La responsabilità per danno da prodotto difettoso in assenza di garanzia

8 Agosto 2019

  • Italia
  • Contratti

Le operazioni di acquisizione (M&A) in Italia, nella maggior parte dei casi, vengono realizzate attraverso acquisto di partecipazioni (‘share deal’) o di azienda o ramo d’azienda (‘asset deal’). Per ragioni principalmente fiscali sono più frequenti gli share deal rispetto agli asset deal, nonostante l’asset deal consenta una migliore limitazione dei rischi per l’acquirente. Vedremo le principali differenze tra share deal e asset deal in termini di rischi e di rapporti tra venditore e acquirente.

Preferenza per operazioni di M&A mediante acquisto di partecipazioni (‘share deal’) rispetto ad acquisto di azienda o ramo d’azienda (‘asset deal’) nel mercato italiano

In Italia, le operazione di acquisizione (M&A) vengono realizzate, nella maggior parte dei casi, attraverso acquisto di partecipazioni (‘share deal’) o di azienda o ramo d’azienda (‘asset deal’). Altre modalità, come la fusione, sono meno frequenti.

Con l’acquisto di quote o azioni della società acquisita (‘share deal’) l’acquirente acquisisce, indirettamente, l’intero patrimonio aziendale (attività, passività, rapporti) e quindi si fa carico di tutti i rischi relativi alla precedente gestione della società.

Con l’acquisto dell’azienda o di un ramo d’azienda (‘asset deal) l’acquirente acquisisce un insieme di beni e rapporti organizzati per l’esercizio dell’impresa (immobili, impianti, dipendenti, contratti, crediti, debiti, ecc.). Il vantaggio dell’asset deal risiede nella possibilità per le parti di definire il perimetro del trasferimento e, quindi, per l’acquirente, di limitare i rischi legali dell’operazione.

Nonostante questo vantaggio, la maggior parte delle operazioni di acquisizione in Italia avviene attraverso acquisto di partecipazioni. Nel 2018 gli acquisti di partecipazioni (azioni o quote) sono state circa 78.400, mentre le cessioni di azienda sono state circa 35.900 (fonte: www.notariato.it/it/news/dati-statistici-notarili-anno-2018). E va osservato che il dato delle cessioni d’azienda comprende anche le aziende di piccole o piccolissime dimensioni esercitate da imprenditori individuali, per le quali l’alternativa dello share deal (pur praticabile, attraverso il conferimento dell’azienda in una newco e la cessione delle partecipazioni nella newco) non è percorribile in concreto per ragioni di costo.

Costi fiscali delle operazioni di acquisizione (M&A) in Italia

La principale ragione della preferenza per l’acquisto di partecipazione (‘share deal’) rispetto all’acquisto di azienda (‘asset deal’) risiede nei costi fiscali dell’operazione. Vediamo quali sono, in linea generale.

Nell’acquisto di partecipazioni, le imposte dirette a carico del venditore vengono calcolate sulla plusvalenza, secondo le seguenti percentuali:

  • se il venditore è una società di capitali (s.p.a.; s.r.l.; s.a.p.a.) l’aliquota è del 24% della plusvalenza. Ma, a determinate condizioni, si applica il regime della c.d. PEX (participation exemption) con applicazione dell’aliquota del 24% solo sul 5% della plusvalenza.
  • Se il venditore è una persona fisica l’aliquota sulla plusvalenza è del 26%.
  • Se il venditore è una società di persone (s.s.; s.n.c..; s.a.s.) la plusvalenza è integralmente imponibile, tuttavia al ricorrere di determinate condizioni, l’imponibilità è limitata al 60% dell’ammontare della plusvalenza. In entrambi i casi l’aliquota applicabile è quella marginale riferita a ciascun socio a cui il reddito viene imputato per trasparenza.

Nell’acquisto di partecipazioni si applica l’imposta di registro, normalmente a carico dell’acquirente, di euro 200.

Anche nell’acquisto di azienda, le imposte dirette a carico del venditore vengono calcolate sulla plusvalenza. Se il venditore è una società di capitali, l’aliquota è del 24% della plusvalenza. Se il venditore è una società di persone (con soci persone fisiche) o un imprenditore individuale, le aliquote dipendono dal reddito del venditore.

Nell’acquisto di azienda si applicano le imposte indirette, normalmente a carico dell’acquirente, calcolate sulla parte del prezzo attribuibile ai singoli beni trasferiti. Il prezzo è il risultato delle attività trasferite detratte le passività trasferite. Le percentuali sono diverse a seconda del tipo di beni. In generale:

  • ai beni mobili si applica una imposta di registro del 3%;
  • all’avviamento si applica una imposta di registro del 3%;
  • ai fabbricati si applica una imposta di registro del 9% (e imposte ipotecarie e catastali in misura fissa di euro 50 ciascuna);
  • ai terreni si applica una imposta di registro tra il 9 e il 12% (a seconda dell’acquirente) e imposte ipotecarie e catastali in misura fissa di euro 50 ciascuna.

Nel caso in cui l’azienda sia composta da beni soggetti ad aliquote diverse e le parti abbiano pattuito un corrispettivo unico, senza distinzione in merito al valore attribuibile ai singoli beni, l’imposta deve calcolarsi applicando all’unico corrispettivo pattuito l’aliquota più elevata.

Va sottolineato che l’Agenzia delle Entrate può sottoporre ad accertamento il valore attribuito dalle parti ai beni immobili e all’avviamento, con conseguente rischio di applicazione di maggiori imposte.

Share deal e asset deal: rischi e responsabilità verso i terzi

Nell’acquisto di quote o azioni (‘share deal’) l’acquirente si fa carico, indirettamente, di tutti i rischi relativi alla precedente gestione della società.

Nell’acquisto dell’azienda o di un ramo d’azienda (‘asset deal’), invece, le parti possono decidere il perimetro del trasferimento (quali beni e rapporti) così stabilendo, nei rapporti tra loro, i rischi che l’acquirente assume.

Vi sono però alcune norme, che le parti non possono derogare, relative ai rapporti con i terzi, che influiscono significativamente sui rischi per il venditore e l’acquirente e quindi sulla negoziazione dell’accordo tra le parti. Le principali sono le seguenti.

  • Lavoratori dipendenti: il rapporto di lavoro continua con l’acquirente dell’azienda. Il venditore e l’acquirente sono obbligati in solido per tutti i crediti del lavoratore al momento del trasferimento (art. 2112 c.c.).
  • Debiti: il venditore è obbligato al pagamento di tutti i debiti sino alla data del trasferimento. L’acquirente è obbligato per i debiti che risultano dai libri contabili (art. 2560 c.c.).
  • Debiti e responsabilità fiscali: il venditore è obbligato al pagamento di debiti, imposte e sanzioni fiscali relative al periodo sino alla data del trasferimento.
    L’acquirente, in aggiunta all’obbligo relativo ai debiti fiscali che risultano dai libri contabili (art. 2560 c.c.), è responsabile per le imposte e sanzioni, anche se non risultano dai libri contabili, con i seguenti limiti (art. 14 D.lgs. 472/1997):
  • beneficio della preventiva escussione del venditore;
  • fino al valore dell’azienda o del ramo d’azienda acquistato;
  • per le imposte e sanzioni non ancora contestate, la responsabilità riguarda solo quelle relative all’anno della vendita dell’azienda e ai due precedenti; per le imposte e sanzioni relative al periodo anteriore ai due anni precedenti la vendita dell’azienda, la responsabilità riguarda solo quelle contestate entro tale periodo;
  • nei limiti del debito risultante alla data di trasferimento dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria. L’Agenzia delle Entrate è tenuta a rilasciare un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso e sui debiti. Il certificato negativo, o non rilasciato entro 40 giorni dalla richiesta, libera l’acquirente da responsabilità.
  • Contratti: le parti possono scegliere quali contratti trasferire. Rispetto ai contratti trasferiti, l’acquirente subentra, anche senza il consenso del terzo contraente, nei contratti per l’esercizio dell’azienda che non hanno carattere personale (sono a carattere personale quelli che prevedono da parte del venditore una prestazione oggettivamente infungibile o soggettivamente infungibile). Inoltre il terzo contraente può recedere dal contratto entro tre mesi, se sussiste una giusta causa (ad esempio se l’acquirente non garantisce, per la propria situazione patrimoniale o per capacità tecniche, di poter adempiere al contratto) (art. 2558 c.c.).

Alcuni strumenti per affrontare i rischi

Per affrontare i rischi derivanti dalle responsabilità verso i terzi e i rischi generali connessi all’acquisizione, vi sono diversi strumenti negoziali e contrattuali che possono essere utilizzati. Vediamone alcuni.

Nelle operazioni di acquisto dell’azienda o di rami d’azienda (‘asset deal’):

  • Lavoratori dipendenti: è possibile concordare con il lavoratore modifiche alle condizioni contrattuali e rinunce alla responsabilità solidale dell’acquirente e del venditore (ex art. 2112 c.c.). L’accordo con i lavoratore per essere valido deve essere concluso in sede ‘protetta’ (ad esempio: con l’assistenza delle organizzazioni sindacali).
  • Debiti:
  • trasferire all’acquirente i debiti riducendo il prezzo in misura corrispondente; la riduzione del prezzo comporta, inoltre, una minor costo fiscale dell’operazione. In caso di trasferimento dei debiti, per tutelare il venditore si può ottenere dal creditore una dichiarazione di liberazione del venditore dalla responsabilità ex art. 2560 c.c.; oppure si può prevedere che il pagamento del debito da parte dell’acquirente avvenga contestualmente al trasferimento dell’azienda (‘closing’).
  • Per i debiti non trasferiti all’acquirente, ottenere dal creditore una dichiarazione di liberazione dell’acquirente dalla responsabilità ex art. 2560 c.c.
  • Per i debiti per i quali non sia possibile ottenere la dichiarazione di liberazione da parte del creditore, pattuire forme di garanzia a favore del venditore (per i debiti trasferiti) o a favore dell’acquirente (per i debiti non trasferiti), quali ad esempio la dilazione del pagamento (a favore dell’acquirente) di parte del prezzo, il deposito fiduciario (‘escrow’) di parte del prezzo, fideiussioni bancarie o da parte dei soci.
  • Debiti e responsabilità fiscali:
  • ottenere dall’Agenzia delle Entrate il certificato ex art. 14 D.lgs. 472/1997 sui debiti e le contestazioni in corso;
  • trasferire all’acquirente i debiti riducendo il prezzo in misura corrispondente;
  • pattuire le forme di garanzia a favore del venditore (per i debiti trasferiti) e a favore dell’acquirente (per i debiti non trasferiti o per le contestazioni che non sono ancora debiti), quali ad esempio quelle sopra esposte per i debiti in generale.
  • Contratti: per quelli che vengono trasferiti:
  • verificare che le prestazioni a carico del venditore sino alla data del trasferimento siano state regolarmente adempiute, per evitare il rischio di contestazioni del terzo contraente che possono bloccare l’esecuzione del contratto;
  • almeno per i contratti più importanti (e salvo ragioni di riservatezza), cercare di ottenere conferma dal terzo contraente del benestare al trasferimento del contratto.

Nelle operazioni di acquisto di partecipazioni (‘share deal’), in cui l’acquirente si fa carico, indirettamente, di tutti i rischi relativi alla precedente gestione della società, alcuni strumenti sono:

  • Due diligence. Svolgere una approfondita due diligence legale, fiscale e contabile sulla società, per valutare preventivamente i rischi e gestirli nella trattativa e nei contratti.
  • Dichiarazioni e garanzie (‘R&W) e indennizzo. Prevedere nel contratto di acquisizione (‘share purchase agreement’) un set dettagliato di dichiarazioni e garanzie – e obblighi di indennizzo in caso di non conformità – a carico del venditore relativamente alla situazione della società (‘business warranties’: bilancio; situazione patrimoniale di riferimento; contratti; contenzioso; rispetto della normativa ambientale; autorizzazioni per lo svolgimento dell’attività; debiti; crediti ecc.). La trattativa sulle dichiarazioni e garanzie normalmente recepisce, gestendoli, gli esiti della due diligence (ad esempio: viene escluso dalle dichiarazioni e garanzie e dall’indennizzo un contenzioso emerso in due diligence, del quale le parti tengono conto nella definizione del prezzo). La pattuizione di dichiarazioni e garanzie sulla situazione della società (‘business warranties’) e dell’obbligo di indennizzo sono necessari negli share deal in Italia, in quanto in mancanza di tali clausole l’acquirente non può ottenere dal venditore (salvo situazioni estreme e molto rare) un risarcimento o indennizzo in caso la situazione della società sia diversa da quella considerata al momento dell’acquisto (così ad esempio: Cass. Civ. 16963/2014).
  • Garanzie per l’acquirente. Strumenti per garantire all’acquirente l’effettiva possibilità di ottenere l’indennizzo (o parte dell’indennizzo) in caso di non conformità delle dichiarazioni e garanzie. Tra queste: (a) la dilazione del pagamento di parte del prezzo; (b) il versamento di parte del prezzo in un deposito fiduciario (‘escrow’) per la durata delle dichiarazioni e garanzie e, in caso di contestazioni, fino a che la contestazione non è definita; (c) fideiussione bancaria;; (d) polizza W&I, contratto di assicurazione che copre il rischio dell’acquirente in caso di violazioni di dichiarazioni e garanzie, sino ad un importo massimo (ed esclusi alcuni rischi).

Altri fattori che incidono sulla scelta tra share deal e asset deal

Naturalmente la scelta di realizzare un’operazione di acquisizione in Italia mediante share deal o asset deal, dipende anche da altri fattori oltre a quello dei costi fiscali dell’operazione. Eccone alcuni.

  • Acquisto di parte del business. Si sceglie l’asset deal, quando l’operazione non riguarda l’acquisto dell’intera azienda del venditore ma solo una sua parte (un ramo d’azienda).
  • Situazione della società problematica. Si sceglie l’asset deal quando la situazione della società target è così problematica che l’acquirente non è disponibile ad assumere tutti i rischi derivanti dalla precedente gestione, ma solo parte di essi.
  • Mantenimento di un ruolo da parte del venditore. Si sceglie lo share deal quando si vuole conservare al venditore un ruolo nella società acquisita. In questo caso, oltre ad un ruolo nel management, è frequente il mantenimento da parte del venditore di una partecipazione di minoranza, con clausole di exit (diritti di put e call) decorso un certo periodo di tempo. Clausole che, spesso, legano il prezzo ai risultati futuri e, quindi, nell’interesse dell’acquirente incentivano il venditore nel ruolo manageriale e, nell’interesse del venditore, valorizzano prospettive reddituali non concretizzate al momento dell’acquisto.

Dal 1° agosto 2021 non sarà più necessario, per la costituzione di una SRL – società a responsabilità limitata, recarsi dal notaio: la procedura potrà anche essere realizzata completamente on line, salvo casi eccezionali. Ciò è previsto dalla Direttiva U.E. 2019/1151, che impone agli stati di adeguarsi entro due anni. Vediamo cosa prevede la Direttiva.

Come si costituisce una S.r.l. in Italia oggi

In Italia, per costituire una società e, in particolare, una società a responsabilità limitata, è sempre necessario rivolgersi ad un notaio.

Ciò vale anche per la c.d. «SRL semplificata», introdotta nel 2012 dal Decreto Legge «Liberalizzazioni». In questo caso, infatti, la legge prevede che, a fronte dell’utilizzo di uno statuto standard non modificabile, non vi siano oneri notarili da sostenere. Tuttavia, resta sempre necessario comparire avanti ad un notaio.

Cosa cambierà da agosto 2021 con il recepimento della Direttiva U.E. 2019/1151

Le cose dovranno cambiare con l’entrata in vigore della Direttiva U.E. 2019/1151, che modifica la Direttiva U.E. 2017/1132 in tema di uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario.

Entro il 1° agosto 2021, gli Stati membri dovranno aggiornare le procedure per la costituzione di una società in modo da garantire un doppio binario.

Dovrà, cioè, essere possibile costituire una società sia con il metodo tradizionale, ossia rivolgendosi ad un notaio, oppure con procedure esclusivamente on line.

Due eccezioni

  • l’art. 13-ter, par. 4, dispone che «ove sia giustificato da motivi di interesse pubblico per impedire l’usurpazione o l’alterazione di identità, gli Stati membri possono adottare misure che potrebbero richiedere la presenza fisica ai fini della verifica dell’identità del richiedente dinanzi a un’autorità o a qualsiasi persona od organismo incaricati… Gli Stati membri provvedono affinché la presenza fisica del richiedente possa essere richiesta solo se vi sono motivi di sospettare una falsificazione dell’identità e garantiscono che qualsiasi altra fase della procedura possa essere completata online»;
  • l’art. 13-octies, co. 8, dispone che «ove giustificato da motivi di interesse pubblici a garantire il rispetto delle norme sulla capacità giuridica e sull’autorità dei richiedenti di rappresentare una società, qualsiasi autorità o qualsiasi persona od organismo incaricato… può chiedere la presenza fisica del richiedente… Gli Stati membri garantiscono che tutte le altre fasi della procedura possano essere comunque completate on line».

Gli Stati membri dovranno mettere a disposizione i modelli necessari per la costituzione delle società a responsabilità limitata «in almeno una lingua ufficiale dell’Unione ampiamente compresa dal maggior numero possibile di utenti transfrontalieri».

Rischi

La direttiva rappresenta, indubbiamente, un interessante tentativo di semplificazione, il cui successo dipenderà, tuttavia, da come verrà recepita dai singoli Stati membri.

I rischi principali sono almeno due:

  1. il primo, facilmente intuibile, è che gli Stati membri rendano troppo oneroso l’accertamento dell’identità od il potere rappresentativo dei richiedenti, rendendo più semplice, in definitiva, il tradizionale ricorso ad un notaio;
  2. il secondo è che le procedure on line siano poco chiare o comprensibili, specie agli utenti stranieri. In tal senso, non appare sufficiente che i modelli siano resi disponibili, ma sarà necessario che le procedure online siano orientate alla maggiore semplificazione possibile e che i modelli siano tutti disponibili almeno in lingua inglese.

Infine, è evidente che la digitalizzazione del procedimento di costituzione di una società non elimina l’opportunità di rivolgersi ad un professionista con il compito di consigliare il cliente nelle scelte che sarà necessario fare, ad esempio in materia di corporate governance.

Con la Direttiva 85/374/CEE del 25.07.1985, trasfusa nel DPR 224/1988, poi abrogato perché confluito nel D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo), sono state introdotte regole chiare sugli obblighi risarcitori in capo al produttore allorché un prodotto immesso sul mercato si riveli poi difettoso.

Con la successiva Direttiva 2001/95/CE, anch’essa recepita internamente con il D.lgs 172/2004 e successivamente riversata nel  Codice del Consumo, la materia è stata ulteriormente regolamentata sotto il profilo della sicurezza generale dei prodotti.

A livello europeo e nazionale, dunque, i doveri e gli eventuali obblighi risarcitori che derivano dalla distribuzione di un bene difettoso trovano un’organica disciplina in favore del consumatore.

Sebbene i danni da prodotto interessino quotidianamente anche beni acquistati o utilizzati da operatori economici, società, professionisti, ecc., nei rapporti B2B una tale disciplina (organica) manca del tutto.

Ciò non significa che il produttore sia immune dalle responsabilità nei riguardi di un professionista per avere distribuito, direttamente o tramite una rete di rivenditori, un prodotto difettoso.

Caso pratico

Un veicolo acquistato da un autotrasportatore, ormai fuori garanzia, prende fuoco mentre è in sosta (es. per un problema al motore) e l’incendio rende inservibile il mezzo per diverso tempo, con conseguenti perdite di commesse e altro; quali azioni può intraprendere l’autotrasportatore per il ristoro del danno subito e, soprattutto, contro chi deve agire?

Si tratta di una fattispecie del tutto particolare ma non così infrequente: il danneggiato si trova nell’infelice condizione di non potere agire contro il venditore, vuoi per il tempo trascorso dalla compravendita del bene (es. è spirato il termine ex art. 1495 c.c.), vuoi perché è scaduta la garanzia, e l’unica opzione rimasta è quella di intentare causa contro il produttore del mezzo.

Occorre perciò chiedersi se esistano principi o norme di legge che impongono al costruttore di veicoli di risarcire direttamente i danni causati dalla difettosità dei suoi prodotti in assenza di un obbligo contrattuale e quando il danneggiato non è un consumatore.

Prima di tutto, per dottrina e giurisprudenza l’applicabilità della normativa sulla responsabilità per prodotto difettoso trova il suo limite nel soggetto che fa valere il diritto al risarcimento (i “considerando” della Direttiva 85/374/CEE parlano solo di consumatore).

In più, le disposizioni a tutela del consumatore contemplano una precisa tipologia di danno che mal si adatta ai rapporti B2B: infatti, la definizione offerta da tutti i testi consumeristici si rifà ad eventi tragici quali la “… morte …” o le “… lesioni personali …” o a pregiudizi come la “… distruzione di una cosa diversa dal prodotto purché … normalmente destinato all’uso e consumo privato …e … per proprio uso o consumo privato …” (v. art. 9 Direttiva cit. – art. 123 Codice del Consumo), ipotesi tutte che solo un consumatore/persona fisica può lamentare, certamente non i soggetti che interagiscono per motivi commerciali e di business.

A tal proposito la giurisprudenza ha da tempo chiarito che il D.P.R. 224/88, e di riflesso il Codice del Consumo, non considera il c.d. «danno commerciale» prodottosi in capo all’operatore economico nell’esercizio del suo business, ma accorda tutela solo per i danni arrecati alla persona o ai beni del consumatore (Cass. Civ. Sez. III, 07.05.2013, n. 9254 in Danno e Resp., 2015, 11, 1005).

Quanto detto porta ad escludere l’applicabilità del Codice del Consumo e delle disposizioni consumeristiche in generale nei rapporti tra non consumatori ovvero tra società, operatori economici e professionisti.

Riprendendo il caso pratico iniziale, occorre dunque chiedersi quali iniziative rimangano all’impresa che ha subito la perdita del veicolo andato distrutto dall’incendio.

La risposta viene per esclusione: non potendosi applicare le disposizioni del Codice del Consumo per i rilievi già esposti e ed escludendosi la garanzia riconosciuta sul bene compravenduto (nel caso prospettato la garanzia è già scaduta), al danneggiato non resta che agire in forza delle norme comuni in tema di responsabilità da illecito (art. 2043 c.c.), con tutte le conseguenze del caso e quindi tenendo a mente che:

  • Non ci si muove più nell’ambito della responsabilità oggettiva (anche se relativa) del produttore, così come sancita dalla Direttiva 85/374/CEE, ma sul terreno della responsabilità per colpa o dolo;
  • L’onere della prova appare più gravoso in quanto è necessario dimostrare il fatto illecito, il danno, il nesso causale danno/illecito e, soprattutto, l’elemento soggettivo della colpa o del dolo (TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, XIX ed., Giuffrè, § 473, 869), mentre le disposizioni a tutela del consumatore impongono al danneggiato il solo onere di provare il difetto, il danno e a relazione causale tra difetto e danno, senza scomodare gli elementi soggettivi del dolo e della colpa ora citati;
  • Non si può fare affidamento sulla decadenza decennale del diritto al risarcimento (art. 11 Direttiva 85/374/CEE – art. 126 Codice del Consumo) ma occorre fare i conti con il più breve termine di prescrizione quinquennale dell’illecito extracontrattuale (art. 2947 c.c.);
  • Vi è l’astratta possibilità di scontrarsi con delle clausole di esonero della responsabilità, beninteso applicabili solo tra le parti e limitate a diritti disponibili in assenza di dolo o colpa grave (clausole impensabili in ambito consumeristico per espresso divieto ex art. 124 Codice del Consumo).

Da apprezzare, di contro, che l’azione per fatto illecito può aspirare alla rifusione degli oneri di ripristino del veicolo stesso (es. costi di intervento, traino, ecc.), rimedio riparativo del tutto escluso dalle disposizioni del Codice del Consumo nell’ipotesi di danno da prodotto difettoso (v. art. 123 C.d.C. sopra cit.).

Concludendo sul caso dell’incendio: in assenza della garanzia, l’autotrasportatore dovrà necessariamente agire appellandosi alla responsabilità extracontrattuale del produttore; una strada tutta in salita, non solo perché i Costruttori hanno buon gioco nel contrastare simili istanze risarcitorie pretendendo una rigorosa applicazione alle stringenti regole sull’onere della prova ma anche, e soprattutto, perché ribaltano spesso sull’utilizzatore le responsabilità per omessa o carente manutenzione del veicolo, con un uso sapiente e mirato del concorso di colpa del danneggiato ex artt. 2056 e 1227 c.c..

L’assenza di una disciplina organica sul risarcimento del danno da prodotto difettoso nei rapporti B2B si manifesta in modo tangibile, soprattutto quando bisogna fare i conti con i danni da prodotto a garanzia scaduta; pochi in realtà sembrano avvertire il peso di questo vuoto normativo.

Con la recentissima pronuncia del 2 maggio 2019 (causa C-614/17), la Corte di Giustizia UE ha stabilito che la normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari deve essere interpretata nel senso che «l’utilizzo di segni figurativi che evocano l’area geografica alla quale è collegata una denominazione d’origine […] può costituire un’evocazione [vietata dalla normativa europea, n.d.r.] della medesima anche nel caso in cui i suddetti segni figurativi siano utilizzati da un produttore stabilito in tale regione, ma i cui prodotti, simili o comparabili a quelli protetti da tale denominazione d’origine, non sono protetti da quest’ultima».

Questa sentenza, che prende spunto dal curioso caso dei formaggi de La Mancha, rappresenta una pietra miliare per la tutela delle eccellenze enogastronomiche nazionali, con importanti risvolti sui prodotti «Made in Italy».

Il caso

Il caso trae origine dalla commercializzazione, da parte dell’Industrial Quesera Cuquerella SL [«IQC»], di alcuni formaggi attraverso l’utilizzo di etichette evocative del noto personaggio di Miguel de Cervantes, ossia Don Chisciotte de La Mancha.

Nella sostanza, si trattava di etichette contenenti raffigurazioni tradizionali di Don Chisciotte, di un cavallo magro evocativo del cavallo «Ronzinante» e di paesaggi con mulini a vento, per commercializzare i formaggi «Super Rocinante», «Rocinante» e «Adarga de Oro» [il termine «adarga» rappresenta un arcaismo spagnolo, utilizzato da Miguel de Cervantes per indicare lo scudo di Don Chisciotte, n.d.r.], non compresi, però, all’interno del DOP «queso manchego» [formaggio de La Mancha, in spagnolo, n.d.r.].

Per tale ragione, la Fondazione Queso Manchego [«FQM»], incaricata della gestione e della protezione della DOP «queso manchego», si rivolgeva al giudice spagnolo, affinché dichiarasse che tale utilizzo, riguardando formaggi non compresi nella DOP, rappresentava una violazione della normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari di cui al Regolamento U.E. 510/2016.

La decisione dei giudici spagnoli ed il rinvio del Tribunal Supremo

Tanto in primo che poi in secondo grado, i giudici spagnoli rigettavano la richiesta della FQM, ritenendo che l’utilizzo di immagini evocative de La Mancha per commercializzare formaggi non protetti dalla DOP «queso manchego», fosse in grado di indurre il consumatore a pensare, appunto, alla regione spagnola, ma non necessariamente alla DOP «queso manchego».

FQM si rivolgeva, quindi, al Tribunal Supremo spagnolo, che rinviava la questione alla Corte di Giustizia UE, ritenendo necessario, per risolvere il caso concreto, sapere come debba essere interpretata la normativa europea ed osservando che:

  • il termine «manchego» in spagnolo qualifica ciò che è originario de La Mancha e che la DOP «queso manchego» protegge i formaggi di pecora provenienti da tale regione e prodotti rispettando quanto previsto nel relativo disciplinare;
  • i nomi e le immagini utilizzate da IQC per commercializzare i propri formaggi, non protetti dalla DOP «queso manchego», richiamano Don Chisciotte e La Mancha, a cui tale personaggio è tradizionalmente associato.

La decisione della Corte di Giustizia UE

Con la sentenza del 02 maggio 2019, la Corte di Giustizia UE risponde ai quesiti posti dal Tribunal Supremo spagnolo.

  1. I segni figurativi sono in grado di ingenerare confusione nel consumatore?

Il Tribunal Supremo spagnolo chiede alla Corte UE di chiarire se l’uso di segni figurativi per evocare una DOP è in grado di per sé di ingenerare confusione nel consumatore.

La Corte, tenendo conto della volontà del legislatore UE di dare ampia protezione alle DOP, ha dato una risposta affermativa alla domanda del Tribunal Supremo, asserendo che «non si può escludere che segni figurativi siano in grado di richiamare direttamente nella mente del consumatore, come immagine di riferimento, i prodotti che beneficiano di una denominazione registrata, a motivo della loro vicinanza concettuale con siffatta denominazione».

  1. Ciò vale anche nel caso di prodotti simili non protetti, ma provenienti da un’area DOP?

In secondo luogo, il Tribunal Supremo chiede alla Corte UE se la tutela garantita dalla DOP vale anche nei confronti dei produttori localizzati nella stessa regione geografica, ma i cui prodotti non sono prodotti DOP.

Secondo la Corte UE, la normativa europea «non prevede alcuna deroga in favore di un produttore stabilito in un’area geografica corrispondente alla DOP e i cui prodotti, senza essere protetti da tale DOP, sono simili o comparabili a quelli protetti da quest’ultima». Pertanto anche a questa domanda va data una risposta affermativa.

Il motivo è molto semplice: se si introducesse una deroga in favore di prodotti simili non protetti, ma provenienti dalla stessa area DOP (in questo caso ci si riferisce a tutti gli altri formaggi prodotti nella regione geografica de La Mancha, ma non rientranti nella DOP «queso manchego»), si consentirebbe ad alcuni produttori di trarre «un vantaggio indebito dalla notorietà di tale denominazione».

  1. A quale nozione di consumatore bisogna fare riferimento?

Sempre secondo la Corte di Giustizia UE, spetta al giudice nazionale la relativa valutazione, avendo riguardo alla «presunta reazione del consumatore, essendo essenziale che il consumatore effettui un collegamento tra gli elementi controversi», ossia i «segni figurativi che evocano l’area geografica il cui nome fa parte di una denominazione d’origine […] e la denominazione registrata».

La nozione di «consumatore» a cui bisogna fare riferimento per valutare se l’utilizzo di immagini richiamati una DOP può ingenerare confusione sul mercato, è quella di «consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto», tenendo presente, tuttavia, che lo scopo della normativa europea è quella di «garantire una protezione effettiva e uniforme delle denominazioni registrate contro qualsiasi evocazione nel territorio dell’Unione».

Di conseguenza, conclude la Corte di Giustizia UE:

  • la valutazione con riferimento al consumatore dello Stato membro potrebbe già da sola sufficiente a far scattare la tutela predisposta;
  • tuttavia, il fatto che si possa escludere l’evocazione per il consumatore di uno Stato membro, non è di per sé sufficiente a escludere che l’utilizzo delle immagini possa ingenerare confusione nei consumatori.

La tutela del «Made in Italy»

La sentenza della Corte di Giustizia UE rappresenta un precedente importantissimo per il c.d. «Made in Italy», perché concede ai consorzi italiani di agire contro i produttori che – attraverso l’utilizzo di immagini evocative – cercano di ingenerare nel consumatore la convinzione che loro i prodotti siano di origine protetta.

I falsi prodotti DOP non rappresentano soltanto una forma di concorrenza sleale, attribuendo un «vantaggio indebito» derivante dalla notorietà di una denominazione, ma sono in grado di determinare un danno di immagine gravissimo ai produttori italiani, conosciuti in tutto il mondo per la loro eccellenza, e che nel 2017 hanno contribuito a creare un giro d’affari legato al turismo enogastronomico pari a più di 12 miliardi di euro.

Una questione che, in fin dei conti, non interessa, quindi, soltanto i produttori.

Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

  1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
  2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
  3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

Uno dei momenti più delicati di qualsiasi operazione di M&A è sicuramente il momento in cui si affronta il tema delle «garanzie», in particolare con riferimento alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o dell’azienda (o di un ramo d’azienda), ovvero le c.d. «business warranties».

Da un lato, infatti, il compratore vorrebbe «blindare» quanto più possibile il proprio investimento, riducendo al minimo il rischio di sorprese. Al contrario, il venditore vorrebbe contenere il più possibile le garanzie offerte, che spesso si traducono in un limite temporaneo al pieno godimento dei frutti della vendita, di cui magari necessita per effettuare un altro investimento.

È bene precisare, innanzi tutto, che con il termine «garanzie» si fa normalmente riferimento, in modo atecnico, ad un articolato set di previsioni contrattuali contenenti:

  • le dichiarazioni del venditore circa lo stato di salute della società o dell’azienda (o del ramo d’azienda) ceduta;
  • gli obblighi d’indennizzo assunti dal venditore in caso di «violazione» (ossia non corrispondenza al vero) delle dichiarazioni rese;
  • gli strumenti previsti al fine di assicurare l’effettività degli obblighi d’indennizzo assunti.

Vi sono diverse ragioni per cui tale set è necessario, ma la principale è che nei contratti di M&A non trovano applicazione le garanzie civilistiche sulle vendita se non limitatamente al bene venduto, pertanto, se il bene venduto sono le partecipazioni, le garanzie non coprono gli asset sottostanti della società, e, nei casi eccezionali in cui trovano applicazione, i termini brevi e le limitazioni stringenti rendono, comunque, opportuna l’assunzione di obbligazioni accessorie volte a garantire il buon esito economico dell’operazione.

Ciò è confermato dalla pratica: nelle operazioni di M&A non vi è contratto che non includa il set delle garanzie.

Le dichiarazioni, in particolare, recepiscono normalmente la due diligence svolta dal compratore, preceduta, a sua volta, da un non disclosure agreement (NDA), finalizzato a tutelare le informazioni messe a disposizione.

Eventuali criticità che dovessero emergere dovranno essere adeguatamente riportate. Ovviamente, non è detto che un’eventuale criticità, laddove si concretizzi, debba necessariamente far scattare un obbligo d’indennizzo. Spetterà alle parti regolamentare tale aspetto, potendo anche prevedere che il relativo rischio resti a carico del compratore, magari a fronte di una riduzione del prezzo.

In merito all’obbligo d’indennizzo dovranno poi essere attentamente negoziati alcuni aspetti. I principali sono sicuramente:

  • la durata (es. maggiore per le garanzie fiscali);
  • a chi spetta l’eventuale indennizzo (al compratore o alla società; all’uno o all’altra a seconda dei casi);
  • eventuali detrazioni e /o limitazioni (es. perdite fiscali);
  • l’importo massimo indennizzabile;
  • un’eventuale franchigia;
  • la procedura d’indennizzo (es. termini per la richiesta, procedura di composizione, situazioni particolari, etc.).

Si tratta di aspetti importantissimi, che non devono essere sottovalutati. È chiaro, ad esempio, che non disciplinare adeguatamente la procedura d’indennizzo rischia di vanificare tutto il lavoro fatto prima.

Infine, dovranno essere previsti strumenti idonei al fine di assicurare la tutela effettiva del compratore. Tra questi, quelli più tradizionali sono:

  • la fideiussione;
  • il contratto autonomo di garanzia;
  • il deposito fiduciario («escrow»);
  • la dilazione di pagamento;
  • il meccanismo di «earn out»;
  • il c.d. «price adjustment»;
  • la lettera di patronage;
  • il pegno e/o l’ipoteca.

Si tratta di strumenti tutti più o meno largamente utilizzati nella pratica, che presentano ciascuno dei pro e dei contro.

Qui, tuttavia, vogliamo occuparci di un nuovo strumento di natura assicurativa, a cui si sta cominciando a fare ricorso negli ultimi tempi: le c.d. «Polizze Warranty & Indemnity».

Con una polizza W&I, in pratica, l’assicuratore, a fronte del pagamento di un premio, assume su di sé il rischio derivante dalla violazione delle dichiarazioni contenute in un contratto di M&A.

Presupposto fondamentale, ovviamente, è che la violazione derivi da fatti antecedenti al closing e non noti in quel momento (e, quindi, non evidenziati dalla due diligence effettuata).

La polizza può essere sottoscritta dal compratore (buyer side) o dal venditore (seller side). Di regola è preferita la prima soluzione. Tali polizze W&I presentano numerosi vantaggi:

  • si ottiene una garanzia a fronte di un venditore non sempre disponibile ad impegnarsi contrattualmente;
  • la polizza generalmente non prevede l’ipotesi di regresso nei confronti del venditore, salvo il caso di dolo, per cui il venditore è integralmente liberato;
  • è possibile ottenere un massimale maggiore di quello previsto nel contratto di compravendita;
  • analogamente, la copertura può essere prevista per un periodo più lungo;
  • si facilitano le relazioni con il venditore, specie nel caso ci siano più venditori ed alcuni di essi restino nella società, magari occupando un posto nel Consiglio d’Amministrazione;
  • si facilita notevolmente il processo d’indennizzo, specie nel caso in cui ci siano più venditori, magari persone fisiche;
  • il compratore riesce ad avere una maggiore certezza di solvibilità.

Il costo della polizza potrebbe essere condiviso tra le parti, eventualmente con uno sconto del prezzo, che il venditore potrebbe essere disposto a concedere tenuto conto del fatto che non dovrà rilasciare altre garanzie e potrà godere immediatamente dei frutti della vendita.

Il premio è normalmente compreso tra l’1% ed il 2% del limite d’indennizzo previsto (con un premio minimo).

Attualmente, i limiti principali di questo strumento paiono essere, oltre al prezzo, che rende lo strumento adatto principalmente ad operazioni di importo non piccolo, la franchigia standard normalmente prevista, pari all’1% dell’Enterprise Value del Target, riducibile allo 0,5% a fronte di un innalzamento del premio. Da tenere presente inoltre che la polizza W&I implica la revisione della due diligence da parte della compagnia, che può tradursi in un intervento attivo nella negoziazione delle garanzie.

A parte ciò, lo strumento è da considerare attentamente: in presenza di situazioni particolarmente complesse, potrebbe rappresentare la giusta soluzione per sbloccare situazioni di stallo negoziale e rendere più agevoli negoziazioni tra investitori professionali e PMI.

Put options on a fixed price are all clear: the Italian Supreme Court confirms the legitimacy of the repurchase agreements regarding company shares (i.e. the agreement by which the buyer undertakes to resell the shares at a later time, upon the occurrence of certain conditions, upon simple request of the seller) without any participation in the occurred losses, and admits that such cases may pass the test for the leonina societas (under Italian law a permanent and total exclusion of some partners from participation in profits and losses is prohibited).

Those who intend to invest, instead of opting for a funding, may become part of the company structure through the acquisition of a participation in the share capital and, at the same time, insure oneself a safe way out.

To avoid suffering any negative outcomes, the silent partner may, through a shareholders’ agreement, agree with the founders of the company his exit through the sale of the equity investment at a given time, under certain circumstances and at the price of purchase. Indeed, there could be room for profit too: the put option, in fact, may include interests in the agreed price of repurchase.

Focus on this new corporate instrument is recommended. It could favour numerous strategic alliances between financiers and entrepreneurs looking for capital.

The author of this article is Giovannella Condò.

Quando il contratto di agenzia è da considerarsi internazionale?

Secondo le norme di diritto internazionale privato vigenti in Italia (Art.1 Reg. 593/08 “Roma I”) il contratto si considera internazionale “in circostanze che comportino un conflitto di leggi”.

Le circostanze che più spesso comportano un conflitto di leggi in un contratto di agenzia, rendendolo quindi “internazionale”, sono (i) l’ubicazione della sede del preponente in un Paesi diverso dalla sede dell’agente; oppure (ii) l’esecuzione del contratto all’estero, anche quando il preponente e l’agente abbiano sede nello stesso Paese.

Quando si applica la legge italiana ad un contratto di agenzia?

Sempre in base al Regolamento “Roma I”, in linea di principio il diritto italiano si può applicare ad un contratto di agenzia internazionale (i) se viene scelto delle parti come legge regolatrice del contratto (in modo espresso o nelle altre modalità indicate dall’art.3); oppure (ii) in mancanza di scelta, quando l’agente risieda o abbia sede in Italia (secondo il concetto di “residenza” contenuto all’art.19).

Qual è la disciplina principale del contratto di agenzia in Italia?

In Italia, le norme sostanziali che regolano il contratto di agenzia ed in particolare il rapporto fra le parti preponente ed agente, sono prevalentemente contenute negli articoli da 1742 a 1753 del Codice Civile, che sono stati modificati in più occasioni con il recepimento della Direttiva 653/86/CE.

Qual è il ruolo degli accordi economici collettivi?

Da molti anni, in Italia, i contratti di agenzia sono regolati anche dagli Accordi Economici Collettivi (AEC), ovvero quegli accordi che vengono stipulati periodicamente dalle associazioni rappresentative dei preponenti e degli agenti in vari settori (industria, commercio e diversi altri).

Dal punto di vista della loro efficacia, se ne distinguono due tipologie: gli AEC aventi forza di legge (efficacia “erga omnes”) i quali peraltro contengono norme piuttosto generali e hanno quindi un campo di applicazione limitato; e gli AEC “di diritto comune”, che si sono via via avvicendati nel corso degli anni e sono finalizzati a vincolare solo preponenti ed agenti iscritti a tali associazioni.

In generale, gli Accordi Economici Collettivi intendono recepire le norme del Codice Civile (e, di riflesso, quelle della Direttiva 653/86) ma – soprattutto quelli di diritto comune – introducono deroghe anche rilevanti. Ad esempio, essi consentono al preponente modifiche unilaterali alla zona, ai prodotti, alla clientela, alla misura della provvigione; regolano in maniera parzialmente diversa la durata del periodo di preavviso per il recesso dai contratti a tempo indeterminato; quantificano il compenso per il patto di non concorrenza post-contrattuale; hanno una peculiare disciplina in materia di indennità di risoluzione del rapporto.

Sull’indennità di fine rapporto, in particolare, gli AEC hanno generato non pochi problemi di conformità con la Direttiva 653/86/CE, di cui si è occupata anche la Corte di Giustizia CE ma tuttora non del tutto risolti per effetto di una costante giurisprudenza delle Corti italiane che, di fatto, mantiene tale trattamento in vigore.

La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che i contratti collettivi abbiano una sfera di applicazione geografica limitata al territorio italiano.

Gli AEC regolano dunque automaticamente il contratto di agenzia se la legge regolatrice è quella italiana e se il contratto viene eseguito dall’agente in Italia, ma (nel caso degli accordi di diritto comune) all’ulteriore condizione che entrambe le parti siano iscritte ad una delle associazioni che hanno stipulato tali Accordi (secondo una parte della dottrina, è sufficiente che vi sia iscritta anche solo la parte preponente).

Anche in mancanza di tali condizioni cumulative, tuttavia, gli AEC di diritto comune potranno ugualmente valere se siano richiamati espressamente nel contratto, oppure se le loro disposizioni vengano costantemente applicate dalle parti.

Quali sono gli altri principali requisiti e adempimenti in materia di contratto di agenzia?

L’Enasarco

L’Enasarco è una Fondazione di diritto privato alla quale devono, per legge, essere obbligatoriamente iscritti gli agenti in Italia.

La Fondazione Enasarco amministra principalmente un fondo di previdenza integrativo per gli agenti ed un fondo per l’indennità di risoluzione del rapporto di agenzia (calcolata secondo i criteri dell’AEC di riferimento per il settore).

Tipicamente, nei contratti di agenzia “domestici”, il preponente iscrive l’agente presso l’Enasarco e versa  i contributi ad entrambi i fondi durante l’intero rapporto.

Tuttavia, mentre l’iscrizione e il versamento dei contributi previdenziali sono sempre obbligatori in quanto previsti dalla legge, viceversa la contribuzione al FIRR (fondo indennità risoluzione del rapporto) è obbligatoria solo in quei contratti di agenzia ai quali si applicano gli AEC di diritto comune.

Quali sono le regole per i contratti internazionali?

Per quanto riguarda l’iscrizione all’Enasarco, a fronte di una disciplina legislativa e regolamentare non molto chiara, un contributo interpretativo importante è stato fornito dal Ministero del Lavoro nel 2013 in risposta ad un interpello (19.11.13 n.32).

Il Ministero, riferendosi alla disciplina europea (Regolamento CE n.883/2004 come modificato dal Regolamento (CE) n. 987/2009) ha chiarito che l’iscrizione all’Enasarco è obbligatoria nei seguenti casi:

  • agenti che operano sul territorio italiano in nome e per conto di preponenti italiani o esteri aventi una sede o una dipendenza in Italia;
  • agenti italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri anche se privi di sede o dipendenza in Italia;
  • agenti che risiedono in Italia e qui svolgono una parte sostanziale della loro attività;
  • agenti che non risiedono in Italia, ma hanno in Italia il proprio centro di interessi;
  • agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero per una durata non superiore a 24 mesi.

Nei rapporti di agenzia da eseguirsi al di fuori del territorio UE, non applicandosi i Regolamenti appena citati, sarà opportuno verificare di volta in volta se l’obbligo di osservare la legislazione previdenziale italiana sia previsto da eventuali trattati internazionali di cui facciano parte i Paesi delle due parti.

Camera di Commercio e Registro delle Imprese

Chiunque intenda avviare un’attività quale agente di commercio in Italia, ha l’obbligo di effettuare una SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) alla Camera di Commercio territorialmente competente la quale iscrive l’agente al Registro delle Imprese se l’agente ha forma di impresa, o viceversa ad una sezione apposita del REA (Repertorio delle Notizie Economiche ed Amministrative) della Camera stessa (D. Lgs.59 del 26.3.2010 che ha recepito a Direttiva 2006/123/CE “Direttiva Servizi”).

Tali formalità hanno sostituito l’iscrizione al vecchio “ruolo agenti” che è stato soppresso dalla suddetta legge, la quale prevede inoltre tutta una serie di requisiti che gli agenti debbono avere al fine di poter avviare l’attività ( tali requisiti riguardano istruzione, esperienza, assenza di condanne, ecc.).

Benché la mancanza della suddetta iscrizione non comporti la nullità del contratto, è opportuno che il preponente, prima di conferire l’incarico ad un agente italiano, si accerti che questi l’abbia effettuata in quanto è comunque obbligatoria.

Competenza territoriale per le controversie (art.409 e seguenti c.p.c.)

In base agli artt.409 e seguenti del Codice di Procedura Civile, nel caso in cui l’agente svolga la sua prestazione contrattuale a carattere prevalentemente personale anche se in forma autonoma (agente “parasubordinato”) la sottoposizione del contratto alla legge italiana ed al foro italiano comporterà che eventuali controversie derivanti dal contratto di agenzia saranno inderogabilmente sottoposte al Giudice del lavoro nella circoscrizione in cui si trova il domicilio dell’agente (v. art.413 c.p.c.) ed il processo seguirà il “rito del lavoro” ovvero regole procedurali analoghe a quelle valevoli nelle controversie nell’ambito del lavoro subordinato.

Questa regola, in linea di principio, varrà quando l’agente stipuli il contratto personalmente o come ditta individuale, mentre l’opinione prevalente è che non si applichi nel caso in cui l’agente rivesta la forma di società.

Applicazione delle regole ai casi più frequenti di contratto internazionale di agenzia

Cerchiamo ora di adattare le regole sopra descritte alle situazioni più frequenti di contratto internazionale di agenzia, tenendo presente che si tratta di semplici esempi schematici, dovendosi in realtà verificare di volta in volta con attenzione le circostanze del caso specifico.

Preponente italiano ed Agente estero – contratto da eseguirsi all’estero

Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti, salve le eventuali norme imperative del Paese dove l’agente risiede od opera, secondo le norme del Regolamento Roma I.

AEC: non regolano il contratto automaticamente (in quanto l’agente opera all’estero) ma solo ove espressamente richiamati o di fatto applicati. Questo potrebbe accadere più o meno intenzionalmente, ad esempio se il preponente italiano decidesse di adottare anche per gli agenti esteri gli stessi modelli di contratto utilizzati per agenti italiani, contenenti riferimenti agli accordi economici collettivi.

Enasarco: non vi sono normalmente obblighi di iscrizione né di contribuzione a favore dell’agente non italiano che risiede e svolge l’attività contrattuale esclusivamente all’estero.

Camera di Commercio:  non vi è obbligo di iscrizione stanti i suddetti presupposti.

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): se fosse validamente pattuito il foro italiano, l’agente estero anche se persona fisica o ditta individuale non potrebbe far valere questa disposizione per spostare la causa presso le corti del proprio Paese in quanto l’art.413 c.p.c. è una norma sulla competenza interna che presuppone l’ubicazione dell’agente in Italia. Inoltre, tale norma dovrebbe soccombere di fronte alle regole di giurisdizione stabilite dalla legislazione UE, come ha stabilito la Corte di Cassazione italiana e come ritiene autorevole dottrina.

Preponente estero ed Agente italiano – contratto da eseguirsi in Italia

Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, anche in mancanza di scelta, per effetto della residenza o sede in Italia dell’agente.

AEC: quelli aventi forza di legge (“erga omnes”) regolano il contratto, mentre quelli di diritto comune difficilmente si applicheranno in modo automatico (il preponente estero solitamente non sarà iscritto alle associazioni italiane che hanno stipulato l’AEC) ma potrebbero nondimeno valere se richiamati nel contratto o se applicati di fatto.

Enasarco: il preponente estero dovrà iscrivere l’agente italiano all’Enasarco, pena sanzioni e/o richieste di risarcimento danni da parte dell’agente. In conseguenza dell’iscrizione, il preponente dovrà assolvere all’obbligo di contribuzione previdenziale mentre non dovrebbe sussistere l’obbligo di versamento al Fondo Indennità di Fine Rapporto. Tuttavia, un preponente che effettuasse i versamenti periodici al FIRR anche quando non dovuti, potrebbe ritenersi avere tacitamente accettato gli AEC come applicabili al rapporto di agenzia.

Camera di commercio: l’agente italiano dovrà risultare iscritto alla CCIAA ed a questo proposito è opportuno che il preponente verifichi che lo sia effettivamente, prima di stipulare il contratto.

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):se il foro competente è quello italiano (per scelta delle parti o anche in assenza di scelta in quanto luogo della prestazione dei servizi secondo il Regolamento 1215/12) e se l’agente è persona fisica o ditta individuale situata in Italia, varrà la regola in questione.

Preponente italiano ed Agente italiano – contratto da eseguirsi all’estero

Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, in mancanza di qualsiasi scelta, se l’agente risieda o abbia sede in Italia.

AEC: non dovrebbero valere (eseguendosi il contratto all’estero) se non espressamente richiamati o applicati.

Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, l’obbligo di iscrizione sussiste qualora l’agente, pur essendo stato incaricato per l’estero, risieda e svolga una parte sostanziale dell’attività in Italia o abbia qui il centro dei propri interessi oppure si rechi all’estero per un periodo non superiore a 24 mesi, se valgono i Regolamenti UE. In caso di rapporto da eseguirsi in Paesi extra UE, l’obbligatorietà dell’iscrizione sarà da verificare di volta in volta.

Camera di commercio: l’agente che abbia avviato l’attività e si sia giuridicamente costituito in Italia è tenuto in linea di principio ad iscriversi presso la Camera di Commercio.

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):  la regola vale se l’agente è persona fisica o ditta individuale italiana e sia contrattualmente pattuito il foro in Italia.

Preponente estero ed agente estero – contratto da eseguirsi in Italia

Legge italiana: in linea di principio regola il contratto solo se scelta dalle parti.

AEC: se il contratto è regolato dalla legge italiana, valgono gli accordi aventi forza di legge, non invece quelli di diritto comune se non espressamente richiamati o di fatto applicati.

Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, sulla base dei Regolamenti UE l’obbligo di iscrizione potrebbe sussistere per il preponente estero anche a favore dell’agente che risieda all’estero se opera in Italia o se ha in Italia il centro dei propri interessi. Viceversa, il caso andrà verificato di volta in volta in base alle norme vigenti.

Camera di commercio: in linea di principio, l’agente che si sia giuridicamente costituito all’estero non è tenuto ad assolvere agli obblighi di iscrizione in Italia. Tuttavia, la questione potrebbe essere più complessa se l’agente avesse una sede e svolgesse prevalentemente la propria attività in Italia (il che potrebbe avere un impatto anche sulla determinazione del diritto applicabile).

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):  in assenza di scelta diversa, il foro italiano potrebbe essere competente in quanto luogo di prestazione dei servizi, tuttavia le norme in questione non dovrebbero applicarsi se l’agente (persona fisica o ditta individuale) non abbia una sede in Italia.

Conclusioni

Si auspica che le osservazioni svolte fino a qui, pur non esaustive, siano utili per comprendere le possibili conseguenze dell’applicazione della legge italiana ad un contratto internazionale di agenzia e per fare delle scelte oculate in sede di redazione del contratto. Come sempre, si raccomanda di non basarsi acriticamente su modelli o precedenti senza adeguata considerazione delle circostanze del caso.

Falsi prodotti DOP – Corte di Giustizia UE si pronuncia sul caso dei formaggi de La Mancha

12 Giugno 2019

  • Europa
  • Italia
  • Diritto alimentare

Le operazioni di acquisizione (M&A) in Italia, nella maggior parte dei casi, vengono realizzate attraverso acquisto di partecipazioni (‘share deal’) o di azienda o ramo d’azienda (‘asset deal’). Per ragioni principalmente fiscali sono più frequenti gli share deal rispetto agli asset deal, nonostante l’asset deal consenta una migliore limitazione dei rischi per l’acquirente. Vedremo le principali differenze tra share deal e asset deal in termini di rischi e di rapporti tra venditore e acquirente.

Preferenza per operazioni di M&A mediante acquisto di partecipazioni (‘share deal’) rispetto ad acquisto di azienda o ramo d’azienda (‘asset deal’) nel mercato italiano

In Italia, le operazione di acquisizione (M&A) vengono realizzate, nella maggior parte dei casi, attraverso acquisto di partecipazioni (‘share deal’) o di azienda o ramo d’azienda (‘asset deal’). Altre modalità, come la fusione, sono meno frequenti.

Con l’acquisto di quote o azioni della società acquisita (‘share deal’) l’acquirente acquisisce, indirettamente, l’intero patrimonio aziendale (attività, passività, rapporti) e quindi si fa carico di tutti i rischi relativi alla precedente gestione della società.

Con l’acquisto dell’azienda o di un ramo d’azienda (‘asset deal) l’acquirente acquisisce un insieme di beni e rapporti organizzati per l’esercizio dell’impresa (immobili, impianti, dipendenti, contratti, crediti, debiti, ecc.). Il vantaggio dell’asset deal risiede nella possibilità per le parti di definire il perimetro del trasferimento e, quindi, per l’acquirente, di limitare i rischi legali dell’operazione.

Nonostante questo vantaggio, la maggior parte delle operazioni di acquisizione in Italia avviene attraverso acquisto di partecipazioni. Nel 2018 gli acquisti di partecipazioni (azioni o quote) sono state circa 78.400, mentre le cessioni di azienda sono state circa 35.900 (fonte: www.notariato.it/it/news/dati-statistici-notarili-anno-2018). E va osservato che il dato delle cessioni d’azienda comprende anche le aziende di piccole o piccolissime dimensioni esercitate da imprenditori individuali, per le quali l’alternativa dello share deal (pur praticabile, attraverso il conferimento dell’azienda in una newco e la cessione delle partecipazioni nella newco) non è percorribile in concreto per ragioni di costo.

Costi fiscali delle operazioni di acquisizione (M&A) in Italia

La principale ragione della preferenza per l’acquisto di partecipazione (‘share deal’) rispetto all’acquisto di azienda (‘asset deal’) risiede nei costi fiscali dell’operazione. Vediamo quali sono, in linea generale.

Nell’acquisto di partecipazioni, le imposte dirette a carico del venditore vengono calcolate sulla plusvalenza, secondo le seguenti percentuali:

  • se il venditore è una società di capitali (s.p.a.; s.r.l.; s.a.p.a.) l’aliquota è del 24% della plusvalenza. Ma, a determinate condizioni, si applica il regime della c.d. PEX (participation exemption) con applicazione dell’aliquota del 24% solo sul 5% della plusvalenza.
  • Se il venditore è una persona fisica l’aliquota sulla plusvalenza è del 26%.
  • Se il venditore è una società di persone (s.s.; s.n.c..; s.a.s.) la plusvalenza è integralmente imponibile, tuttavia al ricorrere di determinate condizioni, l’imponibilità è limitata al 60% dell’ammontare della plusvalenza. In entrambi i casi l’aliquota applicabile è quella marginale riferita a ciascun socio a cui il reddito viene imputato per trasparenza.

Nell’acquisto di partecipazioni si applica l’imposta di registro, normalmente a carico dell’acquirente, di euro 200.

Anche nell’acquisto di azienda, le imposte dirette a carico del venditore vengono calcolate sulla plusvalenza. Se il venditore è una società di capitali, l’aliquota è del 24% della plusvalenza. Se il venditore è una società di persone (con soci persone fisiche) o un imprenditore individuale, le aliquote dipendono dal reddito del venditore.

Nell’acquisto di azienda si applicano le imposte indirette, normalmente a carico dell’acquirente, calcolate sulla parte del prezzo attribuibile ai singoli beni trasferiti. Il prezzo è il risultato delle attività trasferite detratte le passività trasferite. Le percentuali sono diverse a seconda del tipo di beni. In generale:

  • ai beni mobili si applica una imposta di registro del 3%;
  • all’avviamento si applica una imposta di registro del 3%;
  • ai fabbricati si applica una imposta di registro del 9% (e imposte ipotecarie e catastali in misura fissa di euro 50 ciascuna);
  • ai terreni si applica una imposta di registro tra il 9 e il 12% (a seconda dell’acquirente) e imposte ipotecarie e catastali in misura fissa di euro 50 ciascuna.

Nel caso in cui l’azienda sia composta da beni soggetti ad aliquote diverse e le parti abbiano pattuito un corrispettivo unico, senza distinzione in merito al valore attribuibile ai singoli beni, l’imposta deve calcolarsi applicando all’unico corrispettivo pattuito l’aliquota più elevata.

Va sottolineato che l’Agenzia delle Entrate può sottoporre ad accertamento il valore attribuito dalle parti ai beni immobili e all’avviamento, con conseguente rischio di applicazione di maggiori imposte.

Share deal e asset deal: rischi e responsabilità verso i terzi

Nell’acquisto di quote o azioni (‘share deal’) l’acquirente si fa carico, indirettamente, di tutti i rischi relativi alla precedente gestione della società.

Nell’acquisto dell’azienda o di un ramo d’azienda (‘asset deal’), invece, le parti possono decidere il perimetro del trasferimento (quali beni e rapporti) così stabilendo, nei rapporti tra loro, i rischi che l’acquirente assume.

Vi sono però alcune norme, che le parti non possono derogare, relative ai rapporti con i terzi, che influiscono significativamente sui rischi per il venditore e l’acquirente e quindi sulla negoziazione dell’accordo tra le parti. Le principali sono le seguenti.

  • Lavoratori dipendenti: il rapporto di lavoro continua con l’acquirente dell’azienda. Il venditore e l’acquirente sono obbligati in solido per tutti i crediti del lavoratore al momento del trasferimento (art. 2112 c.c.).
  • Debiti: il venditore è obbligato al pagamento di tutti i debiti sino alla data del trasferimento. L’acquirente è obbligato per i debiti che risultano dai libri contabili (art. 2560 c.c.).
  • Debiti e responsabilità fiscali: il venditore è obbligato al pagamento di debiti, imposte e sanzioni fiscali relative al periodo sino alla data del trasferimento.
    L’acquirente, in aggiunta all’obbligo relativo ai debiti fiscali che risultano dai libri contabili (art. 2560 c.c.), è responsabile per le imposte e sanzioni, anche se non risultano dai libri contabili, con i seguenti limiti (art. 14 D.lgs. 472/1997):
  • beneficio della preventiva escussione del venditore;
  • fino al valore dell’azienda o del ramo d’azienda acquistato;
  • per le imposte e sanzioni non ancora contestate, la responsabilità riguarda solo quelle relative all’anno della vendita dell’azienda e ai due precedenti; per le imposte e sanzioni relative al periodo anteriore ai due anni precedenti la vendita dell’azienda, la responsabilità riguarda solo quelle contestate entro tale periodo;
  • nei limiti del debito risultante alla data di trasferimento dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria. L’Agenzia delle Entrate è tenuta a rilasciare un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso e sui debiti. Il certificato negativo, o non rilasciato entro 40 giorni dalla richiesta, libera l’acquirente da responsabilità.
  • Contratti: le parti possono scegliere quali contratti trasferire. Rispetto ai contratti trasferiti, l’acquirente subentra, anche senza il consenso del terzo contraente, nei contratti per l’esercizio dell’azienda che non hanno carattere personale (sono a carattere personale quelli che prevedono da parte del venditore una prestazione oggettivamente infungibile o soggettivamente infungibile). Inoltre il terzo contraente può recedere dal contratto entro tre mesi, se sussiste una giusta causa (ad esempio se l’acquirente non garantisce, per la propria situazione patrimoniale o per capacità tecniche, di poter adempiere al contratto) (art. 2558 c.c.).

Alcuni strumenti per affrontare i rischi

Per affrontare i rischi derivanti dalle responsabilità verso i terzi e i rischi generali connessi all’acquisizione, vi sono diversi strumenti negoziali e contrattuali che possono essere utilizzati. Vediamone alcuni.

Nelle operazioni di acquisto dell’azienda o di rami d’azienda (‘asset deal’):

  • Lavoratori dipendenti: è possibile concordare con il lavoratore modifiche alle condizioni contrattuali e rinunce alla responsabilità solidale dell’acquirente e del venditore (ex art. 2112 c.c.). L’accordo con i lavoratore per essere valido deve essere concluso in sede ‘protetta’ (ad esempio: con l’assistenza delle organizzazioni sindacali).
  • Debiti:
  • trasferire all’acquirente i debiti riducendo il prezzo in misura corrispondente; la riduzione del prezzo comporta, inoltre, una minor costo fiscale dell’operazione. In caso di trasferimento dei debiti, per tutelare il venditore si può ottenere dal creditore una dichiarazione di liberazione del venditore dalla responsabilità ex art. 2560 c.c.; oppure si può prevedere che il pagamento del debito da parte dell’acquirente avvenga contestualmente al trasferimento dell’azienda (‘closing’).
  • Per i debiti non trasferiti all’acquirente, ottenere dal creditore una dichiarazione di liberazione dell’acquirente dalla responsabilità ex art. 2560 c.c.
  • Per i debiti per i quali non sia possibile ottenere la dichiarazione di liberazione da parte del creditore, pattuire forme di garanzia a favore del venditore (per i debiti trasferiti) o a favore dell’acquirente (per i debiti non trasferiti), quali ad esempio la dilazione del pagamento (a favore dell’acquirente) di parte del prezzo, il deposito fiduciario (‘escrow’) di parte del prezzo, fideiussioni bancarie o da parte dei soci.
  • Debiti e responsabilità fiscali:
  • ottenere dall’Agenzia delle Entrate il certificato ex art. 14 D.lgs. 472/1997 sui debiti e le contestazioni in corso;
  • trasferire all’acquirente i debiti riducendo il prezzo in misura corrispondente;
  • pattuire le forme di garanzia a favore del venditore (per i debiti trasferiti) e a favore dell’acquirente (per i debiti non trasferiti o per le contestazioni che non sono ancora debiti), quali ad esempio quelle sopra esposte per i debiti in generale.
  • Contratti: per quelli che vengono trasferiti:
  • verificare che le prestazioni a carico del venditore sino alla data del trasferimento siano state regolarmente adempiute, per evitare il rischio di contestazioni del terzo contraente che possono bloccare l’esecuzione del contratto;
  • almeno per i contratti più importanti (e salvo ragioni di riservatezza), cercare di ottenere conferma dal terzo contraente del benestare al trasferimento del contratto.

Nelle operazioni di acquisto di partecipazioni (‘share deal’), in cui l’acquirente si fa carico, indirettamente, di tutti i rischi relativi alla precedente gestione della società, alcuni strumenti sono:

  • Due diligence. Svolgere una approfondita due diligence legale, fiscale e contabile sulla società, per valutare preventivamente i rischi e gestirli nella trattativa e nei contratti.
  • Dichiarazioni e garanzie (‘R&W) e indennizzo. Prevedere nel contratto di acquisizione (‘share purchase agreement’) un set dettagliato di dichiarazioni e garanzie – e obblighi di indennizzo in caso di non conformità – a carico del venditore relativamente alla situazione della società (‘business warranties’: bilancio; situazione patrimoniale di riferimento; contratti; contenzioso; rispetto della normativa ambientale; autorizzazioni per lo svolgimento dell’attività; debiti; crediti ecc.). La trattativa sulle dichiarazioni e garanzie normalmente recepisce, gestendoli, gli esiti della due diligence (ad esempio: viene escluso dalle dichiarazioni e garanzie e dall’indennizzo un contenzioso emerso in due diligence, del quale le parti tengono conto nella definizione del prezzo). La pattuizione di dichiarazioni e garanzie sulla situazione della società (‘business warranties’) e dell’obbligo di indennizzo sono necessari negli share deal in Italia, in quanto in mancanza di tali clausole l’acquirente non può ottenere dal venditore (salvo situazioni estreme e molto rare) un risarcimento o indennizzo in caso la situazione della società sia diversa da quella considerata al momento dell’acquisto (così ad esempio: Cass. Civ. 16963/2014).
  • Garanzie per l’acquirente. Strumenti per garantire all’acquirente l’effettiva possibilità di ottenere l’indennizzo (o parte dell’indennizzo) in caso di non conformità delle dichiarazioni e garanzie. Tra queste: (a) la dilazione del pagamento di parte del prezzo; (b) il versamento di parte del prezzo in un deposito fiduciario (‘escrow’) per la durata delle dichiarazioni e garanzie e, in caso di contestazioni, fino a che la contestazione non è definita; (c) fideiussione bancaria;; (d) polizza W&I, contratto di assicurazione che copre il rischio dell’acquirente in caso di violazioni di dichiarazioni e garanzie, sino ad un importo massimo (ed esclusi alcuni rischi).

Altri fattori che incidono sulla scelta tra share deal e asset deal

Naturalmente la scelta di realizzare un’operazione di acquisizione in Italia mediante share deal o asset deal, dipende anche da altri fattori oltre a quello dei costi fiscali dell’operazione. Eccone alcuni.

  • Acquisto di parte del business. Si sceglie l’asset deal, quando l’operazione non riguarda l’acquisto dell’intera azienda del venditore ma solo una sua parte (un ramo d’azienda).
  • Situazione della società problematica. Si sceglie l’asset deal quando la situazione della società target è così problematica che l’acquirente non è disponibile ad assumere tutti i rischi derivanti dalla precedente gestione, ma solo parte di essi.
  • Mantenimento di un ruolo da parte del venditore. Si sceglie lo share deal quando si vuole conservare al venditore un ruolo nella società acquisita. In questo caso, oltre ad un ruolo nel management, è frequente il mantenimento da parte del venditore di una partecipazione di minoranza, con clausole di exit (diritti di put e call) decorso un certo periodo di tempo. Clausole che, spesso, legano il prezzo ai risultati futuri e, quindi, nell’interesse dell’acquirente incentivano il venditore nel ruolo manageriale e, nell’interesse del venditore, valorizzano prospettive reddituali non concretizzate al momento dell’acquisto.

Dal 1° agosto 2021 non sarà più necessario, per la costituzione di una SRL – società a responsabilità limitata, recarsi dal notaio: la procedura potrà anche essere realizzata completamente on line, salvo casi eccezionali. Ciò è previsto dalla Direttiva U.E. 2019/1151, che impone agli stati di adeguarsi entro due anni. Vediamo cosa prevede la Direttiva.

Come si costituisce una S.r.l. in Italia oggi

In Italia, per costituire una società e, in particolare, una società a responsabilità limitata, è sempre necessario rivolgersi ad un notaio.

Ciò vale anche per la c.d. «SRL semplificata», introdotta nel 2012 dal Decreto Legge «Liberalizzazioni». In questo caso, infatti, la legge prevede che, a fronte dell’utilizzo di uno statuto standard non modificabile, non vi siano oneri notarili da sostenere. Tuttavia, resta sempre necessario comparire avanti ad un notaio.

Cosa cambierà da agosto 2021 con il recepimento della Direttiva U.E. 2019/1151

Le cose dovranno cambiare con l’entrata in vigore della Direttiva U.E. 2019/1151, che modifica la Direttiva U.E. 2017/1132 in tema di uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario.

Entro il 1° agosto 2021, gli Stati membri dovranno aggiornare le procedure per la costituzione di una società in modo da garantire un doppio binario.

Dovrà, cioè, essere possibile costituire una società sia con il metodo tradizionale, ossia rivolgendosi ad un notaio, oppure con procedure esclusivamente on line.

Due eccezioni

  • l’art. 13-ter, par. 4, dispone che «ove sia giustificato da motivi di interesse pubblico per impedire l’usurpazione o l’alterazione di identità, gli Stati membri possono adottare misure che potrebbero richiedere la presenza fisica ai fini della verifica dell’identità del richiedente dinanzi a un’autorità o a qualsiasi persona od organismo incaricati… Gli Stati membri provvedono affinché la presenza fisica del richiedente possa essere richiesta solo se vi sono motivi di sospettare una falsificazione dell’identità e garantiscono che qualsiasi altra fase della procedura possa essere completata online»;
  • l’art. 13-octies, co. 8, dispone che «ove giustificato da motivi di interesse pubblici a garantire il rispetto delle norme sulla capacità giuridica e sull’autorità dei richiedenti di rappresentare una società, qualsiasi autorità o qualsiasi persona od organismo incaricato… può chiedere la presenza fisica del richiedente… Gli Stati membri garantiscono che tutte le altre fasi della procedura possano essere comunque completate on line».

Gli Stati membri dovranno mettere a disposizione i modelli necessari per la costituzione delle società a responsabilità limitata «in almeno una lingua ufficiale dell’Unione ampiamente compresa dal maggior numero possibile di utenti transfrontalieri».

Rischi

La direttiva rappresenta, indubbiamente, un interessante tentativo di semplificazione, il cui successo dipenderà, tuttavia, da come verrà recepita dai singoli Stati membri.

I rischi principali sono almeno due:

  1. il primo, facilmente intuibile, è che gli Stati membri rendano troppo oneroso l’accertamento dell’identità od il potere rappresentativo dei richiedenti, rendendo più semplice, in definitiva, il tradizionale ricorso ad un notaio;
  2. il secondo è che le procedure on line siano poco chiare o comprensibili, specie agli utenti stranieri. In tal senso, non appare sufficiente che i modelli siano resi disponibili, ma sarà necessario che le procedure online siano orientate alla maggiore semplificazione possibile e che i modelli siano tutti disponibili almeno in lingua inglese.

Infine, è evidente che la digitalizzazione del procedimento di costituzione di una società non elimina l’opportunità di rivolgersi ad un professionista con il compito di consigliare il cliente nelle scelte che sarà necessario fare, ad esempio in materia di corporate governance.

Con la Direttiva 85/374/CEE del 25.07.1985, trasfusa nel DPR 224/1988, poi abrogato perché confluito nel D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo), sono state introdotte regole chiare sugli obblighi risarcitori in capo al produttore allorché un prodotto immesso sul mercato si riveli poi difettoso.

Con la successiva Direttiva 2001/95/CE, anch’essa recepita internamente con il D.lgs 172/2004 e successivamente riversata nel  Codice del Consumo, la materia è stata ulteriormente regolamentata sotto il profilo della sicurezza generale dei prodotti.

A livello europeo e nazionale, dunque, i doveri e gli eventuali obblighi risarcitori che derivano dalla distribuzione di un bene difettoso trovano un’organica disciplina in favore del consumatore.

Sebbene i danni da prodotto interessino quotidianamente anche beni acquistati o utilizzati da operatori economici, società, professionisti, ecc., nei rapporti B2B una tale disciplina (organica) manca del tutto.

Ciò non significa che il produttore sia immune dalle responsabilità nei riguardi di un professionista per avere distribuito, direttamente o tramite una rete di rivenditori, un prodotto difettoso.

Caso pratico

Un veicolo acquistato da un autotrasportatore, ormai fuori garanzia, prende fuoco mentre è in sosta (es. per un problema al motore) e l’incendio rende inservibile il mezzo per diverso tempo, con conseguenti perdite di commesse e altro; quali azioni può intraprendere l’autotrasportatore per il ristoro del danno subito e, soprattutto, contro chi deve agire?

Si tratta di una fattispecie del tutto particolare ma non così infrequente: il danneggiato si trova nell’infelice condizione di non potere agire contro il venditore, vuoi per il tempo trascorso dalla compravendita del bene (es. è spirato il termine ex art. 1495 c.c.), vuoi perché è scaduta la garanzia, e l’unica opzione rimasta è quella di intentare causa contro il produttore del mezzo.

Occorre perciò chiedersi se esistano principi o norme di legge che impongono al costruttore di veicoli di risarcire direttamente i danni causati dalla difettosità dei suoi prodotti in assenza di un obbligo contrattuale e quando il danneggiato non è un consumatore.

Prima di tutto, per dottrina e giurisprudenza l’applicabilità della normativa sulla responsabilità per prodotto difettoso trova il suo limite nel soggetto che fa valere il diritto al risarcimento (i “considerando” della Direttiva 85/374/CEE parlano solo di consumatore).

In più, le disposizioni a tutela del consumatore contemplano una precisa tipologia di danno che mal si adatta ai rapporti B2B: infatti, la definizione offerta da tutti i testi consumeristici si rifà ad eventi tragici quali la “… morte …” o le “… lesioni personali …” o a pregiudizi come la “… distruzione di una cosa diversa dal prodotto purché … normalmente destinato all’uso e consumo privato …e … per proprio uso o consumo privato …” (v. art. 9 Direttiva cit. – art. 123 Codice del Consumo), ipotesi tutte che solo un consumatore/persona fisica può lamentare, certamente non i soggetti che interagiscono per motivi commerciali e di business.

A tal proposito la giurisprudenza ha da tempo chiarito che il D.P.R. 224/88, e di riflesso il Codice del Consumo, non considera il c.d. «danno commerciale» prodottosi in capo all’operatore economico nell’esercizio del suo business, ma accorda tutela solo per i danni arrecati alla persona o ai beni del consumatore (Cass. Civ. Sez. III, 07.05.2013, n. 9254 in Danno e Resp., 2015, 11, 1005).

Quanto detto porta ad escludere l’applicabilità del Codice del Consumo e delle disposizioni consumeristiche in generale nei rapporti tra non consumatori ovvero tra società, operatori economici e professionisti.

Riprendendo il caso pratico iniziale, occorre dunque chiedersi quali iniziative rimangano all’impresa che ha subito la perdita del veicolo andato distrutto dall’incendio.

La risposta viene per esclusione: non potendosi applicare le disposizioni del Codice del Consumo per i rilievi già esposti e ed escludendosi la garanzia riconosciuta sul bene compravenduto (nel caso prospettato la garanzia è già scaduta), al danneggiato non resta che agire in forza delle norme comuni in tema di responsabilità da illecito (art. 2043 c.c.), con tutte le conseguenze del caso e quindi tenendo a mente che:

  • Non ci si muove più nell’ambito della responsabilità oggettiva (anche se relativa) del produttore, così come sancita dalla Direttiva 85/374/CEE, ma sul terreno della responsabilità per colpa o dolo;
  • L’onere della prova appare più gravoso in quanto è necessario dimostrare il fatto illecito, il danno, il nesso causale danno/illecito e, soprattutto, l’elemento soggettivo della colpa o del dolo (TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, XIX ed., Giuffrè, § 473, 869), mentre le disposizioni a tutela del consumatore impongono al danneggiato il solo onere di provare il difetto, il danno e a relazione causale tra difetto e danno, senza scomodare gli elementi soggettivi del dolo e della colpa ora citati;
  • Non si può fare affidamento sulla decadenza decennale del diritto al risarcimento (art. 11 Direttiva 85/374/CEE – art. 126 Codice del Consumo) ma occorre fare i conti con il più breve termine di prescrizione quinquennale dell’illecito extracontrattuale (art. 2947 c.c.);
  • Vi è l’astratta possibilità di scontrarsi con delle clausole di esonero della responsabilità, beninteso applicabili solo tra le parti e limitate a diritti disponibili in assenza di dolo o colpa grave (clausole impensabili in ambito consumeristico per espresso divieto ex art. 124 Codice del Consumo).

Da apprezzare, di contro, che l’azione per fatto illecito può aspirare alla rifusione degli oneri di ripristino del veicolo stesso (es. costi di intervento, traino, ecc.), rimedio riparativo del tutto escluso dalle disposizioni del Codice del Consumo nell’ipotesi di danno da prodotto difettoso (v. art. 123 C.d.C. sopra cit.).

Concludendo sul caso dell’incendio: in assenza della garanzia, l’autotrasportatore dovrà necessariamente agire appellandosi alla responsabilità extracontrattuale del produttore; una strada tutta in salita, non solo perché i Costruttori hanno buon gioco nel contrastare simili istanze risarcitorie pretendendo una rigorosa applicazione alle stringenti regole sull’onere della prova ma anche, e soprattutto, perché ribaltano spesso sull’utilizzatore le responsabilità per omessa o carente manutenzione del veicolo, con un uso sapiente e mirato del concorso di colpa del danneggiato ex artt. 2056 e 1227 c.c..

L’assenza di una disciplina organica sul risarcimento del danno da prodotto difettoso nei rapporti B2B si manifesta in modo tangibile, soprattutto quando bisogna fare i conti con i danni da prodotto a garanzia scaduta; pochi in realtà sembrano avvertire il peso di questo vuoto normativo.

Con la recentissima pronuncia del 2 maggio 2019 (causa C-614/17), la Corte di Giustizia UE ha stabilito che la normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari deve essere interpretata nel senso che «l’utilizzo di segni figurativi che evocano l’area geografica alla quale è collegata una denominazione d’origine […] può costituire un’evocazione [vietata dalla normativa europea, n.d.r.] della medesima anche nel caso in cui i suddetti segni figurativi siano utilizzati da un produttore stabilito in tale regione, ma i cui prodotti, simili o comparabili a quelli protetti da tale denominazione d’origine, non sono protetti da quest’ultima».

Questa sentenza, che prende spunto dal curioso caso dei formaggi de La Mancha, rappresenta una pietra miliare per la tutela delle eccellenze enogastronomiche nazionali, con importanti risvolti sui prodotti «Made in Italy».

Il caso

Il caso trae origine dalla commercializzazione, da parte dell’Industrial Quesera Cuquerella SL [«IQC»], di alcuni formaggi attraverso l’utilizzo di etichette evocative del noto personaggio di Miguel de Cervantes, ossia Don Chisciotte de La Mancha.

Nella sostanza, si trattava di etichette contenenti raffigurazioni tradizionali di Don Chisciotte, di un cavallo magro evocativo del cavallo «Ronzinante» e di paesaggi con mulini a vento, per commercializzare i formaggi «Super Rocinante», «Rocinante» e «Adarga de Oro» [il termine «adarga» rappresenta un arcaismo spagnolo, utilizzato da Miguel de Cervantes per indicare lo scudo di Don Chisciotte, n.d.r.], non compresi, però, all’interno del DOP «queso manchego» [formaggio de La Mancha, in spagnolo, n.d.r.].

Per tale ragione, la Fondazione Queso Manchego [«FQM»], incaricata della gestione e della protezione della DOP «queso manchego», si rivolgeva al giudice spagnolo, affinché dichiarasse che tale utilizzo, riguardando formaggi non compresi nella DOP, rappresentava una violazione della normativa europea in tema di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari di cui al Regolamento U.E. 510/2016.

La decisione dei giudici spagnoli ed il rinvio del Tribunal Supremo

Tanto in primo che poi in secondo grado, i giudici spagnoli rigettavano la richiesta della FQM, ritenendo che l’utilizzo di immagini evocative de La Mancha per commercializzare formaggi non protetti dalla DOP «queso manchego», fosse in grado di indurre il consumatore a pensare, appunto, alla regione spagnola, ma non necessariamente alla DOP «queso manchego».

FQM si rivolgeva, quindi, al Tribunal Supremo spagnolo, che rinviava la questione alla Corte di Giustizia UE, ritenendo necessario, per risolvere il caso concreto, sapere come debba essere interpretata la normativa europea ed osservando che:

  • il termine «manchego» in spagnolo qualifica ciò che è originario de La Mancha e che la DOP «queso manchego» protegge i formaggi di pecora provenienti da tale regione e prodotti rispettando quanto previsto nel relativo disciplinare;
  • i nomi e le immagini utilizzate da IQC per commercializzare i propri formaggi, non protetti dalla DOP «queso manchego», richiamano Don Chisciotte e La Mancha, a cui tale personaggio è tradizionalmente associato.

La decisione della Corte di Giustizia UE

Con la sentenza del 02 maggio 2019, la Corte di Giustizia UE risponde ai quesiti posti dal Tribunal Supremo spagnolo.

  1. I segni figurativi sono in grado di ingenerare confusione nel consumatore?

Il Tribunal Supremo spagnolo chiede alla Corte UE di chiarire se l’uso di segni figurativi per evocare una DOP è in grado di per sé di ingenerare confusione nel consumatore.

La Corte, tenendo conto della volontà del legislatore UE di dare ampia protezione alle DOP, ha dato una risposta affermativa alla domanda del Tribunal Supremo, asserendo che «non si può escludere che segni figurativi siano in grado di richiamare direttamente nella mente del consumatore, come immagine di riferimento, i prodotti che beneficiano di una denominazione registrata, a motivo della loro vicinanza concettuale con siffatta denominazione».

  1. Ciò vale anche nel caso di prodotti simili non protetti, ma provenienti da un’area DOP?

In secondo luogo, il Tribunal Supremo chiede alla Corte UE se la tutela garantita dalla DOP vale anche nei confronti dei produttori localizzati nella stessa regione geografica, ma i cui prodotti non sono prodotti DOP.

Secondo la Corte UE, la normativa europea «non prevede alcuna deroga in favore di un produttore stabilito in un’area geografica corrispondente alla DOP e i cui prodotti, senza essere protetti da tale DOP, sono simili o comparabili a quelli protetti da quest’ultima». Pertanto anche a questa domanda va data una risposta affermativa.

Il motivo è molto semplice: se si introducesse una deroga in favore di prodotti simili non protetti, ma provenienti dalla stessa area DOP (in questo caso ci si riferisce a tutti gli altri formaggi prodotti nella regione geografica de La Mancha, ma non rientranti nella DOP «queso manchego»), si consentirebbe ad alcuni produttori di trarre «un vantaggio indebito dalla notorietà di tale denominazione».

  1. A quale nozione di consumatore bisogna fare riferimento?

Sempre secondo la Corte di Giustizia UE, spetta al giudice nazionale la relativa valutazione, avendo riguardo alla «presunta reazione del consumatore, essendo essenziale che il consumatore effettui un collegamento tra gli elementi controversi», ossia i «segni figurativi che evocano l’area geografica il cui nome fa parte di una denominazione d’origine […] e la denominazione registrata».

La nozione di «consumatore» a cui bisogna fare riferimento per valutare se l’utilizzo di immagini richiamati una DOP può ingenerare confusione sul mercato, è quella di «consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto», tenendo presente, tuttavia, che lo scopo della normativa europea è quella di «garantire una protezione effettiva e uniforme delle denominazioni registrate contro qualsiasi evocazione nel territorio dell’Unione».

Di conseguenza, conclude la Corte di Giustizia UE:

  • la valutazione con riferimento al consumatore dello Stato membro potrebbe già da sola sufficiente a far scattare la tutela predisposta;
  • tuttavia, il fatto che si possa escludere l’evocazione per il consumatore di uno Stato membro, non è di per sé sufficiente a escludere che l’utilizzo delle immagini possa ingenerare confusione nei consumatori.

La tutela del «Made in Italy»

La sentenza della Corte di Giustizia UE rappresenta un precedente importantissimo per il c.d. «Made in Italy», perché concede ai consorzi italiani di agire contro i produttori che – attraverso l’utilizzo di immagini evocative – cercano di ingenerare nel consumatore la convinzione che loro i prodotti siano di origine protetta.

I falsi prodotti DOP non rappresentano soltanto una forma di concorrenza sleale, attribuendo un «vantaggio indebito» derivante dalla notorietà di una denominazione, ma sono in grado di determinare un danno di immagine gravissimo ai produttori italiani, conosciuti in tutto il mondo per la loro eccellenza, e che nel 2017 hanno contribuito a creare un giro d’affari legato al turismo enogastronomico pari a più di 12 miliardi di euro.

Una questione che, in fin dei conti, non interessa, quindi, soltanto i produttori.

Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

  1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
  2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
  3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

Uno dei momenti più delicati di qualsiasi operazione di M&A è sicuramente il momento in cui si affronta il tema delle «garanzie», in particolare con riferimento alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o dell’azienda (o di un ramo d’azienda), ovvero le c.d. «business warranties».

Da un lato, infatti, il compratore vorrebbe «blindare» quanto più possibile il proprio investimento, riducendo al minimo il rischio di sorprese. Al contrario, il venditore vorrebbe contenere il più possibile le garanzie offerte, che spesso si traducono in un limite temporaneo al pieno godimento dei frutti della vendita, di cui magari necessita per effettuare un altro investimento.

È bene precisare, innanzi tutto, che con il termine «garanzie» si fa normalmente riferimento, in modo atecnico, ad un articolato set di previsioni contrattuali contenenti:

  • le dichiarazioni del venditore circa lo stato di salute della società o dell’azienda (o del ramo d’azienda) ceduta;
  • gli obblighi d’indennizzo assunti dal venditore in caso di «violazione» (ossia non corrispondenza al vero) delle dichiarazioni rese;
  • gli strumenti previsti al fine di assicurare l’effettività degli obblighi d’indennizzo assunti.

Vi sono diverse ragioni per cui tale set è necessario, ma la principale è che nei contratti di M&A non trovano applicazione le garanzie civilistiche sulle vendita se non limitatamente al bene venduto, pertanto, se il bene venduto sono le partecipazioni, le garanzie non coprono gli asset sottostanti della società, e, nei casi eccezionali in cui trovano applicazione, i termini brevi e le limitazioni stringenti rendono, comunque, opportuna l’assunzione di obbligazioni accessorie volte a garantire il buon esito economico dell’operazione.

Ciò è confermato dalla pratica: nelle operazioni di M&A non vi è contratto che non includa il set delle garanzie.

Le dichiarazioni, in particolare, recepiscono normalmente la due diligence svolta dal compratore, preceduta, a sua volta, da un non disclosure agreement (NDA), finalizzato a tutelare le informazioni messe a disposizione.

Eventuali criticità che dovessero emergere dovranno essere adeguatamente riportate. Ovviamente, non è detto che un’eventuale criticità, laddove si concretizzi, debba necessariamente far scattare un obbligo d’indennizzo. Spetterà alle parti regolamentare tale aspetto, potendo anche prevedere che il relativo rischio resti a carico del compratore, magari a fronte di una riduzione del prezzo.

In merito all’obbligo d’indennizzo dovranno poi essere attentamente negoziati alcuni aspetti. I principali sono sicuramente:

  • la durata (es. maggiore per le garanzie fiscali);
  • a chi spetta l’eventuale indennizzo (al compratore o alla società; all’uno o all’altra a seconda dei casi);
  • eventuali detrazioni e /o limitazioni (es. perdite fiscali);
  • l’importo massimo indennizzabile;
  • un’eventuale franchigia;
  • la procedura d’indennizzo (es. termini per la richiesta, procedura di composizione, situazioni particolari, etc.).

Si tratta di aspetti importantissimi, che non devono essere sottovalutati. È chiaro, ad esempio, che non disciplinare adeguatamente la procedura d’indennizzo rischia di vanificare tutto il lavoro fatto prima.

Infine, dovranno essere previsti strumenti idonei al fine di assicurare la tutela effettiva del compratore. Tra questi, quelli più tradizionali sono:

  • la fideiussione;
  • il contratto autonomo di garanzia;
  • il deposito fiduciario («escrow»);
  • la dilazione di pagamento;
  • il meccanismo di «earn out»;
  • il c.d. «price adjustment»;
  • la lettera di patronage;
  • il pegno e/o l’ipoteca.

Si tratta di strumenti tutti più o meno largamente utilizzati nella pratica, che presentano ciascuno dei pro e dei contro.

Qui, tuttavia, vogliamo occuparci di un nuovo strumento di natura assicurativa, a cui si sta cominciando a fare ricorso negli ultimi tempi: le c.d. «Polizze Warranty & Indemnity».

Con una polizza W&I, in pratica, l’assicuratore, a fronte del pagamento di un premio, assume su di sé il rischio derivante dalla violazione delle dichiarazioni contenute in un contratto di M&A.

Presupposto fondamentale, ovviamente, è che la violazione derivi da fatti antecedenti al closing e non noti in quel momento (e, quindi, non evidenziati dalla due diligence effettuata).

La polizza può essere sottoscritta dal compratore (buyer side) o dal venditore (seller side). Di regola è preferita la prima soluzione. Tali polizze W&I presentano numerosi vantaggi:

  • si ottiene una garanzia a fronte di un venditore non sempre disponibile ad impegnarsi contrattualmente;
  • la polizza generalmente non prevede l’ipotesi di regresso nei confronti del venditore, salvo il caso di dolo, per cui il venditore è integralmente liberato;
  • è possibile ottenere un massimale maggiore di quello previsto nel contratto di compravendita;
  • analogamente, la copertura può essere prevista per un periodo più lungo;
  • si facilitano le relazioni con il venditore, specie nel caso ci siano più venditori ed alcuni di essi restino nella società, magari occupando un posto nel Consiglio d’Amministrazione;
  • si facilita notevolmente il processo d’indennizzo, specie nel caso in cui ci siano più venditori, magari persone fisiche;
  • il compratore riesce ad avere una maggiore certezza di solvibilità.

Il costo della polizza potrebbe essere condiviso tra le parti, eventualmente con uno sconto del prezzo, che il venditore potrebbe essere disposto a concedere tenuto conto del fatto che non dovrà rilasciare altre garanzie e potrà godere immediatamente dei frutti della vendita.

Il premio è normalmente compreso tra l’1% ed il 2% del limite d’indennizzo previsto (con un premio minimo).

Attualmente, i limiti principali di questo strumento paiono essere, oltre al prezzo, che rende lo strumento adatto principalmente ad operazioni di importo non piccolo, la franchigia standard normalmente prevista, pari all’1% dell’Enterprise Value del Target, riducibile allo 0,5% a fronte di un innalzamento del premio. Da tenere presente inoltre che la polizza W&I implica la revisione della due diligence da parte della compagnia, che può tradursi in un intervento attivo nella negoziazione delle garanzie.

A parte ciò, lo strumento è da considerare attentamente: in presenza di situazioni particolarmente complesse, potrebbe rappresentare la giusta soluzione per sbloccare situazioni di stallo negoziale e rendere più agevoli negoziazioni tra investitori professionali e PMI.

Put options on a fixed price are all clear: the Italian Supreme Court confirms the legitimacy of the repurchase agreements regarding company shares (i.e. the agreement by which the buyer undertakes to resell the shares at a later time, upon the occurrence of certain conditions, upon simple request of the seller) without any participation in the occurred losses, and admits that such cases may pass the test for the leonina societas (under Italian law a permanent and total exclusion of some partners from participation in profits and losses is prohibited).

Those who intend to invest, instead of opting for a funding, may become part of the company structure through the acquisition of a participation in the share capital and, at the same time, insure oneself a safe way out.

To avoid suffering any negative outcomes, the silent partner may, through a shareholders’ agreement, agree with the founders of the company his exit through the sale of the equity investment at a given time, under certain circumstances and at the price of purchase. Indeed, there could be room for profit too: the put option, in fact, may include interests in the agreed price of repurchase.

Focus on this new corporate instrument is recommended. It could favour numerous strategic alliances between financiers and entrepreneurs looking for capital.

The author of this article is Giovannella Condò.

Quando il contratto di agenzia è da considerarsi internazionale?

Secondo le norme di diritto internazionale privato vigenti in Italia (Art.1 Reg. 593/08 “Roma I”) il contratto si considera internazionale “in circostanze che comportino un conflitto di leggi”.

Le circostanze che più spesso comportano un conflitto di leggi in un contratto di agenzia, rendendolo quindi “internazionale”, sono (i) l’ubicazione della sede del preponente in un Paesi diverso dalla sede dell’agente; oppure (ii) l’esecuzione del contratto all’estero, anche quando il preponente e l’agente abbiano sede nello stesso Paese.

Quando si applica la legge italiana ad un contratto di agenzia?

Sempre in base al Regolamento “Roma I”, in linea di principio il diritto italiano si può applicare ad un contratto di agenzia internazionale (i) se viene scelto delle parti come legge regolatrice del contratto (in modo espresso o nelle altre modalità indicate dall’art.3); oppure (ii) in mancanza di scelta, quando l’agente risieda o abbia sede in Italia (secondo il concetto di “residenza” contenuto all’art.19).

Qual è la disciplina principale del contratto di agenzia in Italia?

In Italia, le norme sostanziali che regolano il contratto di agenzia ed in particolare il rapporto fra le parti preponente ed agente, sono prevalentemente contenute negli articoli da 1742 a 1753 del Codice Civile, che sono stati modificati in più occasioni con il recepimento della Direttiva 653/86/CE.

Qual è il ruolo degli accordi economici collettivi?

Da molti anni, in Italia, i contratti di agenzia sono regolati anche dagli Accordi Economici Collettivi (AEC), ovvero quegli accordi che vengono stipulati periodicamente dalle associazioni rappresentative dei preponenti e degli agenti in vari settori (industria, commercio e diversi altri).

Dal punto di vista della loro efficacia, se ne distinguono due tipologie: gli AEC aventi forza di legge (efficacia “erga omnes”) i quali peraltro contengono norme piuttosto generali e hanno quindi un campo di applicazione limitato; e gli AEC “di diritto comune”, che si sono via via avvicendati nel corso degli anni e sono finalizzati a vincolare solo preponenti ed agenti iscritti a tali associazioni.

In generale, gli Accordi Economici Collettivi intendono recepire le norme del Codice Civile (e, di riflesso, quelle della Direttiva 653/86) ma – soprattutto quelli di diritto comune – introducono deroghe anche rilevanti. Ad esempio, essi consentono al preponente modifiche unilaterali alla zona, ai prodotti, alla clientela, alla misura della provvigione; regolano in maniera parzialmente diversa la durata del periodo di preavviso per il recesso dai contratti a tempo indeterminato; quantificano il compenso per il patto di non concorrenza post-contrattuale; hanno una peculiare disciplina in materia di indennità di risoluzione del rapporto.

Sull’indennità di fine rapporto, in particolare, gli AEC hanno generato non pochi problemi di conformità con la Direttiva 653/86/CE, di cui si è occupata anche la Corte di Giustizia CE ma tuttora non del tutto risolti per effetto di una costante giurisprudenza delle Corti italiane che, di fatto, mantiene tale trattamento in vigore.

La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che i contratti collettivi abbiano una sfera di applicazione geografica limitata al territorio italiano.

Gli AEC regolano dunque automaticamente il contratto di agenzia se la legge regolatrice è quella italiana e se il contratto viene eseguito dall’agente in Italia, ma (nel caso degli accordi di diritto comune) all’ulteriore condizione che entrambe le parti siano iscritte ad una delle associazioni che hanno stipulato tali Accordi (secondo una parte della dottrina, è sufficiente che vi sia iscritta anche solo la parte preponente).

Anche in mancanza di tali condizioni cumulative, tuttavia, gli AEC di diritto comune potranno ugualmente valere se siano richiamati espressamente nel contratto, oppure se le loro disposizioni vengano costantemente applicate dalle parti.

Quali sono gli altri principali requisiti e adempimenti in materia di contratto di agenzia?

L’Enasarco

L’Enasarco è una Fondazione di diritto privato alla quale devono, per legge, essere obbligatoriamente iscritti gli agenti in Italia.

La Fondazione Enasarco amministra principalmente un fondo di previdenza integrativo per gli agenti ed un fondo per l’indennità di risoluzione del rapporto di agenzia (calcolata secondo i criteri dell’AEC di riferimento per il settore).

Tipicamente, nei contratti di agenzia “domestici”, il preponente iscrive l’agente presso l’Enasarco e versa  i contributi ad entrambi i fondi durante l’intero rapporto.

Tuttavia, mentre l’iscrizione e il versamento dei contributi previdenziali sono sempre obbligatori in quanto previsti dalla legge, viceversa la contribuzione al FIRR (fondo indennità risoluzione del rapporto) è obbligatoria solo in quei contratti di agenzia ai quali si applicano gli AEC di diritto comune.

Quali sono le regole per i contratti internazionali?

Per quanto riguarda l’iscrizione all’Enasarco, a fronte di una disciplina legislativa e regolamentare non molto chiara, un contributo interpretativo importante è stato fornito dal Ministero del Lavoro nel 2013 in risposta ad un interpello (19.11.13 n.32).

Il Ministero, riferendosi alla disciplina europea (Regolamento CE n.883/2004 come modificato dal Regolamento (CE) n. 987/2009) ha chiarito che l’iscrizione all’Enasarco è obbligatoria nei seguenti casi:

  • agenti che operano sul territorio italiano in nome e per conto di preponenti italiani o esteri aventi una sede o una dipendenza in Italia;
  • agenti italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri anche se privi di sede o dipendenza in Italia;
  • agenti che risiedono in Italia e qui svolgono una parte sostanziale della loro attività;
  • agenti che non risiedono in Italia, ma hanno in Italia il proprio centro di interessi;
  • agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero per una durata non superiore a 24 mesi.

Nei rapporti di agenzia da eseguirsi al di fuori del territorio UE, non applicandosi i Regolamenti appena citati, sarà opportuno verificare di volta in volta se l’obbligo di osservare la legislazione previdenziale italiana sia previsto da eventuali trattati internazionali di cui facciano parte i Paesi delle due parti.

Camera di Commercio e Registro delle Imprese

Chiunque intenda avviare un’attività quale agente di commercio in Italia, ha l’obbligo di effettuare una SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) alla Camera di Commercio territorialmente competente la quale iscrive l’agente al Registro delle Imprese se l’agente ha forma di impresa, o viceversa ad una sezione apposita del REA (Repertorio delle Notizie Economiche ed Amministrative) della Camera stessa (D. Lgs.59 del 26.3.2010 che ha recepito a Direttiva 2006/123/CE “Direttiva Servizi”).

Tali formalità hanno sostituito l’iscrizione al vecchio “ruolo agenti” che è stato soppresso dalla suddetta legge, la quale prevede inoltre tutta una serie di requisiti che gli agenti debbono avere al fine di poter avviare l’attività ( tali requisiti riguardano istruzione, esperienza, assenza di condanne, ecc.).

Benché la mancanza della suddetta iscrizione non comporti la nullità del contratto, è opportuno che il preponente, prima di conferire l’incarico ad un agente italiano, si accerti che questi l’abbia effettuata in quanto è comunque obbligatoria.

Competenza territoriale per le controversie (art.409 e seguenti c.p.c.)

In base agli artt.409 e seguenti del Codice di Procedura Civile, nel caso in cui l’agente svolga la sua prestazione contrattuale a carattere prevalentemente personale anche se in forma autonoma (agente “parasubordinato”) la sottoposizione del contratto alla legge italiana ed al foro italiano comporterà che eventuali controversie derivanti dal contratto di agenzia saranno inderogabilmente sottoposte al Giudice del lavoro nella circoscrizione in cui si trova il domicilio dell’agente (v. art.413 c.p.c.) ed il processo seguirà il “rito del lavoro” ovvero regole procedurali analoghe a quelle valevoli nelle controversie nell’ambito del lavoro subordinato.

Questa regola, in linea di principio, varrà quando l’agente stipuli il contratto personalmente o come ditta individuale, mentre l’opinione prevalente è che non si applichi nel caso in cui l’agente rivesta la forma di società.

Applicazione delle regole ai casi più frequenti di contratto internazionale di agenzia

Cerchiamo ora di adattare le regole sopra descritte alle situazioni più frequenti di contratto internazionale di agenzia, tenendo presente che si tratta di semplici esempi schematici, dovendosi in realtà verificare di volta in volta con attenzione le circostanze del caso specifico.

Preponente italiano ed Agente estero – contratto da eseguirsi all’estero

Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti, salve le eventuali norme imperative del Paese dove l’agente risiede od opera, secondo le norme del Regolamento Roma I.

AEC: non regolano il contratto automaticamente (in quanto l’agente opera all’estero) ma solo ove espressamente richiamati o di fatto applicati. Questo potrebbe accadere più o meno intenzionalmente, ad esempio se il preponente italiano decidesse di adottare anche per gli agenti esteri gli stessi modelli di contratto utilizzati per agenti italiani, contenenti riferimenti agli accordi economici collettivi.

Enasarco: non vi sono normalmente obblighi di iscrizione né di contribuzione a favore dell’agente non italiano che risiede e svolge l’attività contrattuale esclusivamente all’estero.

Camera di Commercio:  non vi è obbligo di iscrizione stanti i suddetti presupposti.

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): se fosse validamente pattuito il foro italiano, l’agente estero anche se persona fisica o ditta individuale non potrebbe far valere questa disposizione per spostare la causa presso le corti del proprio Paese in quanto l’art.413 c.p.c. è una norma sulla competenza interna che presuppone l’ubicazione dell’agente in Italia. Inoltre, tale norma dovrebbe soccombere di fronte alle regole di giurisdizione stabilite dalla legislazione UE, come ha stabilito la Corte di Cassazione italiana e come ritiene autorevole dottrina.

Preponente estero ed Agente italiano – contratto da eseguirsi in Italia

Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, anche in mancanza di scelta, per effetto della residenza o sede in Italia dell’agente.

AEC: quelli aventi forza di legge (“erga omnes”) regolano il contratto, mentre quelli di diritto comune difficilmente si applicheranno in modo automatico (il preponente estero solitamente non sarà iscritto alle associazioni italiane che hanno stipulato l’AEC) ma potrebbero nondimeno valere se richiamati nel contratto o se applicati di fatto.

Enasarco: il preponente estero dovrà iscrivere l’agente italiano all’Enasarco, pena sanzioni e/o richieste di risarcimento danni da parte dell’agente. In conseguenza dell’iscrizione, il preponente dovrà assolvere all’obbligo di contribuzione previdenziale mentre non dovrebbe sussistere l’obbligo di versamento al Fondo Indennità di Fine Rapporto. Tuttavia, un preponente che effettuasse i versamenti periodici al FIRR anche quando non dovuti, potrebbe ritenersi avere tacitamente accettato gli AEC come applicabili al rapporto di agenzia.

Camera di commercio: l’agente italiano dovrà risultare iscritto alla CCIAA ed a questo proposito è opportuno che il preponente verifichi che lo sia effettivamente, prima di stipulare il contratto.

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):se il foro competente è quello italiano (per scelta delle parti o anche in assenza di scelta in quanto luogo della prestazione dei servizi secondo il Regolamento 1215/12) e se l’agente è persona fisica o ditta individuale situata in Italia, varrà la regola in questione.

Preponente italiano ed Agente italiano – contratto da eseguirsi all’estero

Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, in mancanza di qualsiasi scelta, se l’agente risieda o abbia sede in Italia.

AEC: non dovrebbero valere (eseguendosi il contratto all’estero) se non espressamente richiamati o applicati.

Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, l’obbligo di iscrizione sussiste qualora l’agente, pur essendo stato incaricato per l’estero, risieda e svolga una parte sostanziale dell’attività in Italia o abbia qui il centro dei propri interessi oppure si rechi all’estero per un periodo non superiore a 24 mesi, se valgono i Regolamenti UE. In caso di rapporto da eseguirsi in Paesi extra UE, l’obbligatorietà dell’iscrizione sarà da verificare di volta in volta.

Camera di commercio: l’agente che abbia avviato l’attività e si sia giuridicamente costituito in Italia è tenuto in linea di principio ad iscriversi presso la Camera di Commercio.

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):  la regola vale se l’agente è persona fisica o ditta individuale italiana e sia contrattualmente pattuito il foro in Italia.

Preponente estero ed agente estero – contratto da eseguirsi in Italia

Legge italiana: in linea di principio regola il contratto solo se scelta dalle parti.

AEC: se il contratto è regolato dalla legge italiana, valgono gli accordi aventi forza di legge, non invece quelli di diritto comune se non espressamente richiamati o di fatto applicati.

Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, sulla base dei Regolamenti UE l’obbligo di iscrizione potrebbe sussistere per il preponente estero anche a favore dell’agente che risieda all’estero se opera in Italia o se ha in Italia il centro dei propri interessi. Viceversa, il caso andrà verificato di volta in volta in base alle norme vigenti.

Camera di commercio: in linea di principio, l’agente che si sia giuridicamente costituito all’estero non è tenuto ad assolvere agli obblighi di iscrizione in Italia. Tuttavia, la questione potrebbe essere più complessa se l’agente avesse una sede e svolgesse prevalentemente la propria attività in Italia (il che potrebbe avere un impatto anche sulla determinazione del diritto applicabile).

Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):  in assenza di scelta diversa, il foro italiano potrebbe essere competente in quanto luogo di prestazione dei servizi, tuttavia le norme in questione non dovrebbero applicarsi se l’agente (persona fisica o ditta individuale) non abbia una sede in Italia.

Conclusioni

Si auspica che le osservazioni svolte fino a qui, pur non esaustive, siano utili per comprendere le possibili conseguenze dell’applicazione della legge italiana ad un contratto internazionale di agenzia e per fare delle scelte oculate in sede di redazione del contratto. Come sempre, si raccomanda di non basarsi acriticamente su modelli o precedenti senza adeguata considerazione delle circostanze del caso.

Giuliano Stasio

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