garanzia di commerciabilità” dovrebbe applicarsi solo in assenza di un preciso accordo delle parti sulle caratteristiche che deve avere il prodotto.

Tuttavia, prosegue la difesa della venditrice, in questo caso l’acquirente italiana aveva inviato una scheda tecnica comprensiva di una tabella riassuntiva dei vari elementi chimici, dove si dichiarava che il silicio dovesse essere presente in una percentuale non superiore allo 0,45, senza però indicare alcuna percentuale minima.

Dunque, il fatto che la percentuale di silicio fosse sensibilmente inferiore rispetto a quella presente mediamente nell’acciaio di altri fornitori non poteva considerarsi un difetto di conformità, in quanto, nella fase di negoziazione del contratto, le parti scambiandosi la scheda tecnica avevano espressamente concordato solo i valori massimi, quindi non considerando rilevanti ai fini della conformità i valori minimi.

La Corte di Cassazione tuttavia dissente da questo ragionamento e in sostanza conferma la sentenza della Corte d’Appello, rigettando il ricorso della venditrice tedesca.

La Corte ricorda che, ai sensi dell’art.35 primo comma della CISG, il venditore deve consegnare merci la cui quantità, qualità e genere corrispondono a quelli previsti dal contratto ed il cui imballaggio e confezione corrispondono a quelli previsti dal contratto; e che, per il secondo comma “a meno che le parti non convengano altrimenti, le merci sono conformi al contratto solo se: a) sono atte agli usi ai quali servirebbero abitualmente merci dello stesso genere”.

Altre garanzie sono enumerate nelle lettere da b) a d) della stessa norma[1]. Esse vengono comunemente definite nell’insieme come “garanzie implicite”.

La Corte osserva che le garanzie in questione, inclusa quella di “commerciabilità” appena richiamata, non si pongono in via subordinata o sussidiaria rispetto ai patti contrattuali; al contrario, esse si applicano se non vengono espressamente escluse dalle parti.

Ne consegue che, secondo la Corte di Cassazione, l’eventuale volontà delle parti di un contratto di vendita di disapplicare la garanzia di commerciabilità deve “risultare da una specifica previsione concordata tra le parti”.

Nella fattispecie, per quanto la scheda tecnica che faceva parte degli accordi contrattuali fosse analitica ed avesse compreso fra le caratteristiche chimiche del materiale anche la percentuale di silicio, il fatto che fosse indicata solo una percentuale massima e non anche quella minima non valeva ad escludere che, in virtù della “garanzia implicita” di commerciabilità, la percentuale minima dovesse comunque essere conforme a quella media dei prodotti analoghi esistenti sul mercato.

Poiché la “garanzia di commerciabilità” non era stata espressamente esclusa fra le parti con un’apposita clausola contrattuale, la conformità della merce al contratto doveva comunque valutarsi anche in considerazione di tale garanzia implicita.

Conclusioni

Cosa devono tenere presente le imprese che vendono all’estero?

  • Nei contratti di vendita di merce fra imprese che hanno la propria sede in due Paesi diversi, si applica in molti casi automaticamente la CISG, in prevalenza rispetto alla legge interna del Paese del venditore o di quella dell’acquirente.
  • La CISG contiene norme molto importanti per i rapporti fra venditori ed acquirenti, sulle garanzie di conformità della merce al contratto e sui rimedi dell’acquirente in caso di violazione delle garanzie.
  • Si possono modificare o addirittura escludere queste norme redigendo adeguati contratti o condizioni generali per iscritto.
  • Le parti possono concordare di non applicare tutte o alcune delle “garanzie implicite” (eventualmente sostituendole con garanzie contrattuali) così come possono escludere determinati rimedi (ad esempio, escludere o limitare la responsabilità per danni, entro certi limiti). Tuttavia, devono farlo con clausole chiare ed esplicite.
  • Perché non si applichi la “garanzia di commerciabilità”, secondo il ragionamento della Suprema Corte italiana, non basta limitarsi a non menzionarla nel contratto.
  • Non è sufficiente allegare al contratto una descrizione analitica delle caratteristiche della merce per escludere che certe caratteristiche non menzionate, ma tuttavia presenti in prodotti analoghi di altri produttori, che possono essere utilizzate come parametro per la conformità della merce.
  • E’ necessario, invece, inserire nel contratto una clausola che escluda espressamente questo tipo di garanzia.

In altre parole, nei contratti occorre fare attenzione non solo a ciò che si scrive, ma anche a ciò che non è scritto.

Questo caso dimostra ancora una volta l’importanza di redigere un contratto adeguato e completo non solo dal punto di vista commerciale, tecnico, finanziario, ma anche dal punto di vista legale, avvalendosi della competenza di un avvocato esperto dei contratti commerciali internazionali.

Infine, è importante non trascurare le clausole di legge applicabile e di giurisdizione. Di questi aspetti purtroppo spesso non ci si avvede, anche in trattative di grande valore, considerando queste clausole poco importanti o addirittura bloccanti per la negoziazione, salvo poi pentirsene quando sorge un contenzioso o anche semplicemente minacciato. Vedi qui un approfondimento.

Molti pensano che l’accordo di riservatezza sia la prima e unica cautela necessaria in un negoziato. Questo è sbagliato, perché questo accordo riguarda solo una parte della relazione commerciale che le parti vogliono discutere o gestire.

Perché è importante

La funzione del Non-Disclosure-Agreement è quella di mantenere riservate certe informazioni che le parti intendono scambiare e impedire che vengano usate per fini diversi da quelli pattuiti. Esistono però molti aspetti del negoziato che non sono disciplinati nel NDA.

Le principali questioni che è bene concordare per iscritto sono le seguenti:

  • perché le parti vogliono scambiarsi le informazioni?
  • qual è l’obiettivo finale che si vuole conseguire?
  • Su quali punti generali le parti sono già d’accordo?
  • quanto durerà il negoziato?
  • chi parteciperà alle trattative? Con quali poteri?
  • quali documenti e informazioni verranno condivisi?
  • si vogliono prevedere obblighi di esclusiva e/o di non concorrenza durante e dopo il negoziato?
  • quale legge si applica alle trattative e quali sono le modalità di risoluzione delle eventuali controversie?

Se non si dà risposta a queste domande, c’è il rischio che con il passare del tempo possano insorgere malintesi e controversie, specie in negoziati lunghi e complessi con controparti straniere.

Come procedere?

  • È consigliabile che i patti sopra indicati siano raccolti in una Lettera di intenti (“LoI”) o Memorandum of Understanding (“MoU”). Si tratta di accordi preliminari, che hanno proprio la funzione di determinare il perimetro del futuro negoziato, la tempistica, e le regole da osservare durante e dopo le trattative.

Obiezione frequente

“Sono contratti non vincolanti, che senso hanno se poi le parti sono libere di non rispettarli”?

  • Si può prevedere che alcuni patti siano vincolanti (esclusiva durante il negoziato, non concorrenza, modalità di risoluzione delle controversie), ed altri no (con libertà di concludere o meno l’accordo)
  • In ogni caso avere concordato la road map delle trattative è un vantaggio rispetto ad operare senza avere fissato le linee principali del negoziato

Cosa accade se non si trova l’accordo?

  • Il MoU solitamente prevede in modo espresso che ciascuna parte resta libera di non finalizzare la trattativa, a condizione che durante i negoziati si comporti in buona fede e preservi i diritti dell’altra.
  • Va tenuto presente che in caso di interruzione prematura o immotivata delle trattative di una parte, l’altra può avere diritto al risarcimento dei danni (c.d. responsabilità pre-contrattuale), se ciò è previsto nell’accordo e/o dalla legge applicabile al contratto

Il NDA, dunque, quando va concluso?

  • Può essere firmato contestualmente a, o immediatamente dopo il Memorandum of Understanding / Lettera di Intenti, in modo che la determinazione delle informazioni riservate, delle modalità del loro utilizzo, della durata degli obblighi di confidenzialità, etc. siano definite in modo coerente con il progetto che le parti hanno concordato.

Per saperne di più sul contenuto del NDA, vedi questo articolo.

Riassunto

Con il D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 198 l’Italia ha dato attuazione alla Direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese (B2B) nella filiera agricola e alimentare. Il legislatore italiano ha introdotto regole più stringenti di quelle previste dalla direttiva. Inoltre, ha previsto alcuni requisiti contrattuali obbligatori, nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, ma più restrittivi di quelli del Regolamento. Le nuove disposizioni si applicano qualunque sia la legge applicabile al contratto e qualunque sia il paese dell’acquirente, quindi riguardano anche i rapporti transfrontalieri. Hanno un impatto significativo sui rapporti contrattuali relativi alla filiera dei prodotti alimentari, freschi e trasformati, compreso il vino, e di alcuni prodotti agricoli non alimentari, e richiedono alle imprese dei settori coinvolti di rivedere i propri contratti e le proprie prassi operative nei rapporti con clienti e fornitori.

Le previsioni introdotte dal decreto trovano applicazione anche ai contratti in corso, che dovranno essere resi conformi entro il 15 giugno 2022.

Introduzione

Con la Direttiva (UE) 2019/633 il legislatore dell’Unione ha introdotto una serie dettagliata di pratiche commerciali sleali relative ai rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, con la finalità di contrastare le pratiche commerciali squilibrate imposte dai contraenti forti. La direttiva è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 198 (entrato in vigore il 15 dicembre 2021) che ha introdotto un lungo elenco di previsioni qualificate come pratiche commerciali sleali nell’ambito dei rapporti fra le imprese nella filiera agricola e alimentare. L’elenco delle pratiche sleali è più numeroso di quelle previste dalla direttiva UE.

Il recepimento della direttiva è stato l’occasione, poi, per introdurre alcuni requisiti obbligatori dei contratti di cessione dei beni rientranti nell’ambito di applicazione del decreto. Questi requisiti, adottati nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, sostituiscono, ampliandoli, quelli previsti dall’art. 62 del D.L. 1/2012 e dall’art. 10-quater del D.L. 27/2019.

Campo di applicazione

La normativa si applica alle relazioni commerciali tra acquirenti (compresa la pubblica amministrazione) e fornitori di prodotti agricoli e alimentari e in particolare ai contratti di cessione B2B di tali prodotti.

Sono esclusi i contratti in cui è parte un consumatore, le cessioni con contestuale pagamento e consegna del bene e i conferimenti di prodotti a cooperative o a organizzazioni di produttori ai sensi del D.Lgs. 102/2005.

La definizione di contratti di cessione è ampia e include, tra l’altro, i contratti di vendita, di somministrazione e di distribuzione.

Per prodotti agricoli e alimentari si intendono i beni elencati all’Allegato I del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nonché quelli non previsti in tale allegato ma che possono essere trasformati per uso alimentare a partire da essi. Sono compresi tutti i prodotti della filiera agroalimentare, freschi e trasformati, incluso il vino, oltre ad alcuni prodotti agricoli fuori dalla filiera alimentare, tra cui i mangimi per animali non destinati all’alimentazione umana e i prodotti della floricoltura.

La normativa si applica alle cessioni eseguite da fornitori stabiliti in Italia, mentre non ha rilevanza il paese in cui sia stabilito l’acquirente. Si applica qualsiasi sia la legge applicabile al rapporto fra le parti. Perciò la nuova disciplina si applica anche nel caso di rapporti contrattuali internazionali soggetti ad una normativa di altro paese.

Nel recepimento della direttiva, il legislatore italiano ha deciso di non tenere in considerazione le dimensioni delle parti: mentre la direttiva prevede soglie di fatturato e si applica ai rapporti contrattuali in cui l’acquirente ha un fatturato pari o superiore al fornitore, la normativa italiana si applica indipendentemente dal fatturato delle parti.

Così come ha fatto l’Italia, è possibile che i singoli Stati membri non si siano limitati a un mero recepimento delle previsioni UE, ma abbiano introdotto ulteriori disposizioni che potrebbero incidere in maniera significativa sulle relazioni commerciali.

Per le imprese che operano con l’estero sarà dunque importante comprendere come sia stata data attuazione alla direttiva UE nei vari paesi membri dell’Unione, soprattutto nel caso di gruppi con un’estesa operatività transfrontaliera, i quali si avvalgono solitamente di modelli contrattuali uniformi.

Requisiti contrattuali

L’art. 3 del decreto ha introdotto alcuni requisiti obbligatori dei contratti di cessione di prodotti agricoli e alimentari. Questi requisiti, adottati nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, sostituiscono, ampliandoli, quelli stabiliti dall’art. 62 del D.L. 1/2012 e dall’art. 10-quater del D.L. 27/2019 (che sono stati abrogati).

I contratti devono essere conformi ai principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni.

I contratti devono avere forma scritta. Sono ammesse forme equipollenti (documenti di trasporto, fatture e ordini di acquisto) solo se tra fornitore e acquirente è stato concluso un accordo quadro contenente gli elementi essenziali dei futuri contratti di cessione.

Di grande impatto è l’obbligo che i contratti abbiano una durata di almeno 12 mesi (i contratti di durata inferiore sono automaticamente prolungati alla durata minima). Il legislatore impone alle imprese della filiera (salvo alcune possibilità di deroga) di operare non con acquisti singoli ma con contratti di fornitura continuativi, che devono contenere indicazioni circa la quantità e le caratteristiche dei prodotti, il prezzo, la modalità di consegna e di pagamento.

È richiesto un notevole cambiamento operativo, per la necessità di programmare e contrattualizzare quantità e prezzi delle forniture. Per quanto riguarda il prezzo, non sembra più possibile concordarlo di volta in volta nel corso del rapporto, sulla base degli ordini o dei nuovi listini del fornitore. Il prezzo può essere fisso o determinabile secondo i criteri stabiliti nel contratto. Perciò le imprese che non vogliano operare a prezzo fisso, dovranno elaborare clausole contrattuali contenenti i criteri di determinazione del prezzo (ad esempio legandolo a quotazioni della borsa merci, a variazioni dei prezzi delle materie prime o dell’energia).

La durata minima di almeno 12 mesi può essere contrattualmente derogata. Ma la deroga deve essere motivata, per la stagionalità dei prodotti o per altri motivi che non sono specificati nel decreto. Tra gli altri motivi, potrebbe esservi la necessità per l’acquirente di far fronte a un imprevisto aumento della domanda, oppure la necessità di sostituire una fornitura venuta meno.

Le disposizioni sopra descritte possono essere derogate anche da accordi quadro stipulati dalle organizzazioni professionali maggiormente rappresentative.

Pratiche commerciali sleali vietate e deroghe specifiche

Il decreto prevede diverse fattispecie qualificate come pratiche commerciali sleali, alcune delle quali aggiuntive rispetto a quelle previste dalla direttiva.

L’art. 4 prevede due categorie di pratiche vietate, che recepiscono quelle della direttiva.

La prima riguarda le pratiche sempre vietate, tra le quali vi è anzitutto il pagamento del prezzo oltre i 30 giorni per i prodotti deperibili e oltre i 60 giorni per i prodotti non deperibili. Vi rientrano poi l’annullamento con scarso preavviso di ordini di prodotti deperibili; le modifiche unilaterali di determinate condizioni contrattuali; le richiesta di pagamenti non connessi alla vendita; le clausole contrattuali che obbligano il fornitore a farsi carico del deperimento o perdita dei prodotti dopo la consegna; il rifiuto di confermare per iscritto le condizioni contrattuali da parte dell’acquirente; l’acquisizione, utilizzazione e divulgazione di segreti commerciali del fornitore; la minaccia di ritorsioni commerciali da parte dell’acquirente verso il fornitore che intende esercitare diritti contrattualmente previsti e la richiesta di risarcimento dell’acquirente dei costi sostenuti per esaminare i reclami dei clienti relativi alla vendita di prodotti del fornitore.

La seconda categoria riguarda pratiche che sono vietate salvo siano previste in un accordo scritto fra le parti: in essa vi rientrano la restituzione dei prodotti invenduti senza corrispondere alcun pagamento per essi o per il loro smaltimento; le richieste al fornitore di pagamenti per immagazzinare, esporre, inserire nelle liste o per la messa in commercio dei prodotti; le richieste al fornitore di farsi carico dei costi relativi agli sconti, alla pubblicità, al marketing e al personale dell’acquirente incaricato di organizzare gli spazi destinati alla vendita dei prodotti.

L’art. 5 prevede ulteriori fattispecie sempre vietate, aggiuntive rispetto a quelle della direttiva, quali il ricorso a gare ed aste a doppio ribasso; l’imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente onerose per il fornitore; l’omissione nel contratto degli elementi indicati nell’art. 168, par. 4 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 (tra i quali prezzo, quantità, qualità, durata del contratto); l’imposizione diretta o indiretta di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per una delle parti; l’applicazione di condizioni diverse per prestazioni equivalenti; l’imposizione di prestazioni o servizi accessorie non connessi alla vendita dei prodotti; l’esclusione degli interessi moratori a danno del creditore o delle spese di recupero dei crediti; le clausole che impongono al fornitore un termine minimo dopo la consegna per poter emettere la fattura; l’imposizione del trasferimento ingiustificato del rischio economico su una delle parti; l’imposizione da parte del fornitore di prodotti con data di scadenza troppo brevi, del mantenimento di un determinato assortimento di prodotti, di inserimento di prodotti nuovi nell’assortimento e di posizioni privilegiate di determinati prodotti nei locali dell’acquirente.

Una disciplina specifica è prevista per la vendita sottocosto: l’art. 7 stabilisce che, per quanto riguarda i prodotti freschi e deperibili, questa pratica sia consentita solamente nei casi di prodotti invenduti a rischio deperibilità o nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta, mentre in caso di violazione di tale previsione il prezzo stabilito dalle parti è sostituito di diritto.

Sistema sanzionatorio e autorità di vigilanza

Le previsioni introdotte dal decreto, sia per quanto riguarda i requisiti contrattuali che le pratiche sleali, sono assistite da un articolato sistema sanzionatorio.

Sono nulle le clausole contrattuali o pattuizioni contrarie ai requisiti contrattuali obbligatori, quelle che integrano pratiche commerciali sleali e quelle contrarie alla disciplina delle vendite sottocosto.

È prevista una sanzione pecuniaria, specifica per ogni fattispecie, che viene determinata fra un minimo fisso (che, a seconda dei casi, può essere da 1.000 fino a 30.000 euro) ed un massimo variabile legato (tra il 3 ed il 5% al fatturato del trasgressore); si prevedono poi determinati casi nei quali la sanzione è ulteriormente aumentata.

In ogni caso sono fatte salve le azioni per il risarcimento del danno.

La vigilanza sul rispetto delle disposizioni previste dal decreto è rimessa all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), il quale può condurre indagini, eseguire ispezioni in loco senza preavviso, accertare le violazioni, imporre all’autore di porre fine alle pratiche vietate e avviare il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, fermo restando le competenze dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM).

Attività suggerite

Le previsioni introdotte dal decreto trovano applicazione anche ai contratti in corso, che dovranno essere resi conformi entro il 15 giugno 2022, dunque:

  • le imprese interessate, italiane ed estere, dovrebbero svolgere una ricognizione delle proprie prassi commerciali, dei contratti in corso e delle condizioni generali di fornitura e acquisto, per poi individuare gli eventuali gap rispetto alle nuove previsioni ed adottare i relativi correttivi.
  • considerando poi che la nuova normativa è di applicazione necessaria ed è di derivazione UE, per le imprese che fanno affari con l’estero sarà importante comprendere come sia stata data attuazione alla direttiva UE nei paesi in cui operano e verificare la conformità dei contratti anche a tali norme.

Una problematica di sempre maggiore impatto sul commercio internazionale post-Covid 19 è la gestione dei prezzi delle materie prime, che spesso l’impresa italiana si trova ad affrontare senza avere espressamente previsto la regolamentazione di questo elemento in un contratto scritto con il proprio fornitore.

Si genera così una situazione di incertezza, che è molto pericolosa.

Spesso accade che, a fronte di una richiesta di aumento del prezzo molto forte, si invochi la forza maggiore per sostenere di non essere in grado di adempiere al contratto, ma ciò è sbagliato perché si tratta di due situazioni molto diverse tra loro e vi è il rischio che il rifiuto di adempiere possa essere fonte di responsabilità contrattuale.

La situazione è ancor più delicata se, a fronte di una richiesta di aumento del prezzo da parte del proprio forniture straniero, l’impresa è vincolata da un accordo di vendita con prezzo fisso verso i propri clienti, e quindi non può scaricare sull’anello successivo della catena di fornitura l’aumento del prezzo praticato dai fornitori.

Grafico - Legalmondo

Per gestire le fluttuazioni dei prezzi di materie prime ed energia in modo consapevole è necessario avere le idee chiare e porre in essere comportamenti corretti, iniziando dalla verifica se i contratti  (con fornitori e clienti) prevedono una clausola di Hardship, ossia un meccanismo che prevede quando una parte si trova in una situazione di eccessiva onerosità sopravvenuta e quali sono le conseguenze sul contratto (diritto di rinegoziare il prezzo, di risolvere l’accordo o di nominare un terzo arbitratore che determini il nuovo prezzo della prestazione).

In questo video riassumo:

  • Che cosa è l’eccessiva onerosità sopravvenuta (Hardship)
  • Cos’è la forza maggiore
  • Quali sono gli effetti delle fluttuazioni delle materie prime sui contratti internazionali
  • Quali regole si applicano ad un contratto di vendita internazionale
  • Cosa prevede la legge italiana in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta
  • Cosa prevede la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili
  • Come regolare le fluttuazioni dei prezzi in un contratto

Le conclusioni sono:

  • La forte oscillazione del prezzo di materie prime ed energia non rende la prestazione impossibile, quindi non può essere invocata come causa di Forza Maggiore e non esonera da responsabilità contrattuale
  • I forti rialzi dei prezzi possono rappresentare una causa di eccessiva onerosità sopravvenuta solo se dovuti ad eventi straordinari ed imprevedibili, tra i quali è difficile far rientrare le fluttuazioni, anche molto ampie, delle materie prime
  • Il rimedio per neutralizzare il rischio di forti fluttuazioni dei prezzi è quello di prevedere nel contratto una clausola di hardship, ossia stabilire quando una parte può notificare all’altra di trovarsi in situazione di eccessiva onerosità sopravvenuta e azionare i meccanismi per riequilibrare le prestazioni oppure terminare l’accordo

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Riassunto – L’art. 44 del D.L. 16.7.2020 n. 76 (cosiddetto ‘Decreto Semplificazioni’) prevede che, fino al 30.6.2021, le operazioni di aumento del capitale da parte di società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata, possano essere deliberate con il voto favorevole della maggioranza del capitale sociale rappresentato in assemblea, a condizione che sia presente almeno la metà del capitale sociale, anche qualora lo statuto stabilisca maggioranze più elevate.

La norma ha un rilevante impatto sulla posizione dei soci (e investitori) di minoranza delle società italiane non quotate, la cui tutela è frequentemente affidata (anche) alle clausole statutarie che stabiliscono maggioranze qualificate per l’approvazione degli aumenti di capitale.

Descritta la norma, si svolgeranno alcune considerazioni sulle conseguenze e le possibili tutele per i soci di minoranza, limitatamente alle società non quotate.


Decreto Semplificazioni: la diminuzione delle maggioranze per l’approvazione degli aumenti di capitale nelle società per azioni, nelle società in accomandita per azioni e nelle società a responsabilità  limitata italiane

L’art. 44 del D.L. 16.7.2020 n. 76 (cosiddetto ‘Decreto Semplificazioni’)[1] ha diminuito in via temporanea, sino al 30.6.2021, le maggioranze per l’approvazione da parte dell’assemblea straordinaria di alcune deliberazioni di aumento del capitale sociale.

La norma riguarda tutte le società di capitali, comprese quelle quotate. Si applica alle deliberazioni dell’assemblea straordinaria aventi ad oggetto:

  • gli aumenti di capitale mediante conferimenti in danaro, di beni in natura o di crediti, ai sensi degli artt. 2439, 2440 e 2441 c.c. (relativi alle società per azioni e alle società in accomandita per azioni) e degli artt. 2480, 2481 e 2481-bis c.c. (relativi alle società a responsabilità limitata);
  • l’attribuzione agli amministratori della facoltà di aumentare il capitale, ai sensi dell’art. 2443 c.c. (relativo alle società per azioni e alle società in accomandita per azioni) e dell’art. 2480 c.c. (relativo alle società a responsabilità limitata).

La disciplina ordinaria prevede, per le deliberazioni sopra indicate, le seguenti maggioranze:

  • per le società per azioni e le società in accomandita per azioni: (i) in prima convocazione una maggioranza deliberativa di più della metà del capitale sociale (art. 2368, secondo comma, c.c.); (ii) in seconda convocazione una maggioranza deliberativa dei due terzi del capitale sociale rappresentato in assemblea (art. 2369, terzo comma, c.c.);
  • per le società a responsabilità limitata, una maggioranza deliberativa di più della metà del capitale sociale (art. 2479-bis, terzo comma, c.c.);
  • per le società quotate una maggioranza deliberativa dei due terzi del capitale sociale rappresentato in assemblea (art. 2368, secondo comma e art. 2369, terzo comma, c.c.).

Soprattutto, la disciplina ordinaria consente di stabilire nello statuto maggioranze costitutive e deliberative qualificate, cioè più elevate di quelle di legge.

La disciplina temporanea dell’art. 44 del Decreto Semplificazioni prevede che le deliberazioni siano approvate con il voto favorevole della maggioranza del capitale rappresentato in assemblea, a condizione che sia presente almeno la metà del capitale sociale. Questa maggioranza sia applica anche qualora lo statuto preveda maggioranze più elevate.

Decreto Semplificazioni: l’impatto della diminuzione delle maggioranze per l’approvazione degli aumenti di capitale sui soci di minoranza delle società non quotate italiane

La norma ha un rilevante impatto sulla posizione dei soci (e investitori) di minoranza delle società italiane non quotate. È fortemente criticabile, in particolare nella parte in cui consente di derogare alle maggioranze più elevate stabilite nello statuto, perché incide sui rapporti in corso e sugli equilibri concordati tra i soci e riflessi nello statuto.

Le maggioranze qualificate, più elevate di quelle di legge, per l’approvazione degli aumenti di capitale sono una tutela fondamentale per i soci (e gli investitori) di minoranza. Vengono frequentemente introdotte nello statuto: in sede di costituzione della società con più soci, nell’ambito di operazioni di aggregazione, in operazioni di investimento, di private equity e di venture capital.

Le maggioranze qualificate impediscono ai soci di maggioranza di realizzare senza il consenso dei soci di minoranza (o di alcuni di essi), operazioni che hanno un impatto rilevante sulla società e sulla posizione dei soci di minoranza. Infatti, gli aumenti di capitale mediante conferimenti di beni riducono la percentuale di partecipazione del socio di minoranza e possono modificare significativamente l’attività della società (ad esempio, con il conferimento di azienda). Gli aumenti di capitale in denaro mettono il socio di minoranza di fronte all’alternativa tra investire ulteriormente nella società o ridurre la propria partecipazione.

La riduzione della percentuale di partecipazione può implicare la perdita di importanti tutele, connesse al possesso di una partecipazione superiore a una determinata soglia. Si tratta non solo di alcuni diritti previsti dalla legge in favore dei soci di minoranza[2], ma – con effetti ancora più gravi – delle tutele derivanti dalle maggioranze qualificate previste nello statuto per l’assunzione di determinate decisioni. Il caso più eclatante è quello della maggioranza qualificata per le deliberazioni che modificano lo statuto sociale, affinché le modifiche non possano essere approvate senza il consenso dei soci di minoranza (o di alcuni di essi). Questa è una clausola fondamentale, per assicurare stabilità alle disposizioni statutarie, concordate tra i soci, a tutela del socio o dei soci di minoranza, quali ad esempio i diritti di prelazione e co-vendita, il voto di lista per la nomina del consiglio di amministrazione, le maggioranze qualificate per l’assunzione di decisioni dell’assemblea o del consiglio di amministrazione, i limiti ai poteri delegabili dal consiglio di amministrazione. Attraverso l’aumento di capitale, la maggioranza può ottenere una percentuale di partecipazione che le consenta di modificare lo statuto, scardinando unilateralmente l’assetto di governance concordato con gli altri soci.

Il legislatore si è disinteressato di tutto questo e ha introdotto una norma che non semplifica. Piuttosto alimenta i conflitti tra i soci e mina la certezza del diritto, così allontanando gli investimenti anziché incentivarli.

Decreto Semplificazioni: verifiche e tutele per i soci di minoranza rispetto alla diminuzione delle maggioranze per l’approvazione degli aumenti di capitale

Per valutare la situazione e le tutele del socio di minoranza occorre esaminare l’eventuale patto parasociale vigente tra i soci. L’esistenza di un patto parasociale sarà pressoché certa in operazioni di private equity o venture capital o da parte di altri investitori professionali. Ma al di fuori di questi casi sono tantissime le società, specialmente tra le piccole e medie imprese, in cui i rapporti tra i soci sono disciplinati esclusivamente dallo statuto.

Nel patto parasociale dovrà essere verificato se vi siano clausole che obblighino i soci, quali parti del patto, ad approvare gli aumenti di capitale con maggioranza qualificata, cioè più elevata di quelle di legge. Oppure se il patto richiami  un testo di statuto (allegandolo o attraverso un rinvio specifico) che preveda tale maggioranza, cosicché si possa ritenere che il rispetto della maggioranza qualificata costituisca una obbligazione assunta dalle parti del patto parasociale.

In questo caso, il patto parasociale tutelerà il socio o i soci di minoranza, in quanto l’art. 44 del Decreto Semplificazioni non introduce una deroga alle clausole del patto parasociale.

La tutela offerta dal patto parasociale è forte, ma inferiore rispetto a quella dello statuto. La clausola dello statuto che prevede una maggioranza qualificata vincola tutti i soci e la società, pertanto l’aumento del capitale non può essere validamente approvato in violazione dello statuto. Il patto parasociale, invece, ha efficacia solo obbligatoria (tra le parti del patto), per cui non impedisce l’approvazione da parte della società dell’aumento del capitale, anche qualora il voto del socio violi le obbligazioni del patto parasociale. In questo caso, gli altri soci avranno il diritto al risarcimento del danno subito in conseguenza della violazione del patto.

In assenza di un patto parasociale che obblighi i soci a rispettare una maggioranza qualificata per l’approvazione dell’aumento del capitale, al socio di minoranza resta unicamente la possibilità di impugnare la delibera di aumento del capitale, per vizio di abuso di maggioranza, qualora la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società e il voto del socio di maggioranza persegua un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale, ovvero qualora sia lo strumento di una attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a ledere i diritti dei soci di minoranza[3]. Strada molto in salita e tutela certamente insufficiente.

[1] Il Decreto Semplificazioni è stato convertito in legge dalla L. 11 settembre 2020, n. 120. La legge di conversione ha sostituito l’art. 44 del Decreto Semplificazioni, estendendo la disciplina temporanea ivi prevista agli aumenti di capitale in denaro e agli aumenti di capitale delle società a responsabilità limitata.

[2] Ad esempio: la percentuale del 10% (33% per le società a responsabilità limitata) per il diritto dei soci di ottenere la convocazione dell’assemblea (art. 2367, c.c.; art. 2479, c.c.); la percentuale del 20% (10% per le società a responsabilità limitata) per impedire la rinuncia o la transazione dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 2393, comma sesto, c.c.; art. 2476, comma quinto, c.c.); la percentuale del 20% per l’esercizio da parte del socio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 2393-bis, c.c.).

[3]  Cass. Civ. 12 dicembre 2005, n. 27387; Trib. Roma, 31 marzo 2017, n. 6452.

In 2019 the Private Equity and Venture Capital players have invested Euro 7,223 million in 370 transactions in the Italian Market, 26% less than 2018; these are the outcomes released on March 24th by AIFI (Italian Association of Private Equity, Venture Capital e Private Debt).

In this slowing down scenario the spreading of Covid-19 is impacting Private Equity and Venture Capital transactions currently in progress, thus raising implications and alerts that will considerably affect both further capital investments and the legal approach to investments themselves.

Companies spanning a wide range of industries are concerned by Covid-19 health emergency, with diverse impacts on businesses depending on the industry. In this scenario, product companies, direct-to-consumer companies, and retail-oriented businesses appear to be more affected than service, digital, and hi-tech companies. Firms and investors will both need to batten down the hatches, as to minimize the effects of the economic contraction on the on-going investment transactions. In this scenario, investors hypothetically backing off from funding processes represent an issue of paramount concern for start-ups, as these companies are targeted by for VC and PE investments. In that event, the extent of the risk would be dependent upon the investment agreements and share purchase agreements (SPAs) entered into and the term sheets approved by the parties.

MAC/MAE clauses

The right of investors to withdrawal (way out) from a transaction is generally secured by the so-called MAC or MAE clauses – respectively, material adverse change clause or material adverse effect. These clauses, as the case may be and in the event of unforeseeable circumstances, upon the subscription of the agreements, which significantly impact the business or particular variables of the investment, allow investors to decide not to proceed to closing, not to proceed to the subscription and the payment of the share capital increase, when previously resolved, to modify/renegotiate the enterprise value, or to split the proposed investment/acquisition into multiple tranches.

These estimates, in terms of type and potential methods of application of the clauses, usually depend on a number of factors, including the governing law for the agreements – if other than Italian – with this circumstance possibly applying in the case of foreign investors imposing the existing law in their jurisdiction, as the result of their position in the negotiation.

When the enforcement of MAC/MAE clauses leads to the modification/renegotiation of the enterprise value – that is to be lowered – it is advisable to provide for specific contract terms covering calculating mechanisms allowing for smoothly redefining the start-up valuation in the venture capital deals, with the purpose of avoiding any gridlocks that would require further involvement of experts or arbitrators.

In the absence of MAC/MAE clauses and in the case of agreements governed by the Italian law, the Civil Code provides for a contractual clause called ‘supervenient burdensomeness’ (eccessiva onerosità sopravvenuta) of a specific performance (i.e. the investment), with the consequent right for the party whose performance has become excessively burdensome to terminate the contract or to make changes to the contract, with a view to fair and balanced conditions – this solution however implies an inherent degree of complexity and cannot be instantly implemented. In case of agreements governed by foreign laws, it shall be checked whether or not the applicable provisions allow the investor to exit the transaction.

Interim Period clauses

MAC/MAE are generally negotiated when the time expected to closing is medium or long. Similarly, time factors underpin the concept of the Interim Period clauses regulating the business operation in the period between signing and closing, by re-shaping the company’s ordinary scope of business, i.e. introducing maximum expenditure thresholds and providing for the prohibition to execute a variety of transactions, such as capital-related transactions, except when the investors, which shall be entitled to remove these restrictions from time to time, agree otherwise.

It is recommended to ascertain that the Interim Period clauses provide for a possibility to derogate from these restrictions, following prior authorization from the investors, and that said clauses do not require, where this possibility is lacking, for an explicit modification to the provision because of the occurrence of any operational need due to the Covid-19 emergency.

Conditions for closing

The Government actions providing for measures to contain coronavirus have caused several slowdowns that may impact on the facts or events that are considered as preliminary conditions which, when occurring, allow to proceed to closing. Types of such conditions range from authorisations to public entities (i.e. IPs jointly owned with a university), to the achievement of turnover objectives or the completion of precise milestones, that may be negatively affected by the present standstill of companies and bodies. Where these conditions were in fact jeopardised by the events triggered by the Covid-19 outbreak, this would pose important challenges to closing, except where expressly provided that the investor can renounce, with consent to proceed to the investment in all cases. This is without prejudice to the possibility of renegotiating the conditions, in agreement with all the parties.

Future investments: best practice

Covid-19 virus related emergency calls for a change in the best practice of Private Equity and Venture Capital transactions: these should carry out detailed Due diligences on aspects which so far have been under-examined.

This is particularly true for insurance policies covering cases of business interruption resulting from extraordinary and unpredictable events; health insurance plans for employees; risk management procedures in supply chain contracts, especially with foreign counterparts; procedures for smart working and relevant GDPR compliance issues in case of targeted companies based in EU and UK; contingency plans, workplace safety, also in connection with the protocols that ensure ad-hoc policies for in-house work.

Investment protection should therefore also involve MAC/MAE clauses and relevant price adjustment mechanisms, including for the negotiation of contract-related warranties (representation & warranties). A special focus shall be given now, with a different approach, to the companies’ ability to tackle and minimize the risks that may arise from unpredictable events of the same scope as Covid-19, which is now affecting privacy systems, the workforce, the management of supply chain contracts, and the creditworthiness of financing agreements.

This emergency will lead investors to value the investments with even greater attention to information, other than financial ones, about targeted companies.

Indeed, it is mandatory today to gain overview on the resilience of businesses, in terms of structure and capability, when these are challenged by the exogenous variables of the market on the one side, and by the endogenous variables on the other side – to be now understood as part of the global economy.

There is however good news: Venture Capital and Private Equity, like any other ecosystem, will have its own response capacity and manage to gain momentum, as it happened in 2019 when Italy witnessed an unprecedented increase in investments. The relevant stakeholders are already developing coping strategies. Transactions currently in progress are not halted – though slowed down. Indeed, the quarantine does not preclude negotiations or shareholders’ meetings, which are held remotely or by videoconference. This also helps dispel the notion that meetings can only be conducted by getting the parties concerned round the same table.

The author of this post is Milena Prisco.

Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

Il ruolo di Amazon

La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

La decisione della Corte di Giustizia UE

Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

  • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
  • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
  • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

Conclusioni

Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

  • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
  • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
  • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
  • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

Consigli pratici

Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

  1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
  2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
  3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
  4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
  5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

Christian Montana

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    Memorandum of Understanding vs. Non Disclosure Agreement (NDA)

    30 Gennaio 2023

    • Italia
    • Contratti

    Riassunto

    Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
    Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
    Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
    Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

    Di cosa parlo in questo articolo: 

    • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
    • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
    • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
    • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
    • La durata del contratto di distribuzione all’estero
    • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
    • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
    • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
    • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
    • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

    La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

    Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

    Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

    phil

    Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

    La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

    La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

    Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

    niketiger

    Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

    A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

    Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

    Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

    Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

    Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

    Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

    Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

    Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

    Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

    Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

    Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

    L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

    Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

    Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

    Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

    La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

    In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

    Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

    In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

    Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

    Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

    In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

    Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

    Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

    Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

    Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

    Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

    Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

    In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

    Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

    E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

    Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

    Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

    Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

    L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

    Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

    Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

    In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

    Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

    Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

    L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

    Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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    Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

    Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

    E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

    Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

    Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

    La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

    Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

    Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

    Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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    Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

    È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

    Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

    I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

    È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

    Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

    La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

    La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

    Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

    Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

    La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

    I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

    Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

    La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

    Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

     Le modalità di risoluzione delle controversie

    Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

    Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

    Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

    Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

    Come possiamo aiutarti

    La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

    È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

    Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 63 paesi: scrivici la tua esigenza.

     

    Un caso deciso di recente dalla Corte di Cassazione italiana chiarisce quali sono i rischi per chi vende i propri prodotti all’estero senza avere posto adeguata attenzione alla parte legale del contratto (Ordinanza, Sez. 2, n.36144 del 2022, pubblicata il 12.12.2022).

    Perché è importante: nei contratti occorre fare attenzione non solo a ciò che si scrive, ma anche a ciò che non è scritto, altrimenti vi è il rischio che si applichino garanzie implicite di commerciabilità, che possono rendere il prodotto inadatto all’uso, anche se è conforme alle specifiche tecniche pattuire nel contratto.

    Il contratto di vendita internazionale e la decisione di primo grado

    Una società tedesca aveva convenuto in giudizio in Italia (Tribunale di Chieti) una società italiana per ottenere la sua condanna al pagamento del prezzo di vendita di due fatture per forniture di merce (acciaio).

    La società italiana acquirente si era difesa affermando che le due fatture non erano state deliberatamente pagate, a causa della non conformità di tre precedenti forniture della stessa venditrice tedesca. Chiedeva quindi in via riconvenzionale l’accertamento dei difetti e la riduzione del prezzo, da compensare con il credito della controparte, oltre al risarcimento del danno.

    In primo grado, il Tribunale di Chieti aveva accolto parzialmente sia la domanda di pagamento della venditrice tedesca (per circa la metà del credito) sia la riconvenzionale dell’acquirente.

    La consulenza tecnica d’ufficio aveva rilevato che l’acciaio fornito dalla venditrice, pur conforme alla scheda tecnica concordata, presentava un valore molto basso di silicio rispetto ai valori all’acciaio di altri produttori; tuttavia, il giudice di primo grado escludeva si trattasse di un vero e proprio vizio.

    Il giudizio d’appello

    La Corte d’Appello di L’Aquila, adita in secondo grado dall’acquirente, era giunta ad una conclusione diversa rispetto al Tribunale di primo grado, riducendo sensibilmente l’importo a debito dell’acquirente italiana, per le seguenti ragioni:

    • si applicava il regime delle “garanzie implicite” di cui all’art.35 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci dell’11.4.80 (“CISG”, ratificata sia in Italia che in Germania), in quanto le sue società avevano sede d’affari in due Paesi diversi, entrambi parte della Convenzione;
    • in particolare, la composizione chimica dell’acciaio fornito dalla venditrice, pur non costituendo un “vizio” del prodotto (ovvero un’anomalia o imperfezione) doveva comunque considerarsi “mancanza di conformità” ai sensi degli artt.35, secondo comma lett.a) e dell’art.36 comma 1 della CISG, in quanto rendeva l’acciaio inadatto all’uso a cui servirebbero abitualmente merci dello stesso genere (anche nota come “garanzia di commerciabilità”).

    La sentenza della Corte di Cassazione

    La venditrice tedesca ricorreva quindi in Cassazione contro la pronuncia della Corte d’Appello, affermando in sintesi che, secondo la CISG, la conformità o meno della merce deve valutarsi rispetto a quanto pattuito nel contratto fra le parti; e che la “garanzia di commerciabilità” dovrebbe applicarsi solo in assenza di un preciso accordo delle parti sulle caratteristiche che deve avere il prodotto.

    Tuttavia, prosegue la difesa della venditrice, in questo caso l’acquirente italiana aveva inviato una scheda tecnica comprensiva di una tabella riassuntiva dei vari elementi chimici, dove si dichiarava che il silicio dovesse essere presente in una percentuale non superiore allo 0,45, senza però indicare alcuna percentuale minima.

    Dunque, il fatto che la percentuale di silicio fosse sensibilmente inferiore rispetto a quella presente mediamente nell’acciaio di altri fornitori non poteva considerarsi un difetto di conformità, in quanto, nella fase di negoziazione del contratto, le parti scambiandosi la scheda tecnica avevano espressamente concordato solo i valori massimi, quindi non considerando rilevanti ai fini della conformità i valori minimi.

    La Corte di Cassazione tuttavia dissente da questo ragionamento e in sostanza conferma la sentenza della Corte d’Appello, rigettando il ricorso della venditrice tedesca.

    La Corte ricorda che, ai sensi dell’art.35 primo comma della CISG, il venditore deve consegnare merci la cui quantità, qualità e genere corrispondono a quelli previsti dal contratto ed il cui imballaggio e confezione corrispondono a quelli previsti dal contratto; e che, per il secondo comma “a meno che le parti non convengano altrimenti, le merci sono conformi al contratto solo se: a) sono atte agli usi ai quali servirebbero abitualmente merci dello stesso genere”.

    Altre garanzie sono enumerate nelle lettere da b) a d) della stessa norma[1]. Esse vengono comunemente definite nell’insieme come “garanzie implicite”.

    La Corte osserva che le garanzie in questione, inclusa quella di “commerciabilità” appena richiamata, non si pongono in via subordinata o sussidiaria rispetto ai patti contrattuali; al contrario, esse si applicano se non vengono espressamente escluse dalle parti.

    Ne consegue che, secondo la Corte di Cassazione, l’eventuale volontà delle parti di un contratto di vendita di disapplicare la garanzia di commerciabilità deve “risultare da una specifica previsione concordata tra le parti”.

    Nella fattispecie, per quanto la scheda tecnica che faceva parte degli accordi contrattuali fosse analitica ed avesse compreso fra le caratteristiche chimiche del materiale anche la percentuale di silicio, il fatto che fosse indicata solo una percentuale massima e non anche quella minima non valeva ad escludere che, in virtù della “garanzia implicita” di commerciabilità, la percentuale minima dovesse comunque essere conforme a quella media dei prodotti analoghi esistenti sul mercato.

    Poiché la “garanzia di commerciabilità” non era stata espressamente esclusa fra le parti con un’apposita clausola contrattuale, la conformità della merce al contratto doveva comunque valutarsi anche in considerazione di tale garanzia implicita.

    Conclusioni

    Cosa devono tenere presente le imprese che vendono all’estero?

    • Nei contratti di vendita di merce fra imprese che hanno la propria sede in due Paesi diversi, si applica in molti casi automaticamente la CISG, in prevalenza rispetto alla legge interna del Paese del venditore o di quella dell’acquirente.
    • La CISG contiene norme molto importanti per i rapporti fra venditori ed acquirenti, sulle garanzie di conformità della merce al contratto e sui rimedi dell’acquirente in caso di violazione delle garanzie.
    • Si possono modificare o addirittura escludere queste norme redigendo adeguati contratti o condizioni generali per iscritto.
    • Le parti possono concordare di non applicare tutte o alcune delle “garanzie implicite” (eventualmente sostituendole con garanzie contrattuali) così come possono escludere determinati rimedi (ad esempio, escludere o limitare la responsabilità per danni, entro certi limiti). Tuttavia, devono farlo con clausole chiare ed esplicite.
    • Perché non si applichi la “garanzia di commerciabilità”, secondo il ragionamento della Suprema Corte italiana, non basta limitarsi a non menzionarla nel contratto.
    • Non è sufficiente allegare al contratto una descrizione analitica delle caratteristiche della merce per escludere che certe caratteristiche non menzionate, ma tuttavia presenti in prodotti analoghi di altri produttori, che possono essere utilizzate come parametro per la conformità della merce.
    • E’ necessario, invece, inserire nel contratto una clausola che escluda espressamente questo tipo di garanzia.

    In altre parole, nei contratti occorre fare attenzione non solo a ciò che si scrive, ma anche a ciò che non è scritto.

    Questo caso dimostra ancora una volta l’importanza di redigere un contratto adeguato e completo non solo dal punto di vista commerciale, tecnico, finanziario, ma anche dal punto di vista legale, avvalendosi della competenza di un avvocato esperto dei contratti commerciali internazionali.

    Infine, è importante non trascurare le clausole di legge applicabile e di giurisdizione. Di questi aspetti purtroppo spesso non ci si avvede, anche in trattative di grande valore, considerando queste clausole poco importanti o addirittura bloccanti per la negoziazione, salvo poi pentirsene quando sorge un contenzioso o anche semplicemente minacciato. Vedi qui un approfondimento.

    Molti pensano che l’accordo di riservatezza sia la prima e unica cautela necessaria in un negoziato. Questo è sbagliato, perché questo accordo riguarda solo una parte della relazione commerciale che le parti vogliono discutere o gestire.

    Perché è importante

    La funzione del Non-Disclosure-Agreement è quella di mantenere riservate certe informazioni che le parti intendono scambiare e impedire che vengano usate per fini diversi da quelli pattuiti. Esistono però molti aspetti del negoziato che non sono disciplinati nel NDA.

    Le principali questioni che è bene concordare per iscritto sono le seguenti:

    • perché le parti vogliono scambiarsi le informazioni?
    • qual è l’obiettivo finale che si vuole conseguire?
    • Su quali punti generali le parti sono già d’accordo?
    • quanto durerà il negoziato?
    • chi parteciperà alle trattative? Con quali poteri?
    • quali documenti e informazioni verranno condivisi?
    • si vogliono prevedere obblighi di esclusiva e/o di non concorrenza durante e dopo il negoziato?
    • quale legge si applica alle trattative e quali sono le modalità di risoluzione delle eventuali controversie?

    Se non si dà risposta a queste domande, c’è il rischio che con il passare del tempo possano insorgere malintesi e controversie, specie in negoziati lunghi e complessi con controparti straniere.

    Come procedere?

    • È consigliabile che i patti sopra indicati siano raccolti in una Lettera di intenti (“LoI”) o Memorandum of Understanding (“MoU”). Si tratta di accordi preliminari, che hanno proprio la funzione di determinare il perimetro del futuro negoziato, la tempistica, e le regole da osservare durante e dopo le trattative.

    Obiezione frequente

    “Sono contratti non vincolanti, che senso hanno se poi le parti sono libere di non rispettarli”?

    • Si può prevedere che alcuni patti siano vincolanti (esclusiva durante il negoziato, non concorrenza, modalità di risoluzione delle controversie), ed altri no (con libertà di concludere o meno l’accordo)
    • In ogni caso avere concordato la road map delle trattative è un vantaggio rispetto ad operare senza avere fissato le linee principali del negoziato

    Cosa accade se non si trova l’accordo?

    • Il MoU solitamente prevede in modo espresso che ciascuna parte resta libera di non finalizzare la trattativa, a condizione che durante i negoziati si comporti in buona fede e preservi i diritti dell’altra.
    • Va tenuto presente che in caso di interruzione prematura o immotivata delle trattative di una parte, l’altra può avere diritto al risarcimento dei danni (c.d. responsabilità pre-contrattuale), se ciò è previsto nell’accordo e/o dalla legge applicabile al contratto

    Il NDA, dunque, quando va concluso?

    • Può essere firmato contestualmente a, o immediatamente dopo il Memorandum of Understanding / Lettera di Intenti, in modo che la determinazione delle informazioni riservate, delle modalità del loro utilizzo, della durata degli obblighi di confidenzialità, etc. siano definite in modo coerente con il progetto che le parti hanno concordato.

    Per saperne di più sul contenuto del NDA, vedi questo articolo.

    Riassunto

    Con il D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 198 l’Italia ha dato attuazione alla Direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese (B2B) nella filiera agricola e alimentare. Il legislatore italiano ha introdotto regole più stringenti di quelle previste dalla direttiva. Inoltre, ha previsto alcuni requisiti contrattuali obbligatori, nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, ma più restrittivi di quelli del Regolamento. Le nuove disposizioni si applicano qualunque sia la legge applicabile al contratto e qualunque sia il paese dell’acquirente, quindi riguardano anche i rapporti transfrontalieri. Hanno un impatto significativo sui rapporti contrattuali relativi alla filiera dei prodotti alimentari, freschi e trasformati, compreso il vino, e di alcuni prodotti agricoli non alimentari, e richiedono alle imprese dei settori coinvolti di rivedere i propri contratti e le proprie prassi operative nei rapporti con clienti e fornitori.

    Le previsioni introdotte dal decreto trovano applicazione anche ai contratti in corso, che dovranno essere resi conformi entro il 15 giugno 2022.

    Introduzione

    Con la Direttiva (UE) 2019/633 il legislatore dell’Unione ha introdotto una serie dettagliata di pratiche commerciali sleali relative ai rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, con la finalità di contrastare le pratiche commerciali squilibrate imposte dai contraenti forti. La direttiva è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 198 (entrato in vigore il 15 dicembre 2021) che ha introdotto un lungo elenco di previsioni qualificate come pratiche commerciali sleali nell’ambito dei rapporti fra le imprese nella filiera agricola e alimentare. L’elenco delle pratiche sleali è più numeroso di quelle previste dalla direttiva UE.

    Il recepimento della direttiva è stato l’occasione, poi, per introdurre alcuni requisiti obbligatori dei contratti di cessione dei beni rientranti nell’ambito di applicazione del decreto. Questi requisiti, adottati nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, sostituiscono, ampliandoli, quelli previsti dall’art. 62 del D.L. 1/2012 e dall’art. 10-quater del D.L. 27/2019.

    Campo di applicazione

    La normativa si applica alle relazioni commerciali tra acquirenti (compresa la pubblica amministrazione) e fornitori di prodotti agricoli e alimentari e in particolare ai contratti di cessione B2B di tali prodotti.

    Sono esclusi i contratti in cui è parte un consumatore, le cessioni con contestuale pagamento e consegna del bene e i conferimenti di prodotti a cooperative o a organizzazioni di produttori ai sensi del D.Lgs. 102/2005.

    La definizione di contratti di cessione è ampia e include, tra l’altro, i contratti di vendita, di somministrazione e di distribuzione.

    Per prodotti agricoli e alimentari si intendono i beni elencati all’Allegato I del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nonché quelli non previsti in tale allegato ma che possono essere trasformati per uso alimentare a partire da essi. Sono compresi tutti i prodotti della filiera agroalimentare, freschi e trasformati, incluso il vino, oltre ad alcuni prodotti agricoli fuori dalla filiera alimentare, tra cui i mangimi per animali non destinati all’alimentazione umana e i prodotti della floricoltura.

    La normativa si applica alle cessioni eseguite da fornitori stabiliti in Italia, mentre non ha rilevanza il paese in cui sia stabilito l’acquirente. Si applica qualsiasi sia la legge applicabile al rapporto fra le parti. Perciò la nuova disciplina si applica anche nel caso di rapporti contrattuali internazionali soggetti ad una normativa di altro paese.

    Nel recepimento della direttiva, il legislatore italiano ha deciso di non tenere in considerazione le dimensioni delle parti: mentre la direttiva prevede soglie di fatturato e si applica ai rapporti contrattuali in cui l’acquirente ha un fatturato pari o superiore al fornitore, la normativa italiana si applica indipendentemente dal fatturato delle parti.

    Così come ha fatto l’Italia, è possibile che i singoli Stati membri non si siano limitati a un mero recepimento delle previsioni UE, ma abbiano introdotto ulteriori disposizioni che potrebbero incidere in maniera significativa sulle relazioni commerciali.

    Per le imprese che operano con l’estero sarà dunque importante comprendere come sia stata data attuazione alla direttiva UE nei vari paesi membri dell’Unione, soprattutto nel caso di gruppi con un’estesa operatività transfrontaliera, i quali si avvalgono solitamente di modelli contrattuali uniformi.

    Requisiti contrattuali

    L’art. 3 del decreto ha introdotto alcuni requisiti obbligatori dei contratti di cessione di prodotti agricoli e alimentari. Questi requisiti, adottati nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, sostituiscono, ampliandoli, quelli stabiliti dall’art. 62 del D.L. 1/2012 e dall’art. 10-quater del D.L. 27/2019 (che sono stati abrogati).

    I contratti devono essere conformi ai principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni.

    I contratti devono avere forma scritta. Sono ammesse forme equipollenti (documenti di trasporto, fatture e ordini di acquisto) solo se tra fornitore e acquirente è stato concluso un accordo quadro contenente gli elementi essenziali dei futuri contratti di cessione.

    Di grande impatto è l’obbligo che i contratti abbiano una durata di almeno 12 mesi (i contratti di durata inferiore sono automaticamente prolungati alla durata minima). Il legislatore impone alle imprese della filiera (salvo alcune possibilità di deroga) di operare non con acquisti singoli ma con contratti di fornitura continuativi, che devono contenere indicazioni circa la quantità e le caratteristiche dei prodotti, il prezzo, la modalità di consegna e di pagamento.

    È richiesto un notevole cambiamento operativo, per la necessità di programmare e contrattualizzare quantità e prezzi delle forniture. Per quanto riguarda il prezzo, non sembra più possibile concordarlo di volta in volta nel corso del rapporto, sulla base degli ordini o dei nuovi listini del fornitore. Il prezzo può essere fisso o determinabile secondo i criteri stabiliti nel contratto. Perciò le imprese che non vogliano operare a prezzo fisso, dovranno elaborare clausole contrattuali contenenti i criteri di determinazione del prezzo (ad esempio legandolo a quotazioni della borsa merci, a variazioni dei prezzi delle materie prime o dell’energia).

    La durata minima di almeno 12 mesi può essere contrattualmente derogata. Ma la deroga deve essere motivata, per la stagionalità dei prodotti o per altri motivi che non sono specificati nel decreto. Tra gli altri motivi, potrebbe esservi la necessità per l’acquirente di far fronte a un imprevisto aumento della domanda, oppure la necessità di sostituire una fornitura venuta meno.

    Le disposizioni sopra descritte possono essere derogate anche da accordi quadro stipulati dalle organizzazioni professionali maggiormente rappresentative.

    Pratiche commerciali sleali vietate e deroghe specifiche

    Il decreto prevede diverse fattispecie qualificate come pratiche commerciali sleali, alcune delle quali aggiuntive rispetto a quelle previste dalla direttiva.

    L’art. 4 prevede due categorie di pratiche vietate, che recepiscono quelle della direttiva.

    La prima riguarda le pratiche sempre vietate, tra le quali vi è anzitutto il pagamento del prezzo oltre i 30 giorni per i prodotti deperibili e oltre i 60 giorni per i prodotti non deperibili. Vi rientrano poi l’annullamento con scarso preavviso di ordini di prodotti deperibili; le modifiche unilaterali di determinate condizioni contrattuali; le richiesta di pagamenti non connessi alla vendita; le clausole contrattuali che obbligano il fornitore a farsi carico del deperimento o perdita dei prodotti dopo la consegna; il rifiuto di confermare per iscritto le condizioni contrattuali da parte dell’acquirente; l’acquisizione, utilizzazione e divulgazione di segreti commerciali del fornitore; la minaccia di ritorsioni commerciali da parte dell’acquirente verso il fornitore che intende esercitare diritti contrattualmente previsti e la richiesta di risarcimento dell’acquirente dei costi sostenuti per esaminare i reclami dei clienti relativi alla vendita di prodotti del fornitore.

    La seconda categoria riguarda pratiche che sono vietate salvo siano previste in un accordo scritto fra le parti: in essa vi rientrano la restituzione dei prodotti invenduti senza corrispondere alcun pagamento per essi o per il loro smaltimento; le richieste al fornitore di pagamenti per immagazzinare, esporre, inserire nelle liste o per la messa in commercio dei prodotti; le richieste al fornitore di farsi carico dei costi relativi agli sconti, alla pubblicità, al marketing e al personale dell’acquirente incaricato di organizzare gli spazi destinati alla vendita dei prodotti.

    L’art. 5 prevede ulteriori fattispecie sempre vietate, aggiuntive rispetto a quelle della direttiva, quali il ricorso a gare ed aste a doppio ribasso; l’imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente onerose per il fornitore; l’omissione nel contratto degli elementi indicati nell’art. 168, par. 4 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 (tra i quali prezzo, quantità, qualità, durata del contratto); l’imposizione diretta o indiretta di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per una delle parti; l’applicazione di condizioni diverse per prestazioni equivalenti; l’imposizione di prestazioni o servizi accessorie non connessi alla vendita dei prodotti; l’esclusione degli interessi moratori a danno del creditore o delle spese di recupero dei crediti; le clausole che impongono al fornitore un termine minimo dopo la consegna per poter emettere la fattura; l’imposizione del trasferimento ingiustificato del rischio economico su una delle parti; l’imposizione da parte del fornitore di prodotti con data di scadenza troppo brevi, del mantenimento di un determinato assortimento di prodotti, di inserimento di prodotti nuovi nell’assortimento e di posizioni privilegiate di determinati prodotti nei locali dell’acquirente.

    Una disciplina specifica è prevista per la vendita sottocosto: l’art. 7 stabilisce che, per quanto riguarda i prodotti freschi e deperibili, questa pratica sia consentita solamente nei casi di prodotti invenduti a rischio deperibilità o nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta, mentre in caso di violazione di tale previsione il prezzo stabilito dalle parti è sostituito di diritto.

    Sistema sanzionatorio e autorità di vigilanza

    Le previsioni introdotte dal decreto, sia per quanto riguarda i requisiti contrattuali che le pratiche sleali, sono assistite da un articolato sistema sanzionatorio.

    Sono nulle le clausole contrattuali o pattuizioni contrarie ai requisiti contrattuali obbligatori, quelle che integrano pratiche commerciali sleali e quelle contrarie alla disciplina delle vendite sottocosto.

    È prevista una sanzione pecuniaria, specifica per ogni fattispecie, che viene determinata fra un minimo fisso (che, a seconda dei casi, può essere da 1.000 fino a 30.000 euro) ed un massimo variabile legato (tra il 3 ed il 5% al fatturato del trasgressore); si prevedono poi determinati casi nei quali la sanzione è ulteriormente aumentata.

    In ogni caso sono fatte salve le azioni per il risarcimento del danno.

    La vigilanza sul rispetto delle disposizioni previste dal decreto è rimessa all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), il quale può condurre indagini, eseguire ispezioni in loco senza preavviso, accertare le violazioni, imporre all’autore di porre fine alle pratiche vietate e avviare il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, fermo restando le competenze dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM).

    Attività suggerite

    Le previsioni introdotte dal decreto trovano applicazione anche ai contratti in corso, che dovranno essere resi conformi entro il 15 giugno 2022, dunque:

    • le imprese interessate, italiane ed estere, dovrebbero svolgere una ricognizione delle proprie prassi commerciali, dei contratti in corso e delle condizioni generali di fornitura e acquisto, per poi individuare gli eventuali gap rispetto alle nuove previsioni ed adottare i relativi correttivi.
    • considerando poi che la nuova normativa è di applicazione necessaria ed è di derivazione UE, per le imprese che fanno affari con l’estero sarà importante comprendere come sia stata data attuazione alla direttiva UE nei paesi in cui operano e verificare la conformità dei contratti anche a tali norme.

    Una problematica di sempre maggiore impatto sul commercio internazionale post-Covid 19 è la gestione dei prezzi delle materie prime, che spesso l’impresa italiana si trova ad affrontare senza avere espressamente previsto la regolamentazione di questo elemento in un contratto scritto con il proprio fornitore.

    Si genera così una situazione di incertezza, che è molto pericolosa.

    Spesso accade che, a fronte di una richiesta di aumento del prezzo molto forte, si invochi la forza maggiore per sostenere di non essere in grado di adempiere al contratto, ma ciò è sbagliato perché si tratta di due situazioni molto diverse tra loro e vi è il rischio che il rifiuto di adempiere possa essere fonte di responsabilità contrattuale.

    La situazione è ancor più delicata se, a fronte di una richiesta di aumento del prezzo da parte del proprio forniture straniero, l’impresa è vincolata da un accordo di vendita con prezzo fisso verso i propri clienti, e quindi non può scaricare sull’anello successivo della catena di fornitura l’aumento del prezzo praticato dai fornitori.

    Grafico - Legalmondo

    Per gestire le fluttuazioni dei prezzi di materie prime ed energia in modo consapevole è necessario avere le idee chiare e porre in essere comportamenti corretti, iniziando dalla verifica se i contratti  (con fornitori e clienti) prevedono una clausola di Hardship, ossia un meccanismo che prevede quando una parte si trova in una situazione di eccessiva onerosità sopravvenuta e quali sono le conseguenze sul contratto (diritto di rinegoziare il prezzo, di risolvere l’accordo o di nominare un terzo arbitratore che determini il nuovo prezzo della prestazione).

    In questo video riassumo:

    • Che cosa è l’eccessiva onerosità sopravvenuta (Hardship)
    • Cos’è la forza maggiore
    • Quali sono gli effetti delle fluttuazioni delle materie prime sui contratti internazionali
    • Quali regole si applicano ad un contratto di vendita internazionale
    • Cosa prevede la legge italiana in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta
    • Cosa prevede la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili
    • Come regolare le fluttuazioni dei prezzi in un contratto

    Le conclusioni sono:

    • La forte oscillazione del prezzo di materie prime ed energia non rende la prestazione impossibile, quindi non può essere invocata come causa di Forza Maggiore e non esonera da responsabilità contrattuale
    • I forti rialzi dei prezzi possono rappresentare una causa di eccessiva onerosità sopravvenuta solo se dovuti ad eventi straordinari ed imprevedibili, tra i quali è difficile far rientrare le fluttuazioni, anche molto ampie, delle materie prime
    • Il rimedio per neutralizzare il rischio di forti fluttuazioni dei prezzi è quello di prevedere nel contratto una clausola di hardship, ossia stabilire quando una parte può notificare all’altra di trovarsi in situazione di eccessiva onerosità sopravvenuta e azionare i meccanismi per riequilibrare le prestazioni oppure terminare l’accordo

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    Riassunto – L’art. 44 del D.L. 16.7.2020 n. 76 (cosiddetto ‘Decreto Semplificazioni’) prevede che, fino al 30.6.2021, le operazioni di aumento del capitale da parte di società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata, possano essere deliberate con il voto favorevole della maggioranza del capitale sociale rappresentato in assemblea, a condizione che sia presente almeno la metà del capitale sociale, anche qualora lo statuto stabilisca maggioranze più elevate.

    La norma ha un rilevante impatto sulla posizione dei soci (e investitori) di minoranza delle società italiane non quotate, la cui tutela è frequentemente affidata (anche) alle clausole statutarie che stabiliscono maggioranze qualificate per l’approvazione degli aumenti di capitale.

    Descritta la norma, si svolgeranno alcune considerazioni sulle conseguenze e le possibili tutele per i soci di minoranza, limitatamente alle società non quotate.


    Decreto Semplificazioni: la diminuzione delle maggioranze per l’approvazione degli aumenti di capitale nelle società per azioni, nelle società in accomandita per azioni e nelle società a responsabilità  limitata italiane

    L’art. 44 del D.L. 16.7.2020 n. 76 (cosiddetto ‘Decreto Semplificazioni’)[1] ha diminuito in via temporanea, sino al 30.6.2021, le maggioranze per l’approvazione da parte dell’assemblea straordinaria di alcune deliberazioni di aumento del capitale sociale.

    La norma riguarda tutte le società di capitali, comprese quelle quotate. Si applica alle deliberazioni dell’assemblea straordinaria aventi ad oggetto:

    • gli aumenti di capitale mediante conferimenti in danaro, di beni in natura o di crediti, ai sensi degli artt. 2439, 2440 e 2441 c.c. (relativi alle società per azioni e alle società in accomandita per azioni) e degli artt. 2480, 2481 e 2481-bis c.c. (relativi alle società a responsabilità limitata);
    • l’attribuzione agli amministratori della facoltà di aumentare il capitale, ai sensi dell’art. 2443 c.c. (relativo alle società per azioni e alle società in accomandita per azioni) e dell’art. 2480 c.c. (relativo alle società a responsabilità limitata).

    La disciplina ordinaria prevede, per le deliberazioni sopra indicate, le seguenti maggioranze:

    • per le società per azioni e le società in accomandita per azioni: (i) in prima convocazione una maggioranza deliberativa di più della metà del capitale sociale (art. 2368, secondo comma, c.c.); (ii) in seconda convocazione una maggioranza deliberativa dei due terzi del capitale sociale rappresentato in assemblea (art. 2369, terzo comma, c.c.);
    • per le società a responsabilità limitata, una maggioranza deliberativa di più della metà del capitale sociale (art. 2479-bis, terzo comma, c.c.);
    • per le società quotate una maggioranza deliberativa dei due terzi del capitale sociale rappresentato in assemblea (art. 2368, secondo comma e art. 2369, terzo comma, c.c.).

    Soprattutto, la disciplina ordinaria consente di stabilire nello statuto maggioranze costitutive e deliberative qualificate, cioè più elevate di quelle di legge.

    La disciplina temporanea dell’art. 44 del Decreto Semplificazioni prevede che le deliberazioni siano approvate con il voto favorevole della maggioranza del capitale rappresentato in assemblea, a condizione che sia presente almeno la metà del capitale sociale. Questa maggioranza sia applica anche qualora lo statuto preveda maggioranze più elevate.

    Decreto Semplificazioni: l’impatto della diminuzione delle maggioranze per l’approvazione degli aumenti di capitale sui soci di minoranza delle società non quotate italiane

    La norma ha un rilevante impatto sulla posizione dei soci (e investitori) di minoranza delle società italiane non quotate. È fortemente criticabile, in particolare nella parte in cui consente di derogare alle maggioranze più elevate stabilite nello statuto, perché incide sui rapporti in corso e sugli equilibri concordati tra i soci e riflessi nello statuto.

    Le maggioranze qualificate, più elevate di quelle di legge, per l’approvazione degli aumenti di capitale sono una tutela fondamentale per i soci (e gli investitori) di minoranza. Vengono frequentemente introdotte nello statuto: in sede di costituzione della società con più soci, nell’ambito di operazioni di aggregazione, in operazioni di investimento, di private equity e di venture capital.

    Le maggioranze qualificate impediscono ai soci di maggioranza di realizzare senza il consenso dei soci di minoranza (o di alcuni di essi), operazioni che hanno un impatto rilevante sulla società e sulla posizione dei soci di minoranza. Infatti, gli aumenti di capitale mediante conferimenti di beni riducono la percentuale di partecipazione del socio di minoranza e possono modificare significativamente l’attività della società (ad esempio, con il conferimento di azienda). Gli aumenti di capitale in denaro mettono il socio di minoranza di fronte all’alternativa tra investire ulteriormente nella società o ridurre la propria partecipazione.

    La riduzione della percentuale di partecipazione può implicare la perdita di importanti tutele, connesse al possesso di una partecipazione superiore a una determinata soglia. Si tratta non solo di alcuni diritti previsti dalla legge in favore dei soci di minoranza[2], ma – con effetti ancora più gravi – delle tutele derivanti dalle maggioranze qualificate previste nello statuto per l’assunzione di determinate decisioni. Il caso più eclatante è quello della maggioranza qualificata per le deliberazioni che modificano lo statuto sociale, affinché le modifiche non possano essere approvate senza il consenso dei soci di minoranza (o di alcuni di essi). Questa è una clausola fondamentale, per assicurare stabilità alle disposizioni statutarie, concordate tra i soci, a tutela del socio o dei soci di minoranza, quali ad esempio i diritti di prelazione e co-vendita, il voto di lista per la nomina del consiglio di amministrazione, le maggioranze qualificate per l’assunzione di decisioni dell’assemblea o del consiglio di amministrazione, i limiti ai poteri delegabili dal consiglio di amministrazione. Attraverso l’aumento di capitale, la maggioranza può ottenere una percentuale di partecipazione che le consenta di modificare lo statuto, scardinando unilateralmente l’assetto di governance concordato con gli altri soci.

    Il legislatore si è disinteressato di tutto questo e ha introdotto una norma che non semplifica. Piuttosto alimenta i conflitti tra i soci e mina la certezza del diritto, così allontanando gli investimenti anziché incentivarli.

    Decreto Semplificazioni: verifiche e tutele per i soci di minoranza rispetto alla diminuzione delle maggioranze per l’approvazione degli aumenti di capitale

    Per valutare la situazione e le tutele del socio di minoranza occorre esaminare l’eventuale patto parasociale vigente tra i soci. L’esistenza di un patto parasociale sarà pressoché certa in operazioni di private equity o venture capital o da parte di altri investitori professionali. Ma al di fuori di questi casi sono tantissime le società, specialmente tra le piccole e medie imprese, in cui i rapporti tra i soci sono disciplinati esclusivamente dallo statuto.

    Nel patto parasociale dovrà essere verificato se vi siano clausole che obblighino i soci, quali parti del patto, ad approvare gli aumenti di capitale con maggioranza qualificata, cioè più elevata di quelle di legge. Oppure se il patto richiami  un testo di statuto (allegandolo o attraverso un rinvio specifico) che preveda tale maggioranza, cosicché si possa ritenere che il rispetto della maggioranza qualificata costituisca una obbligazione assunta dalle parti del patto parasociale.

    In questo caso, il patto parasociale tutelerà il socio o i soci di minoranza, in quanto l’art. 44 del Decreto Semplificazioni non introduce una deroga alle clausole del patto parasociale.

    La tutela offerta dal patto parasociale è forte, ma inferiore rispetto a quella dello statuto. La clausola dello statuto che prevede una maggioranza qualificata vincola tutti i soci e la società, pertanto l’aumento del capitale non può essere validamente approvato in violazione dello statuto. Il patto parasociale, invece, ha efficacia solo obbligatoria (tra le parti del patto), per cui non impedisce l’approvazione da parte della società dell’aumento del capitale, anche qualora il voto del socio violi le obbligazioni del patto parasociale. In questo caso, gli altri soci avranno il diritto al risarcimento del danno subito in conseguenza della violazione del patto.

    In assenza di un patto parasociale che obblighi i soci a rispettare una maggioranza qualificata per l’approvazione dell’aumento del capitale, al socio di minoranza resta unicamente la possibilità di impugnare la delibera di aumento del capitale, per vizio di abuso di maggioranza, qualora la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società e il voto del socio di maggioranza persegua un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale, ovvero qualora sia lo strumento di una attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a ledere i diritti dei soci di minoranza[3]. Strada molto in salita e tutela certamente insufficiente.

    [1] Il Decreto Semplificazioni è stato convertito in legge dalla L. 11 settembre 2020, n. 120. La legge di conversione ha sostituito l’art. 44 del Decreto Semplificazioni, estendendo la disciplina temporanea ivi prevista agli aumenti di capitale in denaro e agli aumenti di capitale delle società a responsabilità limitata.

    [2] Ad esempio: la percentuale del 10% (33% per le società a responsabilità limitata) per il diritto dei soci di ottenere la convocazione dell’assemblea (art. 2367, c.c.; art. 2479, c.c.); la percentuale del 20% (10% per le società a responsabilità limitata) per impedire la rinuncia o la transazione dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 2393, comma sesto, c.c.; art. 2476, comma quinto, c.c.); la percentuale del 20% per l’esercizio da parte del socio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 2393-bis, c.c.).

    [3]  Cass. Civ. 12 dicembre 2005, n. 27387; Trib. Roma, 31 marzo 2017, n. 6452.

    In 2019 the Private Equity and Venture Capital players have invested Euro 7,223 million in 370 transactions in the Italian Market, 26% less than 2018; these are the outcomes released on March 24th by AIFI (Italian Association of Private Equity, Venture Capital e Private Debt).

    In this slowing down scenario the spreading of Covid-19 is impacting Private Equity and Venture Capital transactions currently in progress, thus raising implications and alerts that will considerably affect both further capital investments and the legal approach to investments themselves.

    Companies spanning a wide range of industries are concerned by Covid-19 health emergency, with diverse impacts on businesses depending on the industry. In this scenario, product companies, direct-to-consumer companies, and retail-oriented businesses appear to be more affected than service, digital, and hi-tech companies. Firms and investors will both need to batten down the hatches, as to minimize the effects of the economic contraction on the on-going investment transactions. In this scenario, investors hypothetically backing off from funding processes represent an issue of paramount concern for start-ups, as these companies are targeted by for VC and PE investments. In that event, the extent of the risk would be dependent upon the investment agreements and share purchase agreements (SPAs) entered into and the term sheets approved by the parties.

    MAC/MAE clauses

    The right of investors to withdrawal (way out) from a transaction is generally secured by the so-called MAC or MAE clauses – respectively, material adverse change clause or material adverse effect. These clauses, as the case may be and in the event of unforeseeable circumstances, upon the subscription of the agreements, which significantly impact the business or particular variables of the investment, allow investors to decide not to proceed to closing, not to proceed to the subscription and the payment of the share capital increase, when previously resolved, to modify/renegotiate the enterprise value, or to split the proposed investment/acquisition into multiple tranches.

    These estimates, in terms of type and potential methods of application of the clauses, usually depend on a number of factors, including the governing law for the agreements – if other than Italian – with this circumstance possibly applying in the case of foreign investors imposing the existing law in their jurisdiction, as the result of their position in the negotiation.

    When the enforcement of MAC/MAE clauses leads to the modification/renegotiation of the enterprise value – that is to be lowered – it is advisable to provide for specific contract terms covering calculating mechanisms allowing for smoothly redefining the start-up valuation in the venture capital deals, with the purpose of avoiding any gridlocks that would require further involvement of experts or arbitrators.

    In the absence of MAC/MAE clauses and in the case of agreements governed by the Italian law, the Civil Code provides for a contractual clause called ‘supervenient burdensomeness’ (eccessiva onerosità sopravvenuta) of a specific performance (i.e. the investment), with the consequent right for the party whose performance has become excessively burdensome to terminate the contract or to make changes to the contract, with a view to fair and balanced conditions – this solution however implies an inherent degree of complexity and cannot be instantly implemented. In case of agreements governed by foreign laws, it shall be checked whether or not the applicable provisions allow the investor to exit the transaction.

    Interim Period clauses

    MAC/MAE are generally negotiated when the time expected to closing is medium or long. Similarly, time factors underpin the concept of the Interim Period clauses regulating the business operation in the period between signing and closing, by re-shaping the company’s ordinary scope of business, i.e. introducing maximum expenditure thresholds and providing for the prohibition to execute a variety of transactions, such as capital-related transactions, except when the investors, which shall be entitled to remove these restrictions from time to time, agree otherwise.

    It is recommended to ascertain that the Interim Period clauses provide for a possibility to derogate from these restrictions, following prior authorization from the investors, and that said clauses do not require, where this possibility is lacking, for an explicit modification to the provision because of the occurrence of any operational need due to the Covid-19 emergency.

    Conditions for closing

    The Government actions providing for measures to contain coronavirus have caused several slowdowns that may impact on the facts or events that are considered as preliminary conditions which, when occurring, allow to proceed to closing. Types of such conditions range from authorisations to public entities (i.e. IPs jointly owned with a university), to the achievement of turnover objectives or the completion of precise milestones, that may be negatively affected by the present standstill of companies and bodies. Where these conditions were in fact jeopardised by the events triggered by the Covid-19 outbreak, this would pose important challenges to closing, except where expressly provided that the investor can renounce, with consent to proceed to the investment in all cases. This is without prejudice to the possibility of renegotiating the conditions, in agreement with all the parties.

    Future investments: best practice

    Covid-19 virus related emergency calls for a change in the best practice of Private Equity and Venture Capital transactions: these should carry out detailed Due diligences on aspects which so far have been under-examined.

    This is particularly true for insurance policies covering cases of business interruption resulting from extraordinary and unpredictable events; health insurance plans for employees; risk management procedures in supply chain contracts, especially with foreign counterparts; procedures for smart working and relevant GDPR compliance issues in case of targeted companies based in EU and UK; contingency plans, workplace safety, also in connection with the protocols that ensure ad-hoc policies for in-house work.

    Investment protection should therefore also involve MAC/MAE clauses and relevant price adjustment mechanisms, including for the negotiation of contract-related warranties (representation & warranties). A special focus shall be given now, with a different approach, to the companies’ ability to tackle and minimize the risks that may arise from unpredictable events of the same scope as Covid-19, which is now affecting privacy systems, the workforce, the management of supply chain contracts, and the creditworthiness of financing agreements.

    This emergency will lead investors to value the investments with even greater attention to information, other than financial ones, about targeted companies.

    Indeed, it is mandatory today to gain overview on the resilience of businesses, in terms of structure and capability, when these are challenged by the exogenous variables of the market on the one side, and by the endogenous variables on the other side – to be now understood as part of the global economy.

    There is however good news: Venture Capital and Private Equity, like any other ecosystem, will have its own response capacity and manage to gain momentum, as it happened in 2019 when Italy witnessed an unprecedented increase in investments. The relevant stakeholders are already developing coping strategies. Transactions currently in progress are not halted – though slowed down. Indeed, the quarantine does not preclude negotiations or shareholders’ meetings, which are held remotely or by videoconference. This also helps dispel the notion that meetings can only be conducted by getting the parties concerned round the same table.

    The author of this post is Milena Prisco.

    Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


    Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

    Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

    Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

    Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

    Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

    Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

    Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

    Il ruolo di Amazon

    La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

    La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

    Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

    Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

    Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

    La decisione della Corte di Giustizia UE

    Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

    Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

    La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

    • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
    • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
    • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

    Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

    Conclusioni

    Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

    Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

    • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
    • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
    • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
    • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

    Consigli pratici

    Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

    1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
    2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
    3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
    4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
    5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

    Roberto Luzi Crivellini

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