Italy – Flat tax for new residents

27 Novembre 2018

  • Italia
  • Fisco e tasse

Il principio maggioritario, aspetto cardine nelle società di capitali, entra in crisi di fronte a quelle situazioni in cui il capitale sociale è ripartito al 50% tra due soci contrapposti. In tali ipotesi l’assunzione di deliberazioni è impossibile se non in caso di unanimità e questo, evidentemente, comporta frequenti situazioni di paralisi decisionale e gestoria.

Il dissenso insanabile tra i soci può condurre alla dissoluzione della società e, per questo, sono state trovate diverse strategie per superare l’empasse: una di queste è la c.d. “Russian Roulette Clause”.

I soci possono pattiziamente concordare che in situazioni di stallo gestionale venga attivata la clausola, la quale è diretta a far ripartire l’attività sociale attraverso una riallocazione delle partecipazioni.

Le due forze contrapposte possono prevedere che al verificarsi di determinati “trigger event”, uno dei due soci (o entrambi se così concordato) abbia il potere di determinare il valore del 50% del capitale e porre l’altro di fronte ad una scelta “secca”: acquistare la quota del socio offerente, al prezzo da lui proposto, o cedergli la propria quota al medesimo prezzo.

Dentro o fuori: chi attiva la roulette russa determina il prezzo e non sono ammessi rilanci. La determinazione unilaterale del prezzo è bilanciata e causalmente equilibrata dal rischio di perdere la propria partecipazione sociale. La scelta finale, infatti, spetta al socio che non ha determinato il prezzo.

L’autore di questo articolo è Giovannella Condò.

Con l’approvazione della legge sul Bilancio dello Stato per il 2018 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020, L. 27 dicembre 2017, n. 205 pubblicata nella G.U. n. 302 del 29/12/2017) la fatturazione elettronica diventa obbligatoria a fare data dal 1° Gennaio 2019 per tutti i soggetti IVA.

Si discute tuttavia la fattibilità di tale operazione o se sia necessario posticipare l’entrata in vigore della nuova normativa.

L’obbligo di fattura elettronica vale sia nel caso in cui la cessione del bene o la prestazione di servizio è effettuata tra due operatori IVA (operazioni B2B Business to Business) sia nel caso in cui la cessione/prestazione è effettuata da un operatore IVA verso un consumatore finale (operazioni B2C Business to Consumer).

L’emissione di fatture con modalità diverse da quella elettronica sarà considerata nulla.

Sono esonerati dalle menzionate disposizioni solo i soggetti che operano in “regime di vantaggio” previsto dall’art. 27 comma 3 del Decreto Legge n. 98/11 e coloro che applicano il “regime forfettario” previsto dalla Legge n. 190/14.

Dopo una prima fase riservata solamente alla fatturazione verso la PA, diventa quindi obbligatoria la fatturazione elettronica tra imprese e verso privati.

La fatturazione elettronica prevede l’emissione di fatture strutturate secondo un linguaggio standard denominato formato XML (extensible Markup Language) firmate digitalmente da chi le emette, trasmesse tramite Sdl (Servizio di interscambio dell’Agenzia delle Entrate) e obbligatoriamente da conservare ai fini fiscali solo in digitale.

La fattura elettronica si differenzia pertanto da una fattura cartacea solo per due aspetti:

  • Va necessariamente redatta utilizzando un pc, un tablet, o uno smartphone;
  • Deve essere trasmessa elettronicamente tramite il c.d. Sistema di Interscambio (SdI) altrimenti è considerata come non emessa.

Le regole per predisporre, trasmettere, ricevere e conservare le fatture elettroniche sono definite nel provvedimento n. 89757 del 30 aprile 2018 pubblicato sul sito dell’Agenzia delle Entrate.

La fatturazione elettronica è un sistema completamente digitale di emissione e conservazione delle fatture che non necessita di supporto cartaceo e quindi permette di risparmiare tutti i costi relativi a stampa, spedizione e conservazione.

L’invio della Fattura elettronica può avvenire tramite Posta Elettronica Certificata (PEC), tramite intermediario o portali web.

Il SdI esegue dei controlli sulla fattura elettronica:

  • verifica che siano presenti almeno le informazioni minime obbligatorie previste dalla legge;
  • verifica che i valori della partita IVA del fornitore oppure il C.F. del cliente siano presenti nell’Anagrafe Tributaria;
  • verifica che sia inserito l’indirizzo telematico;
  • verifica che ci sia coerenza tra i valori dell’imponibile, dell’aliquota e dell’IVA.

Se uno dei controlli non va a buon fine il SdI “scarta” la fattura. La “ricevuta di scarto” viene trasmessa da SdI alla medesima PEC o al medesimo canale telematico (FTP – Protocollo di Trasferimento File o web service) da cui ha ricevuto la fattura elettronica.

Se i controlli vanno a buon fine, il SdI recapita la fattura elettronica all’indirizzo telematico che legge nel file della fattura e invia al soggetto che ha trasmesso il file una “ricevuta di consegna”.

Nel caso in cui la casella PEC ovvero il canale telematico FTP o Web Service dove SdI prova a recapitare il file della fattura non fossero attivi, il SdI mette comunque a disposizione il duplicato della fattura in un’area riservata e invia al soggetto che ha trasmesso il file una ricevuta di impossibilità di consegna. La fattura si considera emessa per il fornitore ma non ancora definitivamente ricevuta ai fini fiscali dal cliente.

In questo caso è conveniente avvertire il cliente attraverso altri mezzi della emissione della fattura.

Sia chi emette che chi riceve una fattura elettronica è obbligato a conservarla elettronicamente. La conservazione elettronica non è la semplice memorizzazione sul PC. Il processo di conservazione elettronica è usualmente fornito da operatori privati certificati tuttavia l’Agenzia delle Entrate mette gratuitamente a disposizione un servizio di conservazione elettronica.

In caso di inosservanza dell’obbligo di emissione della fattura elettronica trovano applicazione le sanzioni previste dall’articolo 6 del Decreto Legislativo n. 417/97 che dispongono una sanzione amministrativa compresa tra il novanta e il centottanta per cento dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell’esercizio.

Per le operazioni “transfrontaliere” (fattura da e verso l’estero) non sussiste l’obbligo di fattura elettronica ma occorre effettuare una trasmissione mensile dei dati all’Agenzia delle Entrate entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello della data del documento emesso ovvero a quello della data di ricezione del documento comprovante l’operazione.

L’obbligo della fatturazione elettronica si propone di potenziare le attività di prevenzione dell’evasione fiscale. Un obbligo che tuttavia ha altri vantaggi. Attraverso le fatture emesse e trasmesse in modalità digitale infatti si riducono non soltanto gli adempimenti a carico dell’Amministrazione Finanziaria (generando risparmi di risorse pubbliche) ma anche i margini di errore nell’intero ciclo di vita delle fatture, con significativi risparmi di tempo e costi nel medio e lungo periodo per imprese e professionisti.

L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.

Riassunto – Si tratta di un accordo di riservatezza, spesso utilizzato nel commercio internazionale, con il quale le parti si obbligano a mantenere riservate le informazioni confidenziali o sensibili scambiate durante i negoziati. Il modello di contratto è abbastanza standard, ma per la sua validità ed efficacia è fondamentale che il contenuto sia adattato al caso concreto, come la clausola di legge applicabile, il foro competente o arbitrato, le clausole penali, la durata, la lingua del contratto.

Accade molto spesso che in differenti contesti di business venga proposta la sottoscrizione di un Non Disclosure Agreement (“NDA”) e di un Memorandum of Understanding (“MoU”) o di una Letter of Intent (“LoI”), tanto che questi tre acronimi – NDA, MoU e LoI – sono ormai diventati di uso corrente, soprattutto in occasione di negoziati internazionali.

Spesso, però, questi contratti vengono utilizzati in modo improprio e con finalità diverse da quelle con le quali si sono affermati nella prassi del commercio internazionale, con il risultato di non essere utili perché non tutelano in modo efficace gli interessi delle parti, o addirittura di essere controproducenti.

Iniziamo vedendo quali sono le caratteristiche del Non Disclosure Agreement – NDA – e come è consigliabile utilizzarlo.

Di cosa parlo in questo articolo

  • Cos’è il NDA – Accordo di riservatezza
  • Chi sono le parti del NDA – Accordo di riservatezza
  • Quali sono le Informazioni riservate?
  • La condivisione delle Informazioni riservate con terzi
  • Non Disclose and Non Use Agreement
  • Il divieto di concorrenza
  • La durata del NDA
  • Inadempimenti del NDA e clausola penale
  • NDA modello e standard
  • Quale legge applicabile e giudice in un NDA internazionale?
  • La lingua del NDA
  • Conclusioni
  • Come possiamo aiutarti

NDA – Cosa significa

Il NDA è un accordo che ha la funzione di tutelare la riservatezza delle informazioni che le parti (generalmente identificate, rispettivamente, come “Disclosing Party” e “Receiving Party”) intendono condividere, in diversi possibili scenari: la trasmissione d’informazioni per una due diligence preliminare a un investimento, la valutazione di dati commerciali per un contratto di distribuzione, le specifiche tecniche di un certo prodotto oggetto di trasferimento di tecnologia, etc.

Il primo step del negoziato, infatti, richiede spesso la messa a disposizione di informazioni di diverso tipo, tecniche, finanziarie o commerciali, da parte di una o di entrambe le parti, che è necessario che rimangano riservate (di seguito le “Informazioni Riservate”) durante e dopo la conclusione del negoziato.

Chi sono le parti dell’accordo di riservatezza?

Fondamentale, partendo dalle premesse dell’accordo, è la corretta individuazione delle parti obbligate alla protezione delle informazioni e al mantenimento della riservatezza, specie quando sono coinvolti gruppi societari, in cui gli interlocutori possono essere molteplici e situati in diversi paesi. In casi simili è consigliabile obbligare la Receiving Party a garantire il mantenimento della riservatezza da parte di tutte le società del gruppo.

È inoltre importante che l’accordo individui esattamente quali persone facenti parte dell’organizzazione della Receiving Party (si pensi a: dipendenti, consulenti tecnici, professionisti, collaboratori, etc.) hanno diritto di accedere alle Informazioni, se possibile con sottoscrizione dell’accordo di riservatezza da parte di tutte le persone coinvolte.

E’ anche importante prevedere se la Receiving Party possa o meno condividere le Informazioni Riservate con soggetti terzi, ad esempio consulenti tecnici o propri collaboratori esterni. In caso positivo la tutela migliore è quella di obbligare anche tali terzi a sottoscrivere il NDA e prevedere che la Receiving Party sia responsabile (“obbligata in solido”) insieme al terzo per il rispetto delle obbligazioni del NDA.

Spesso la richiesta di far firmare a terze parti il NDA e di essere responsabile per la gestione delle Informazioni Riservate da parte dei terzi viene contestata dalla Receiving Party, solitamente con la motivazione che sarebbe troppo complessa la gestione delle attività necessarie.

Ciò è sintomo di una scarsa predisposizione al rispetto dell’obbligo di riservatezza, che va valutato con attenzione. Se la parte ricevente non intende impegnarsi affinchè terzi rispettino gli obblighi di confidenzialità e non vuole essere responsabile dei loro eventuali inadempimenti ciò espone il Titolare ad un evidente rischio di divulgazione delle informazioni, senza che sia possibile agire in modo efficace per rimediare il danno.

Suggerisco, in questi casi, di essere molto rigorosi.

Il NDA deve prevedere che:

  • l’accesso alle Informazioni Riservate da parte di terzi è possibile solo se preventivamente autorizzato per iscritto dalla Disclosing Party
  • il terzo autorizzato deve firmare un allegato al NDA nel quale dichiara di aver preso visione degli obblighi di riservatezza e di obbligarsi al loro rispetto
  • il terzo non possa condividere le Informazioni Riservate con altri soggetti non vincolati dal NDA, salvo espressa autorizzazione del Titolare
  • la Disclosing Party sia responsabile in solido del rispetto delle obbligazioni del NDA da parte dei Terzi autorizzati

Identificazione delle Informazioni Riservate

L’utilizzo di modelli di NDA riciclati, reperiti su formulari o proposti dalla controparte è prassi certamente non raccomandabile, ma purtroppo molto diffusa.

Questi modelli, molto spesso, sono generici e contengono definizioni ampie delle Informazioni Riservate ed elenchi estremamente dettagliati, che comprendono, di fatto, tutto il contenuto dell’attività societaria, includendo spesso ambiti che non sono rilevanti per l’attività oggetto di negoziato, o informazioni che non sono riservate.

Un problema di questi modelli è che è difficile, ex post, verificare se un certo dato fosse o meno compreso nelle Informazioni, ad esempio perché non si sa se fosse già in possesso della Receiving Party prima della firma del NDA.

Un’altra criticità è rappresentata dal fatto che l’elenco molto dettagliato non includa proprio la singola informazione che interessa, oppure non lo faccia in modo chiaro.

Infine accade spesso che sia difficile ricostruire quali Informazioni, dopo la firma del NDA, sono state trasmesse alla Receiving Party, e quando è avvenuta la trasmissione (ad esempio perché sono state inviate in modalità non sicura e non tracciabile, è il caso delle Informazioni spedite come allegati da una email).

Come condividere le Informazioni Riservate

Il modo migliore di procedere è quello di identificare in modo preciso solo le informazioni che è necessario condividere, indicando i documenti da trasmettere in un elenco allegato al NDA.

Ad esempio, se si condivide un certo segreto industriale (“Know-how”) la cosa migliore è limitare l’oggetto dell’accordo solo alle informazioni sensibili relative a tale segreto e specificare in quale formato (cartaceo, digitale, software, hardware) verrà condiviso.

Il passo successivo è quello di metterli a disposizione in un formato che non consenta dubbi sul fatto che sono protette dal NDA, ad esempio marchiandole con un timbro “Confidential under NDA” seguito dalla data di invio.

Altra buona prassi è prevedere che l’accesso alle Informazioni avvenga con modalità sicura e tracciabile (come un’area riservata in cloud o sul server della Disclosing Party, accessibile solo con user name e password individuali assegnati alle persone autorizzate).

Il Divieto di uso delle Informazioni

Un errore abbastanza ricorrente nei modelli di NDA è la previsione dell’obbligo per la Receiving Party del solo mantenimento della riservatezza delle Informazioni, senza impedirgliene espressamente l’utilizzo.

Soprattutto nel caso di imprese concorrenti, però, l’utilizzo è più pericoloso della divulgazione: basti pensare alla possibilità che la Receiving Party sviluppi tecnologie o brevetti basati proprio sui segreti industriali acquisiti.

E’ importante prevedere, quindi, che l’obbligo non è solo di riservatezza ma anche di non uso, evidenziando tale patto anche nel titolo dell’accordo che può diventare “Non Disclosure and Non Use Agreement”.

Non Compete Agreement – Divieto di concorrenza

Altra situazione delicata è quella il cui una Parte condivida elenchi di clienti o di agenti o di fornitori o altre informazioni commerciali sensibili.

In questo caso oltre alle obbligazioni di riservatezza e di non utilizzo al di fuori di quanto previsto nel NDA, è bene prevedere espressamente clausole di Non Concorrenza.

Ad esempio, se viene condiviso un elenco di agenti o di fornitori, l’accordo può prevedere un obbligo di astensione dal contattare direttamente certi soggetti individuati negli elenchi condivisi (questo patto è anche noto come “Non Circumvention Agreement”).

La Durata dell’obbligo di riservatezza

La funzione del NDA è proteggere le Informazioni Riservate per tutto il tempo necessario alla loro condivisione tra le Parti.

È bene, quindi, che sia indicato in modo chiaro qual è il momento finale della condivisione e – nel caso in cui la Receiving Party sia in possesso di copia delle Informazioni Riservate – prevedere l’obbligo di restituzione o distruzione dei documenti.

E’ anche fondamentale indicare per quanto tempo la Receiving Party sia tenuta a mantenere la riservatezza e non utilizzare le Informazioni dopo il periodo necessario al loro esame, ad esempio 24 mesi.

NDA – Inadempimenti

Provare e quantificare i danni derivanti una violazione dell’obbligo di riservatezza è generalmente molto complesso, perché si traduce in vantaggio / danno intangibile, come ad esempio la possibilità di sviluppare un certo prodotto concorrente in tempi rapidi proprio grazie alle Informazioni apprese.

Può essere allora utile prevedere una clausola penale, che predetermini in una certa somma il danno derivante dall’inadempimento contrattuale.

A tal fine è importante considerare che la quantificazione della penale deve essere ragionevole in relazione al danno che si presume possa scaturire dalla violazione della segretezza o dall’utilizzo delle Informazioni.

E’ consigliabile prevedere diversi importi a titolo di penale in relazione a diverse ipotesi di inadempimento (ad esempio, la registrazione o la contraffazione di un brevetto utilizzando le informazioni tecniche condivise, oppure il contatto con certi partner commerciali).

In ogni caso, prima di inserire clausole penali è opportuno valutare cosa preveda la legge applicabile all’accordo per la validità di questo patto, in particolare per la quantificazione massima della penale (si veda il punto successivo).

Il rischio, se non si conosce la legge applicabile all’accordo di non riservatezza, è che in caso di contenzioso il Giudice ritenga la clausola invalida o che la penale sia di importo eccessivo in relazione all’inadempimento e quindi la riduca ad una somma equa.

Oppure, al contrario, una parte possa essere condannata al pagamento di una penale addirittura superiore al valore del contratto (è il caso di una recente decisione della Suprema Corte Russa).

La clausola penale, infine, può essere anche utilizzata in modo tattico. Se in sede di negoziato la Receiving Party si oppone fermamente all’inserimento della penale o ne chiede la riduzione ciò può essere un indizio di una riserva mentale di inadempimento.

NDA template e Smart Contract 

E’ molto agevole, oggi, procurarsi un modello di NDA: template o standard possono essere reperiti gratuitamente su vari siti come bozze generiche da completare, o essere costruiti online rispondendo ad una serie di domande per personalizzare il contratto per il caso specifico.

Il mio consiglio è di procedere con grande attenzione: per i motivi che spiego in questo post, il NDA è un accordo che deve essere redatto con grande attenzione e con l’aiuto di un consulente esperto.

Un buon modello (template) di NDA può essere una base di partenza utile, dopo di che una revisione di un esperto è un passaggio fondamentale, soprattutto per verificare che il contenuto del NDA sia conforme a quanto prevede la legge che si applica all’accordo e che le modalità di risoluzione delle controversie previste siano efficaci.

Legge applicabile e foro competente

Una cattiva abitudine è anche quella di relegare le clausole su legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie alla fine dell’accordo (tanto che vengono definite “Midnight Clauses”, per un approfondimento si veda questo post su Legalmondo) e di non prestare particolare attenzione al loro contenuto.

Ciò porta spesso alla previsione di clausole del tutto sbagliate (o addirittura nulle) che in caso di contenzioso vanificano la possibilità di ottenere tutela in giudizio.

La clausola che prevede la legge applicabile e la giurisdizione è fondamentale, perché da essa dipende la possibilità di far rispettare l’accordo e/o di ottenere un provvedimento giudiziario che possa essere eseguito in modo rapido ed efficace.

La questione è molto delicata perché non esiste una soluzione valida per tutti i casi e occorre considerare le specificità del singolo accordo di riservatezza.

Ci sono le Parti e dove hanno sede? Quali sono le informazioni riservate e dove possono essere utilizzate? Cosa prevede la legge del paese in cui ha sede la controparte? La modalità di risoluzione delle controversie più efficace deve essere individuata dando risposta a queste domande.

Facciamo un esempio: in un NDA con una controparte cinese è spesso controproducente scegliere di applicare la giurisdizione e la legge italiana, visto che in caso di inadempimento è solitamente necessario agire rapidamente in Cina (anche in via d’urgenza) e non presso un giudice italiano. In tal caso è consigliabile redigere il NDA con testo bilingue inglese/cinese e prevedere un arbitrato in Cina, applicando la legge cinese.

NDA in inglese, cinese o doppia lingua

Accade spesso che il modello di NDA venga proposto dalla controparte straniera e sia in inglese, o in doppia lingua (es. inglese e cinese).

E’ anche frequente che sia la parte italiana che richieda che i contratti internazionali siano in doppia lingua: ad esempio italiano e inglese o spagnolo.

In alcuni casi, per fortuna eccezionali, ho anche visto contratti in 3 lingue: italiano, inglese e cinese.

Ciò si verifica di solito perché, nonostante l’inglese sia la lingua franca del commercio internazionale, le parti sono più a loro agio nel negoziare e firmare un accordo che sia anche nella loro lingua.

La previsione di una seconda lingua può poi essere importante per essere certi che non vi siano fraintendimenti sul contenuto dell’accordo (una parte cinese non potrà invocare di non aver compreso il significato di un patto in inglese, se è disponibile una versione anche in cinese).

Infine, se necessario, una versione bilingue è immediatamente ed agevolmente utilizzabile in caso di azione legale, per rimanere sullo stesso esempio, davanti ad un giudice cinese, senza che sia necessario procedere a traduzioni (non sempre di buona qualità) nel corso del giudizio.

Qualche consiglio pratico:

  • se non si conosce la seconda lingua del NDA, verificare sempre che il contenuto sia completo e conforme a quello della prima (accade spesso che nei vari passaggi di negoziato di un accordo qualcuno si dimentichi di riportare una modifica nell’altra lingua)
  • se possibile richiedere una revisione del testo anche da parte di un legale madrelingua, per escludere l’utilizzo di termini impropri o non corretti
  • stabilire quale versione prevale in caso di incongruenze tra una lingua e l’altra

In conclusione

Il NDA – Accordo di riservatezza è un contratto che spesso è concluso in modo frettoloso, sottovalutandone l’importanza e la complessità.

Il mio consiglio è di evitare il fai da te e affidarsi ad un legale specializzato, che sappia negoziare e redigere il NDA tenendo conto di tutte le particolarità del caso (tipo di negoziato, informazioni riservate condivise, sede delle parti e paesi in cui andrà eseguito il NDA, contenuto della legge straniera eventualmente applicabile, modalità di risoluzione delle controversie più conveniente, etc.).

Possiamo aiutarti?

Legalmondo offre la possibilità di lavorare online con un avvocato specializzato per redigere il tuo NDA, revisionare il contratto proposto dalla controparte o negoziare un NDA con partner italiani o stranieri.

Vai alla pagina Contrattualistica Internazionale

The Italian Budget Law for 2017 (Law No. 232 of 11 December 2016), with the specific purpose of attracting high net worth individuals to Italy, introduced the new article 24-bis in the Italian Income Tax Code (“ITC”) which regulates an elective tax regime for individuals who transfer their tax residence to Italy.

The special tax regime provides for the payment of an annual substitutive tax of EUR 100.000,00 and the exemption from:

  • any foreign income (except specific capital gains);
  • tax on foreign real estate properties (IVIE ) and tax on foreign financial assets (IVAFE);
  • the obligation to report foreign assets in the tax return;
  • inheritance and gift tax on foreign assets.

Eligibility

Persons entitled to opt for the special tax regime are individuals transferring their tax residence to Italy pursuant to the Italian law and who have not been resident in Italy for tax purposes for at least nine out of the ten years preceding the year in which the regime becomes effective.

According to art. 2 of the ITC, residents of Italy for income tax purposes are those persons who, for the greater part of the year, are registered within the Civil Registry of the Resident Population or have the residence or the domicile in Italy under the Italian Civil Code. About this, it is worth noting that persons who have moved to a black listed jurisdiction are considered to have their tax residence in Italy unless proof to the contrary is provided.

According to the Italian Civil Code, the residence is the place where a person has his/her habitual abode, whilst the domicile is the place where the person has the principal center of his businesses and interests.

Exemptions

The special tax regime exempts any foreign income from the Italian individual income tax (IRPEF).

In particular the exemption applies to:

  • income from self-employment generated from activities carried out abroad;
  • income from business activities carried out abroad through a permanent establishment;
  • income from employment carried out abroad;
  • income from a property owned abroad;
  • interests from foreign bank accounts;
  • capital gains from the sale of shares in foreign companies;

However, according to an anti-avoidance provision, the exemption does not apply to capital gains deriving from the sale of “substantial” participations that occur within the first five tax years of the validity of the special tax regime. “Substantial” participations are, in particular, those representing more than 2% of the voting rights or 5% of the capital of listed companies or 20% of the voting rights or 25% of the capital of non-listed companies.

Any Italian source income shall be subject to regular income taxation.

It must be underlined that, under the special tax regime no foreign tax credit will be granted for taxes paid abroad. However, the taxpayer is allowed to exclude income arising in one or more foreign jurisdictions from the application of the special regime. This income will then be subject to the ordinary tax rule and the foreign tax credit will be granted.

The special tax regime exempts the taxpayer also from the obligation to report foreign assets in the annual tax return and from the payment of the IVIE and the IVAFE.

Finally, the special tax regime provides for the exemption from the inheritance and gift tax with regard to transfers by inheritance or donations made during the period of validity of the regime. The exemption is limited to assets and rights existing in the Italian territory at the time of the donation or the inheritance.

Substitutive Tax and Family Members

The taxpayer must pay an annual substitutive tax of EUR 100,000 regardless of the amount of foreign income realised.

The special tax regime can be extended to family members by paying an additional EUR 25,000 substitutive tax for each person included in the regime, provided that the same conditions, applicable to the qualifying taxpayer, are met.

In particular, the extension is applicable to

  • spouses;
  • children and, in their absence, the direct relative in the descending line;
  • parents and, in their absence, the direct relative in the ascending line;
  • adopters;
  • sons–in-law and daughters-in-law;
  • fathers-in-law and mothers-in-law;
  • brothers and sisters.

How to apply

The option shall be made either in the tax return regarding the year in which the taxpayer becomes resident in Italy, or in the tax return of the following year.

Qualifying taxpayer may also submit a non-binding ruling request to the Italian Revenue Agency, in order to prove that all requirements to access the special regime are met. The ruling can be filed before the transfer of the tax residence to Italy.

The Revenue Agency shall respond within 120 days as from the receipt of the request. The reply is not binding for the taxpayer, but it is binding for the Revenue Agency.

If no ruling request is filed, the same information provided in the request must be provided together with the tax return where the election is made.

Termination

The option for the special tax regime is automatically renewed each year and it ends, in any case, after fifteen years from the first tax year of validity. However, the option can be revoked by the taxpayer at any time.

In case of termination or revocation, family members included in the election are also automatically excluded from the regime.

After the ordinary termination or revocation, it is no longer possible to apply for the special tax regime.

The author of this post is Valerio Cirimbilla.

In questo post focalizziamo l’attenzione sull’approvazione online delle clausole vessatorie – spesso contenute nelle condizioni generali di vendita o di servizio – alla luce della legislazione italiana, al fine di verificare se sia valida la prassi di richiedere l’adesione del consumatore/cliente al contratto mediante point and click.

Le clausole vessatorie sono previste dall’art. 1341 del codice civile, che ne fornisce un elenco: “le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”. Lo stesso articolo, per la loro validità, richiede una specifica approvazione per iscritto, in mancanza della quale le clausole non hanno effetto.

Nel commercio elettronico la modalità tipica di conclusione dei contratti è quella del point and click, che consiste nello spuntare un box come approvazione delle condizioni contrattuali. Il Codice dell’amministrazione digitale (D.lgs. 82/2005, come modificato in ultimo dalla L. 147/2013), all’art. 21 comma 1, la equipara a una mera espressione della volontà contrattuale, sufficiente per concludere validamente un contratto, ma non sufficiente per integrare il requisito della “specifica approvazione per iscritto”, richiesto per le clausole vessatorie.

Al contrario, infatti, l’art. 21 comma 2 della stessa legge prevede che solo la firma digitale sia equiparata alla scrittura privata, e quindi possa costituire a tutti gli effetti una “approvazione per iscritto“.

Appare chiaro, dunque, che si possono sottoscrivere online delle clausole vessatorie unicamente mediante l’apposizione di una firma digitale. La dottrina italiana è concorde con questa interpretazione, mentre le pronunce si contano sulle dita di una mano: la più recente è del Tribunale di Catanzaro (30 aprile 2012) e si è espressa in questo senso, stabilendo che “con riguardo alle clausole vessatorie on line, l’opinione dottrinale prevalente – alla quale il Tribunale aderisce – ritiene che non sia sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale, ma sia necessaria la specifica sottoscrizione delle singole clausole, che deve essere assolta con la firma digitale. Dunque, nei contratti telematici a forma libera il contratto si perfeziona mediante il tasto negoziale virtuale, ma le clausole vessatorie saranno efficaci e vincolanti solo se specificamente approvate con la firma digitale”.

Alcuni si sono chiesti se il meccanismo di iscrizione/username/password (di cui ormai quasi tutti i siti di e-commerce sono dotati) possa essere equiparato alla firma digitale, ma pare si debba dare una risposta negativa al quesito. La Guida alla Firma Digitale del CNIPA dell’aprile 2009, infatti, lo esclude indirettamente quando afferma che “la firma elettronica (generica) può essere realizzata con qualsiasi strumento (password, PIN, digitalizzazione della firma autografa, tecniche biometriche etc.) in grado di conferire un certo livello di autenticazione a dati elettronici”, facendo rientrare il meccanismo di username/password tra le firme elettroniche generiche e non tra le firme digitali.

Quante sono le firme digitali in Italia? Se fino a pochi anni fa era uno strumento riservato unicamente ad alcune tipologie di professionisti, negli ultimi anni è diventata un dispositivo sempre più diffuso, tant’è che l’Agenzia per l’Italia Digitale ha quantificato in più di 20 milioni i certificati qualificati di firma digitale attivi in Italia. Il dato è in costante e notevole crescita: basti pensare che dal 2014 ad oggi le firme digitali sono quadruplicate.

In conclusione:

  • la sottoscrizione di un contratto e delle condizioni generali può avvenire mediante un semplice point and click;
  • al contrario, per la validità delle clausole vessatorie è richiesta la specifica approvazione con firma digitale o firma cartacea.

In attesa di un intervento legislativo che ponga rimedio a questa situazione, è necessario prestare particolare attenzione nella redazione dei contratti che dovranno essere approvati online: un soggetto che vende beni o fornisce servizi online e vuole inserire nel suo contratto delle clausole vessatorie dovrà predisporre un form che consenta al cliente di scegliere se concludere il contratto integralmente online (con firma digitale) o se stamparne una copia, sottoscriverla e inviarla in formato cartaceo.

Ciò premesso, data la continua evoluzione della materia e la complessità della stessa, è consigliabile affidarsi a un consulente esperto nella redazione delle condizioni generali di vendita o di servizio, per trovare il giusto equilibrio tra le necessità contrattuali, gli obblighi normativi ed evitare di ritrovarsi con un contratto poco efficace a causa della nullità di alcune clausole.

Il 25 maggio 2018 è entrato in vigore il Regolamento UE 2016/679, in materia di “protezione” dei dati personali (di seguito il “Regolamento” o “GDPR”), strumento normativo comunitario che mira a rafforzare il diritto delle persone fisiche a veder protetti i propri dati personali, già elevato a “diritto fondamentale” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Articolo 8 paragrafo 1) e nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Articolo 16 paragrafo 1).

Il Regolamento ha immediata applicazione nell’ordinamento italiano e non necessita di alcun recepimento da parte del legislatore nazionale. Le sue disposizioni prevalgono sulle leggi interne. Da un punto di vista pratico ciò significa che, in caso di contrasto tra una disposizione contenuta nel Regolamento ed una prevista nel “vecchio” Decreto Legislativo 196/2003, sarà la prima a prevalere.

Il GDPR si compone di 99 articoli di cui, solo alcuni, costituiscono delle novità ed hanno una specifica rilevanza per i titolari/gestori di strutture ricettive.

Sicuramente una prima novità è quella relativa al “consenso esplicito” per il trattamento dei dati “sensibili” e le decisioni basate su trattamenti automatizzati (compresa la profilazione – art. 22). È infatti necessario che il cliente manifesti un consenso distinto da quello relativo agli altri dati. Il consenso raccolto prima del 25 maggio 2018 resta valido solo se ha queste caratteristiche.

Ciò impone, ad esempio, al titolare dei dati di adeguare il proprio sito web, o le newsletter promozionali inviate ai propri clienti. Questi devono essere informati delle finalità per le quali vengono raccolti i dati e dei diritti che spettano loro. Per l’iscrizione alla newsletter dovrebbe essere necessaria unicamente la mail e qualora fossero richiesti altri dati, andranno specificate le finalità per le quali vengono domandati. Prima della richiesta di iscrizione il cliente dovrà rilasciare il proprio consenso e l’accettazione della privacy policy. L’informativa sulla privacy dovrà essere raggiungibile chiaramente dall’home page del sito. Per quanto concerne specificamente la newsletter, l’informativa deve essere indicata e linkata anche nel relativo box di iscrizione.

Sono state poi introdotte delle rilevanti modiche ai compiti del Titolare del trattamento dei Dati ed al Responsabile per il trattamento dei dati, entrambe figure che vengono in rilievo nelle strutture alberghiere. 

Il Titolare del trattamento dei dati deve ora: (i) essere in grado di dimostrare che l’interessato abbia prestato il consenso a uno specifico trattamento, (ii) fornire i dati di contatto del Responsabile della protezione dei dati, (iii) dichiarare se trasferisce i dati personali in Paesi terzi e, in caso affermativo, attraverso quali strumenti, (iv) specificare il periodo di conservazione dei dati o i criteri seguiti per stabilire tale periodo di conservazione, e il diritto di presentare un reclamo all’autorità di controllo, (v) specificare se il trattamento comporti processi decisionali automatizzati (anche la profilazione), e le conseguenze previste per l’interessato.

Il Responsabile per il trattamento dei dati (c.d. Data protection Officer – DPO), è invece il professionista (che può essere interno o esterno alla struttura) garante dell’osservazioni delle norme del GPDR e della gestione e trattamento dei dati.

Secondo la nuova normativa i compiti di detto soggetto consistono ora nella: (i) tenuta del registro dei trattamenti svolti (ex art. 30,paragrafo 2), e (ii) nell’adozione di idonee misure tecniche e organizzative per garantire la sicurezza dei trattamenti (ex art. 32 Regolamento).

Il suo nome deve essere riportato nell’informativa che occorre consegnare al Cliente. Il suo rapporto con il titolare del trattamento è regolato obbligatoriamente da un contratto che deve disciplinare tassativamente almeno le materie riportate al paragrafo 3 dell’art. 28 al fine di dimostrare che il responsabile fornisce “garanzie sufficienti” ad una corretta gestione e trattamento dei dati. Il Responsabile può nominare a sua volta un “sub-responsabile” ma solo per limitate attività di trattamento, nel rispetto di quanto previsto nel suo contratto, e risponde dell’inadempimento del sub-responsabile.

Alla luce di tali disposizioni, le strutture alberghiere dovranno poi provvedere ad una più attenta valutazione del rischio derivante dal trattamento dei dati, approntare una dettagliata procedura in grado di monitorare costantemente l’idoneità del trattamento, provvedere tempestivamente a notificare una violazione della procedura di sicurezza che comporti la divulgazione anche accidentale dei dati, adeguare le proprie informative da consegnare al Cliente.

Merita, infine, di esser segnalato che le sanzioni per le violazioni al GDPR possono essere assai rilevanti e giungere fino al 4% del fatturato dell’impresa, ben più severe rispetto a quelle previste in precedenza. E’ quindi necessario prestare molta attenzione al rispetto del GDPR, in quanto una sua errata o carente applicazione può determinare gravi pregiudizi all’impresa.

L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.

Over the last year, the escalation of cryptocurrencies has aroused a number of issues and controversial debates for the lack of regulation in most jurisdictions, including Italy where the only regulation of the cryptocurrency phenomenon is set by the AML legislation. According to the Italian law, cryptocurrencies do not have legal tender status, the regulators have qualified cryptocurrencies as means of exchange different from e-money, which, however, can be converted into Euro for purchasing virtual currency as for selling such currency; moreover, they can be used to buy both virtual and real goods and services. As a matter of fact, the lack of regulation concerning cryptocurrencies as a form of currency and a financial instrument does not prevent the trade and use of cryptocurrencies not only as means of payment but also as contribution to fund the share capital of limited liability companies.

On July, 18th, the Court of Brescia has denied the validity of a resolution increasing the share capital of a limited liability company subscribed for by certain utility tokens because the relevant contribution (equal to Euro 714,000) didn’t comply with Article 2464 of the Civil Code. The Court has not banned the contribution of cryptocurrencies but based on that case it has remarked the criteria governing contributions in kind which were not met for the subscription of the increase of share capital as resolved by the company; giving that, and starting from this assumption, it is possible to highlight criteria requested by the Italian law to contribute cryptocurrencies into share capital.

Any (tangible and intangible) asset can be contributed into the share capital of joint-stock companies (S.p.A.) and limited liability companies (S.r.l.) to the extent that they have an indisputable economic value (as proved by a sworn appraisal from an expert who issues the relevant report) and a potential market where they can be exchanged and/or converted into cash. The report must be focused on the description of the contributed assets, the reference of the adopted criteria of evaluation, and the certification that their value is, at least, equal to the one assigned at the moment of the subscription of the capital and of the premium, if any. As a matter of fact, the function of the share capital is to guarantee the creditors in relation to the company liabilities, as a consequence it is mandatory that the economic value of the share capital must be indisputable and in compliance with the law, especially when including cryptocurrencies or digital assets.

Moving on the case, the cryptocurrencies contributed were issued by a company based in Bulgaria, they were utility tokens used as mean of payment for buying goods and services on a web platform, owned by the issuers of these digital assets. Hence these tokens were not traded in any exchange platform where it is possible to fix an indisputable exchange rate and then the relevant economic value. Indeed, the Court has reasoned the direct proportion between the value of the contribution into the equity and the existence of exchanges where the value of the cryptocurrency would have been set. Moreover, the Court has stated the lack of enforceability of the tokens contributed. Under the practical side, the contribution of cryptocurrencies has to be made by reporting the private key from the contributor to the company, giving that the enforceability of cryptocurrencies by a pledge can be done subject to the collaboration and the consent of the contributor who has to disclose the private key; should the contributor refuse to disclose the private key, the enforceability of the pledge on the tokens would be undermined.

To sum up, in theory the contribution of cryptocurrencies into equity is not forbidden under the Italian law, however giving its questionable nature, it is still controversial how to guarantee the compliance with the mandatory requirements for the contribution in kind.

This case history and the order of the Court of Brescia give us the opportunity to provide the Italian picture on cryptocurrencies.

The Italian crypto-scenario is quite effervescent since the beginning of 2017; indeed, Italy was the first European country to define the virtual currency and the exchanger according to the new AML legislation. This is not strange considering that the anonymity surrounding cryptocurrencies, which varies from complete anonymity to pseudo-anonymity, prevents cryptocurrency transactions from being adequately monitored, allowing shady transactions to occur outside of the regulatory perimeter and criminal organisations to use cryptocurrencies to obtain easy access to “clean cash”. Anonymity is also the major issue when it comes to tax evasion.

The AML Law

Legislative Decree no. 90 of May 25th 2017, which reformed legislative decree no. 231/2007, introduced definitions of exchanges and virtual currencies and provided a set of rules for the exchanges to comply with the anti-money laundering rules.

Virtual currency means “a digital representation of value that is neither issued by a central bank or a public authority, nor attached to a legally established fiat currency, which can be used as a means of exchange for the purchase of goods and services and transferred, stored and traded electronically.” Virtual currencies within the scope of AMLD5 and of the Italian AML Law are those that can be transferred, stored and traded electronically. Until now, other virtual currency schemes are not in scope, including virtual currencies used to attain goods and services without requiring exchange into legal tender or similar instruments, or the use of a custodian wallet provider.

Exchanges are defined as virtual service providers: “any natural or legal person providing professional services to third parties for the use, the exchange, the related storage of virtual currencies and for the conversion from or in currencies having legal tender [.]” Given this scope, they are subject to anti-money laundering regulations and, therefore, they have to obtain a sort of licence and be listed in a special register to operate in Italy. Considering this definition, it seems that a material number of key players are not included in AML law, for example miners and pure cryptocurrency exchanges that are not custodian wallet providers, hardware and software wallet providers, trading platforms and coin offerors. This choice of the legislator leaves blind spots in the fight against money laundering, terrorist financing and tax evasion. However, a decree of the Ministry of Economy and Finance (MEF) is under discussion, which seeks to extend the monitoring not only to exchanges but also to those subjects that accept cryptocurrencies for the sale of services and goods.

As said, apart from the AML Law, there is a lack of regulation which undermines the grade of protection of users and investors.

The protection of users/investors

One of the issues which prevents or undermines the grade of the protection is that crypto markets and crypto players can be located in jurisdictions that do not have effective money laundering and terrorist financing controls in place or do not have any regulation for their offering to the investors. Moreover, against the risk of default of the platform or the exchanges there is very little to do to protect investors especially at a cross-border level.

The protection of users/investors depends on several factors, the first one being the nature of the cryptocurrencies in question and the crypto-platforms (i.e. what they are, where they are based and whether they are compliant with the Italian law).

The nature of the cryptocurrencies has to be identified on a case-by-case basis. If qualified as securities (standard financial products which are transferable and generate profits), the prospectus rules should apply, this meaning that a prospectus is required under the Consolidated Financial Law (“Testo Unico Finanza” or “TUF”) to disclose significant financial risks to investors. If they are a hybrid made up of a means of payment and an investment component, the application of the TUF provisions is controversial.

From a criminal perspective, users/investors can be protected in case of fraud irrespective of the above factors. The general remedies under the criminal law apply.

The landmarks for investors’ protection are:

  • The AML Law defining the subjects obliged to declare their activities in the cryptocurrencies world (e. the custodian wallet providers and the virtual currency exchanges);
  • The TUF rules, inter alia, the prospectus regulation; and
  • The Consumers’ Code rules the mandatory provisions on the “form and pre-contractual information”.

The common ground of civil actions is the disclosure of pre-contractual information to investors and the compliance of crypto-platforms and exchanges with the Italian law.

Civil actions might be brought against platforms:

  • Pursuant to Articles 50 and 67 of the Consumers’ Code, according to which any contract must provide consumers with mandatory “pre-contractual information”.
  • Pursuant to Article 23 of the TUF, according to which any contract providing investment services must be in writing and “failure to comply with the prescribed form shall render the contract null and void”.

In 2017, the Court of Verona declared a contract null and void because of its breach of the mandatory provisions on the “form and pre-contractual information” and ordered the refund of the money to the consumer. From the consumers’ perspective, all the information about the nature, the risks and the features of any cryptocurrency must be provided in advance to individuals in a transparent manner. As a matter of fact, the Court of Verona has reasoned that any online agreement between parties, implying the exchange of real money for virtual money, represents a financial service or rather “a paid service.” The Court judged that the contract between the exchange and the Italian consumer was null and void, as the IT service firm breached the obligations set forth by Articles 50 on “distance contracts” and 67 of the Consumers’ Code, which provide as mandatory the “form and pre-contractual information” to be provided to consumers. Lastly, the Court ordered to return to the Italian plaintiff the amount invested in cryptocurrencies.

For the sake of completeness, the consumers’ protection has been achieved also by the Italian Antitrust Authority (i.e. the non-governmental organization focused on consumer protection), which stopped the operations of several affiliates of OneCoin, the digital currency investment scheme widely accused of fraud.

In 2017, Consob (National Authority for the Stock Exchange) banned the advertisement and then the offer of investment portfolios containing cryptocurrencies, made in breach of the prospectus regulation.

Pursuant to Article 101, Par. 4, Part c) of the TUF, Consob has prohibited the advertising – via the website www.coinspace1.com – of the public offer for ‘cryptocurrency extraction packages’ launched by Coinspace Ltd (Resolution no. 19968 of April 20th 2017). The offer had already been the subject of a precautionary 90-day suspension. Moreover, on December 6th, 2017, pursuant to resolution no. 20207, under Article 99, paragraph 1, letter d) of the TUF, Consob banned the offer to the Italian public of “investment portfolios” carried out without the required authorizations by Cryp Trade Capital through the website https://cryp.trade. A few months later, in March 2018, the website https://cryp.trade was subjected to precautionary seizure by the Criminal Court of Rome pursuant to Article 166 of the TUF (a criminal provision which punishes those who carry out financial services and activities without Consob’s authorization). The common ground of these resolutions issued by Consob is the absolute lack of the mandatory information and prospectus set forth by the TUF for entities providing financial services to Italian investors trading in cryptocurrencies and cryptocurrency-related products. Given the application of the TUF, pursuant to Article 23, any contracts for the provision of investment services must be in writing and “failure to comply with the prescribed form shall render the contract null and void”.

Both resolutions have remarked how the Italian versions of the websites were the evidence that those offers were targeted to the Italian market, therefore Consob has set the criteria to identify the territoriality of the crypto-platforms subject to the Italian law which is: “where the cryptocurrencies are intended to be offered to the public”.

To complete this overview, some highlights follow on ICOs and the tax regime of cryptocurrencies in Italy.

ICOs

Initial Coin Offerings (ICOs) are not regulated by the Italian law. In ICOs the funding collected by a start-up could also be exchanged for an equity token (very similar to securities and then embodying an interest in the issuing start-up) or a utility token, which entitles the holder to exchange it for goods or services provided by the same start-up.

ICOs are very controversial (even if not yet officially banned by Consob), as they issue equity tokens that, due to their similarity to securities, can be offered to the public of investors only by entities duly authorized by the regulators, according to the TUF. As far as utility tokens, in theory their issuance might be allowed subject to a strict set of contractual rules, in order to protect investors as much as possible. However, the ICOs market has not taken off, yet.

The tax regime

For Italian tax purposes, the taxation of cryptocurrencies is not regulated by Law. Nonetheless, the Italian Revenue Agency issued a Ruling in May 2018 providing that gains on virtual currency for individuals trading outside a business activity are treated as gains arising from the disposal of traditional foreign currency. Consequently, gains relating to forward sale are always taxable, rather gains relating to forward sale are taxable only to the extent that, during the tax period, the average amount of the overall virtual currency maintained by the taxpayer exceeds the equivalent of EUR 51,645.69 for seven days in a row (the exchange rate to use is the one given by the website where the individual carried out the transaction). Any gain is therefore subject to 26% withholding tax. Additionally, the taxpayer must comply with the tax monitoring duties in the Individual Tax Return though he is not exempted from wealth tax (IVAFE), to the extent that virtual currency is not held through institutions or other authorized intermediaries by the Bank of Italy.

The same regulatory uncertainty put on the taxation of corporations trading in virtual currency. In a Ruling issued in September 2018, the authorities submitted that exchanges of bitcoins for legal currency constitute, for income tax purposes, a taxable event subject to Ires (24%) and Irap (3.9%).

For indirect tax purposes, the authorities confirmed that trading in bitcoins and other virtual currencies is similar to the activity of an intermediary negotiating in financial instruments, and, as a consequence, it is exempt from VAT under the Italian provision implementing article 135(1)(e) of the VAT Directive (2006/112). Therefore, when bitcoins are exchanged for real currencies, no VAT is due on the value of the bitcoins themselves.

The author of this post is Milena Prisco.

E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

Clausole vessatorie online – Approvazione con point and click?

19 Novembre 2018

  • Italia
  • Contratti
  • eCommerce

Il principio maggioritario, aspetto cardine nelle società di capitali, entra in crisi di fronte a quelle situazioni in cui il capitale sociale è ripartito al 50% tra due soci contrapposti. In tali ipotesi l’assunzione di deliberazioni è impossibile se non in caso di unanimità e questo, evidentemente, comporta frequenti situazioni di paralisi decisionale e gestoria.

Il dissenso insanabile tra i soci può condurre alla dissoluzione della società e, per questo, sono state trovate diverse strategie per superare l’empasse: una di queste è la c.d. “Russian Roulette Clause”.

I soci possono pattiziamente concordare che in situazioni di stallo gestionale venga attivata la clausola, la quale è diretta a far ripartire l’attività sociale attraverso una riallocazione delle partecipazioni.

Le due forze contrapposte possono prevedere che al verificarsi di determinati “trigger event”, uno dei due soci (o entrambi se così concordato) abbia il potere di determinare il valore del 50% del capitale e porre l’altro di fronte ad una scelta “secca”: acquistare la quota del socio offerente, al prezzo da lui proposto, o cedergli la propria quota al medesimo prezzo.

Dentro o fuori: chi attiva la roulette russa determina il prezzo e non sono ammessi rilanci. La determinazione unilaterale del prezzo è bilanciata e causalmente equilibrata dal rischio di perdere la propria partecipazione sociale. La scelta finale, infatti, spetta al socio che non ha determinato il prezzo.

L’autore di questo articolo è Giovannella Condò.

Con l’approvazione della legge sul Bilancio dello Stato per il 2018 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020, L. 27 dicembre 2017, n. 205 pubblicata nella G.U. n. 302 del 29/12/2017) la fatturazione elettronica diventa obbligatoria a fare data dal 1° Gennaio 2019 per tutti i soggetti IVA.

Si discute tuttavia la fattibilità di tale operazione o se sia necessario posticipare l’entrata in vigore della nuova normativa.

L’obbligo di fattura elettronica vale sia nel caso in cui la cessione del bene o la prestazione di servizio è effettuata tra due operatori IVA (operazioni B2B Business to Business) sia nel caso in cui la cessione/prestazione è effettuata da un operatore IVA verso un consumatore finale (operazioni B2C Business to Consumer).

L’emissione di fatture con modalità diverse da quella elettronica sarà considerata nulla.

Sono esonerati dalle menzionate disposizioni solo i soggetti che operano in “regime di vantaggio” previsto dall’art. 27 comma 3 del Decreto Legge n. 98/11 e coloro che applicano il “regime forfettario” previsto dalla Legge n. 190/14.

Dopo una prima fase riservata solamente alla fatturazione verso la PA, diventa quindi obbligatoria la fatturazione elettronica tra imprese e verso privati.

La fatturazione elettronica prevede l’emissione di fatture strutturate secondo un linguaggio standard denominato formato XML (extensible Markup Language) firmate digitalmente da chi le emette, trasmesse tramite Sdl (Servizio di interscambio dell’Agenzia delle Entrate) e obbligatoriamente da conservare ai fini fiscali solo in digitale.

La fattura elettronica si differenzia pertanto da una fattura cartacea solo per due aspetti:

  • Va necessariamente redatta utilizzando un pc, un tablet, o uno smartphone;
  • Deve essere trasmessa elettronicamente tramite il c.d. Sistema di Interscambio (SdI) altrimenti è considerata come non emessa.

Le regole per predisporre, trasmettere, ricevere e conservare le fatture elettroniche sono definite nel provvedimento n. 89757 del 30 aprile 2018 pubblicato sul sito dell’Agenzia delle Entrate.

La fatturazione elettronica è un sistema completamente digitale di emissione e conservazione delle fatture che non necessita di supporto cartaceo e quindi permette di risparmiare tutti i costi relativi a stampa, spedizione e conservazione.

L’invio della Fattura elettronica può avvenire tramite Posta Elettronica Certificata (PEC), tramite intermediario o portali web.

Il SdI esegue dei controlli sulla fattura elettronica:

  • verifica che siano presenti almeno le informazioni minime obbligatorie previste dalla legge;
  • verifica che i valori della partita IVA del fornitore oppure il C.F. del cliente siano presenti nell’Anagrafe Tributaria;
  • verifica che sia inserito l’indirizzo telematico;
  • verifica che ci sia coerenza tra i valori dell’imponibile, dell’aliquota e dell’IVA.

Se uno dei controlli non va a buon fine il SdI “scarta” la fattura. La “ricevuta di scarto” viene trasmessa da SdI alla medesima PEC o al medesimo canale telematico (FTP – Protocollo di Trasferimento File o web service) da cui ha ricevuto la fattura elettronica.

Se i controlli vanno a buon fine, il SdI recapita la fattura elettronica all’indirizzo telematico che legge nel file della fattura e invia al soggetto che ha trasmesso il file una “ricevuta di consegna”.

Nel caso in cui la casella PEC ovvero il canale telematico FTP o Web Service dove SdI prova a recapitare il file della fattura non fossero attivi, il SdI mette comunque a disposizione il duplicato della fattura in un’area riservata e invia al soggetto che ha trasmesso il file una ricevuta di impossibilità di consegna. La fattura si considera emessa per il fornitore ma non ancora definitivamente ricevuta ai fini fiscali dal cliente.

In questo caso è conveniente avvertire il cliente attraverso altri mezzi della emissione della fattura.

Sia chi emette che chi riceve una fattura elettronica è obbligato a conservarla elettronicamente. La conservazione elettronica non è la semplice memorizzazione sul PC. Il processo di conservazione elettronica è usualmente fornito da operatori privati certificati tuttavia l’Agenzia delle Entrate mette gratuitamente a disposizione un servizio di conservazione elettronica.

In caso di inosservanza dell’obbligo di emissione della fattura elettronica trovano applicazione le sanzioni previste dall’articolo 6 del Decreto Legislativo n. 417/97 che dispongono una sanzione amministrativa compresa tra il novanta e il centottanta per cento dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell’esercizio.

Per le operazioni “transfrontaliere” (fattura da e verso l’estero) non sussiste l’obbligo di fattura elettronica ma occorre effettuare una trasmissione mensile dei dati all’Agenzia delle Entrate entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello della data del documento emesso ovvero a quello della data di ricezione del documento comprovante l’operazione.

L’obbligo della fatturazione elettronica si propone di potenziare le attività di prevenzione dell’evasione fiscale. Un obbligo che tuttavia ha altri vantaggi. Attraverso le fatture emesse e trasmesse in modalità digitale infatti si riducono non soltanto gli adempimenti a carico dell’Amministrazione Finanziaria (generando risparmi di risorse pubbliche) ma anche i margini di errore nell’intero ciclo di vita delle fatture, con significativi risparmi di tempo e costi nel medio e lungo periodo per imprese e professionisti.

L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.

Riassunto – Si tratta di un accordo di riservatezza, spesso utilizzato nel commercio internazionale, con il quale le parti si obbligano a mantenere riservate le informazioni confidenziali o sensibili scambiate durante i negoziati. Il modello di contratto è abbastanza standard, ma per la sua validità ed efficacia è fondamentale che il contenuto sia adattato al caso concreto, come la clausola di legge applicabile, il foro competente o arbitrato, le clausole penali, la durata, la lingua del contratto.

Accade molto spesso che in differenti contesti di business venga proposta la sottoscrizione di un Non Disclosure Agreement (“NDA”) e di un Memorandum of Understanding (“MoU”) o di una Letter of Intent (“LoI”), tanto che questi tre acronimi – NDA, MoU e LoI – sono ormai diventati di uso corrente, soprattutto in occasione di negoziati internazionali.

Spesso, però, questi contratti vengono utilizzati in modo improprio e con finalità diverse da quelle con le quali si sono affermati nella prassi del commercio internazionale, con il risultato di non essere utili perché non tutelano in modo efficace gli interessi delle parti, o addirittura di essere controproducenti.

Iniziamo vedendo quali sono le caratteristiche del Non Disclosure Agreement – NDA – e come è consigliabile utilizzarlo.

Di cosa parlo in questo articolo

  • Cos’è il NDA – Accordo di riservatezza
  • Chi sono le parti del NDA – Accordo di riservatezza
  • Quali sono le Informazioni riservate?
  • La condivisione delle Informazioni riservate con terzi
  • Non Disclose and Non Use Agreement
  • Il divieto di concorrenza
  • La durata del NDA
  • Inadempimenti del NDA e clausola penale
  • NDA modello e standard
  • Quale legge applicabile e giudice in un NDA internazionale?
  • La lingua del NDA
  • Conclusioni
  • Come possiamo aiutarti

NDA – Cosa significa

Il NDA è un accordo che ha la funzione di tutelare la riservatezza delle informazioni che le parti (generalmente identificate, rispettivamente, come “Disclosing Party” e “Receiving Party”) intendono condividere, in diversi possibili scenari: la trasmissione d’informazioni per una due diligence preliminare a un investimento, la valutazione di dati commerciali per un contratto di distribuzione, le specifiche tecniche di un certo prodotto oggetto di trasferimento di tecnologia, etc.

Il primo step del negoziato, infatti, richiede spesso la messa a disposizione di informazioni di diverso tipo, tecniche, finanziarie o commerciali, da parte di una o di entrambe le parti, che è necessario che rimangano riservate (di seguito le “Informazioni Riservate”) durante e dopo la conclusione del negoziato.

Chi sono le parti dell’accordo di riservatezza?

Fondamentale, partendo dalle premesse dell’accordo, è la corretta individuazione delle parti obbligate alla protezione delle informazioni e al mantenimento della riservatezza, specie quando sono coinvolti gruppi societari, in cui gli interlocutori possono essere molteplici e situati in diversi paesi. In casi simili è consigliabile obbligare la Receiving Party a garantire il mantenimento della riservatezza da parte di tutte le società del gruppo.

È inoltre importante che l’accordo individui esattamente quali persone facenti parte dell’organizzazione della Receiving Party (si pensi a: dipendenti, consulenti tecnici, professionisti, collaboratori, etc.) hanno diritto di accedere alle Informazioni, se possibile con sottoscrizione dell’accordo di riservatezza da parte di tutte le persone coinvolte.

E’ anche importante prevedere se la Receiving Party possa o meno condividere le Informazioni Riservate con soggetti terzi, ad esempio consulenti tecnici o propri collaboratori esterni. In caso positivo la tutela migliore è quella di obbligare anche tali terzi a sottoscrivere il NDA e prevedere che la Receiving Party sia responsabile (“obbligata in solido”) insieme al terzo per il rispetto delle obbligazioni del NDA.

Spesso la richiesta di far firmare a terze parti il NDA e di essere responsabile per la gestione delle Informazioni Riservate da parte dei terzi viene contestata dalla Receiving Party, solitamente con la motivazione che sarebbe troppo complessa la gestione delle attività necessarie.

Ciò è sintomo di una scarsa predisposizione al rispetto dell’obbligo di riservatezza, che va valutato con attenzione. Se la parte ricevente non intende impegnarsi affinchè terzi rispettino gli obblighi di confidenzialità e non vuole essere responsabile dei loro eventuali inadempimenti ciò espone il Titolare ad un evidente rischio di divulgazione delle informazioni, senza che sia possibile agire in modo efficace per rimediare il danno.

Suggerisco, in questi casi, di essere molto rigorosi.

Il NDA deve prevedere che:

  • l’accesso alle Informazioni Riservate da parte di terzi è possibile solo se preventivamente autorizzato per iscritto dalla Disclosing Party
  • il terzo autorizzato deve firmare un allegato al NDA nel quale dichiara di aver preso visione degli obblighi di riservatezza e di obbligarsi al loro rispetto
  • il terzo non possa condividere le Informazioni Riservate con altri soggetti non vincolati dal NDA, salvo espressa autorizzazione del Titolare
  • la Disclosing Party sia responsabile in solido del rispetto delle obbligazioni del NDA da parte dei Terzi autorizzati

Identificazione delle Informazioni Riservate

L’utilizzo di modelli di NDA riciclati, reperiti su formulari o proposti dalla controparte è prassi certamente non raccomandabile, ma purtroppo molto diffusa.

Questi modelli, molto spesso, sono generici e contengono definizioni ampie delle Informazioni Riservate ed elenchi estremamente dettagliati, che comprendono, di fatto, tutto il contenuto dell’attività societaria, includendo spesso ambiti che non sono rilevanti per l’attività oggetto di negoziato, o informazioni che non sono riservate.

Un problema di questi modelli è che è difficile, ex post, verificare se un certo dato fosse o meno compreso nelle Informazioni, ad esempio perché non si sa se fosse già in possesso della Receiving Party prima della firma del NDA.

Un’altra criticità è rappresentata dal fatto che l’elenco molto dettagliato non includa proprio la singola informazione che interessa, oppure non lo faccia in modo chiaro.

Infine accade spesso che sia difficile ricostruire quali Informazioni, dopo la firma del NDA, sono state trasmesse alla Receiving Party, e quando è avvenuta la trasmissione (ad esempio perché sono state inviate in modalità non sicura e non tracciabile, è il caso delle Informazioni spedite come allegati da una email).

Come condividere le Informazioni Riservate

Il modo migliore di procedere è quello di identificare in modo preciso solo le informazioni che è necessario condividere, indicando i documenti da trasmettere in un elenco allegato al NDA.

Ad esempio, se si condivide un certo segreto industriale (“Know-how”) la cosa migliore è limitare l’oggetto dell’accordo solo alle informazioni sensibili relative a tale segreto e specificare in quale formato (cartaceo, digitale, software, hardware) verrà condiviso.

Il passo successivo è quello di metterli a disposizione in un formato che non consenta dubbi sul fatto che sono protette dal NDA, ad esempio marchiandole con un timbro “Confidential under NDA” seguito dalla data di invio.

Altra buona prassi è prevedere che l’accesso alle Informazioni avvenga con modalità sicura e tracciabile (come un’area riservata in cloud o sul server della Disclosing Party, accessibile solo con user name e password individuali assegnati alle persone autorizzate).

Il Divieto di uso delle Informazioni

Un errore abbastanza ricorrente nei modelli di NDA è la previsione dell’obbligo per la Receiving Party del solo mantenimento della riservatezza delle Informazioni, senza impedirgliene espressamente l’utilizzo.

Soprattutto nel caso di imprese concorrenti, però, l’utilizzo è più pericoloso della divulgazione: basti pensare alla possibilità che la Receiving Party sviluppi tecnologie o brevetti basati proprio sui segreti industriali acquisiti.

E’ importante prevedere, quindi, che l’obbligo non è solo di riservatezza ma anche di non uso, evidenziando tale patto anche nel titolo dell’accordo che può diventare “Non Disclosure and Non Use Agreement”.

Non Compete Agreement – Divieto di concorrenza

Altra situazione delicata è quella il cui una Parte condivida elenchi di clienti o di agenti o di fornitori o altre informazioni commerciali sensibili.

In questo caso oltre alle obbligazioni di riservatezza e di non utilizzo al di fuori di quanto previsto nel NDA, è bene prevedere espressamente clausole di Non Concorrenza.

Ad esempio, se viene condiviso un elenco di agenti o di fornitori, l’accordo può prevedere un obbligo di astensione dal contattare direttamente certi soggetti individuati negli elenchi condivisi (questo patto è anche noto come “Non Circumvention Agreement”).

La Durata dell’obbligo di riservatezza

La funzione del NDA è proteggere le Informazioni Riservate per tutto il tempo necessario alla loro condivisione tra le Parti.

È bene, quindi, che sia indicato in modo chiaro qual è il momento finale della condivisione e – nel caso in cui la Receiving Party sia in possesso di copia delle Informazioni Riservate – prevedere l’obbligo di restituzione o distruzione dei documenti.

E’ anche fondamentale indicare per quanto tempo la Receiving Party sia tenuta a mantenere la riservatezza e non utilizzare le Informazioni dopo il periodo necessario al loro esame, ad esempio 24 mesi.

NDA – Inadempimenti

Provare e quantificare i danni derivanti una violazione dell’obbligo di riservatezza è generalmente molto complesso, perché si traduce in vantaggio / danno intangibile, come ad esempio la possibilità di sviluppare un certo prodotto concorrente in tempi rapidi proprio grazie alle Informazioni apprese.

Può essere allora utile prevedere una clausola penale, che predetermini in una certa somma il danno derivante dall’inadempimento contrattuale.

A tal fine è importante considerare che la quantificazione della penale deve essere ragionevole in relazione al danno che si presume possa scaturire dalla violazione della segretezza o dall’utilizzo delle Informazioni.

E’ consigliabile prevedere diversi importi a titolo di penale in relazione a diverse ipotesi di inadempimento (ad esempio, la registrazione o la contraffazione di un brevetto utilizzando le informazioni tecniche condivise, oppure il contatto con certi partner commerciali).

In ogni caso, prima di inserire clausole penali è opportuno valutare cosa preveda la legge applicabile all’accordo per la validità di questo patto, in particolare per la quantificazione massima della penale (si veda il punto successivo).

Il rischio, se non si conosce la legge applicabile all’accordo di non riservatezza, è che in caso di contenzioso il Giudice ritenga la clausola invalida o che la penale sia di importo eccessivo in relazione all’inadempimento e quindi la riduca ad una somma equa.

Oppure, al contrario, una parte possa essere condannata al pagamento di una penale addirittura superiore al valore del contratto (è il caso di una recente decisione della Suprema Corte Russa).

La clausola penale, infine, può essere anche utilizzata in modo tattico. Se in sede di negoziato la Receiving Party si oppone fermamente all’inserimento della penale o ne chiede la riduzione ciò può essere un indizio di una riserva mentale di inadempimento.

NDA template e Smart Contract 

E’ molto agevole, oggi, procurarsi un modello di NDA: template o standard possono essere reperiti gratuitamente su vari siti come bozze generiche da completare, o essere costruiti online rispondendo ad una serie di domande per personalizzare il contratto per il caso specifico.

Il mio consiglio è di procedere con grande attenzione: per i motivi che spiego in questo post, il NDA è un accordo che deve essere redatto con grande attenzione e con l’aiuto di un consulente esperto.

Un buon modello (template) di NDA può essere una base di partenza utile, dopo di che una revisione di un esperto è un passaggio fondamentale, soprattutto per verificare che il contenuto del NDA sia conforme a quanto prevede la legge che si applica all’accordo e che le modalità di risoluzione delle controversie previste siano efficaci.

Legge applicabile e foro competente

Una cattiva abitudine è anche quella di relegare le clausole su legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie alla fine dell’accordo (tanto che vengono definite “Midnight Clauses”, per un approfondimento si veda questo post su Legalmondo) e di non prestare particolare attenzione al loro contenuto.

Ciò porta spesso alla previsione di clausole del tutto sbagliate (o addirittura nulle) che in caso di contenzioso vanificano la possibilità di ottenere tutela in giudizio.

La clausola che prevede la legge applicabile e la giurisdizione è fondamentale, perché da essa dipende la possibilità di far rispettare l’accordo e/o di ottenere un provvedimento giudiziario che possa essere eseguito in modo rapido ed efficace.

La questione è molto delicata perché non esiste una soluzione valida per tutti i casi e occorre considerare le specificità del singolo accordo di riservatezza.

Ci sono le Parti e dove hanno sede? Quali sono le informazioni riservate e dove possono essere utilizzate? Cosa prevede la legge del paese in cui ha sede la controparte? La modalità di risoluzione delle controversie più efficace deve essere individuata dando risposta a queste domande.

Facciamo un esempio: in un NDA con una controparte cinese è spesso controproducente scegliere di applicare la giurisdizione e la legge italiana, visto che in caso di inadempimento è solitamente necessario agire rapidamente in Cina (anche in via d’urgenza) e non presso un giudice italiano. In tal caso è consigliabile redigere il NDA con testo bilingue inglese/cinese e prevedere un arbitrato in Cina, applicando la legge cinese.

NDA in inglese, cinese o doppia lingua

Accade spesso che il modello di NDA venga proposto dalla controparte straniera e sia in inglese, o in doppia lingua (es. inglese e cinese).

E’ anche frequente che sia la parte italiana che richieda che i contratti internazionali siano in doppia lingua: ad esempio italiano e inglese o spagnolo.

In alcuni casi, per fortuna eccezionali, ho anche visto contratti in 3 lingue: italiano, inglese e cinese.

Ciò si verifica di solito perché, nonostante l’inglese sia la lingua franca del commercio internazionale, le parti sono più a loro agio nel negoziare e firmare un accordo che sia anche nella loro lingua.

La previsione di una seconda lingua può poi essere importante per essere certi che non vi siano fraintendimenti sul contenuto dell’accordo (una parte cinese non potrà invocare di non aver compreso il significato di un patto in inglese, se è disponibile una versione anche in cinese).

Infine, se necessario, una versione bilingue è immediatamente ed agevolmente utilizzabile in caso di azione legale, per rimanere sullo stesso esempio, davanti ad un giudice cinese, senza che sia necessario procedere a traduzioni (non sempre di buona qualità) nel corso del giudizio.

Qualche consiglio pratico:

  • se non si conosce la seconda lingua del NDA, verificare sempre che il contenuto sia completo e conforme a quello della prima (accade spesso che nei vari passaggi di negoziato di un accordo qualcuno si dimentichi di riportare una modifica nell’altra lingua)
  • se possibile richiedere una revisione del testo anche da parte di un legale madrelingua, per escludere l’utilizzo di termini impropri o non corretti
  • stabilire quale versione prevale in caso di incongruenze tra una lingua e l’altra

In conclusione

Il NDA – Accordo di riservatezza è un contratto che spesso è concluso in modo frettoloso, sottovalutandone l’importanza e la complessità.

Il mio consiglio è di evitare il fai da te e affidarsi ad un legale specializzato, che sappia negoziare e redigere il NDA tenendo conto di tutte le particolarità del caso (tipo di negoziato, informazioni riservate condivise, sede delle parti e paesi in cui andrà eseguito il NDA, contenuto della legge straniera eventualmente applicabile, modalità di risoluzione delle controversie più conveniente, etc.).

Possiamo aiutarti?

Legalmondo offre la possibilità di lavorare online con un avvocato specializzato per redigere il tuo NDA, revisionare il contratto proposto dalla controparte o negoziare un NDA con partner italiani o stranieri.

Vai alla pagina Contrattualistica Internazionale

The Italian Budget Law for 2017 (Law No. 232 of 11 December 2016), with the specific purpose of attracting high net worth individuals to Italy, introduced the new article 24-bis in the Italian Income Tax Code (“ITC”) which regulates an elective tax regime for individuals who transfer their tax residence to Italy.

The special tax regime provides for the payment of an annual substitutive tax of EUR 100.000,00 and the exemption from:

  • any foreign income (except specific capital gains);
  • tax on foreign real estate properties (IVIE ) and tax on foreign financial assets (IVAFE);
  • the obligation to report foreign assets in the tax return;
  • inheritance and gift tax on foreign assets.

Eligibility

Persons entitled to opt for the special tax regime are individuals transferring their tax residence to Italy pursuant to the Italian law and who have not been resident in Italy for tax purposes for at least nine out of the ten years preceding the year in which the regime becomes effective.

According to art. 2 of the ITC, residents of Italy for income tax purposes are those persons who, for the greater part of the year, are registered within the Civil Registry of the Resident Population or have the residence or the domicile in Italy under the Italian Civil Code. About this, it is worth noting that persons who have moved to a black listed jurisdiction are considered to have their tax residence in Italy unless proof to the contrary is provided.

According to the Italian Civil Code, the residence is the place where a person has his/her habitual abode, whilst the domicile is the place where the person has the principal center of his businesses and interests.

Exemptions

The special tax regime exempts any foreign income from the Italian individual income tax (IRPEF).

In particular the exemption applies to:

  • income from self-employment generated from activities carried out abroad;
  • income from business activities carried out abroad through a permanent establishment;
  • income from employment carried out abroad;
  • income from a property owned abroad;
  • interests from foreign bank accounts;
  • capital gains from the sale of shares in foreign companies;

However, according to an anti-avoidance provision, the exemption does not apply to capital gains deriving from the sale of “substantial” participations that occur within the first five tax years of the validity of the special tax regime. “Substantial” participations are, in particular, those representing more than 2% of the voting rights or 5% of the capital of listed companies or 20% of the voting rights or 25% of the capital of non-listed companies.

Any Italian source income shall be subject to regular income taxation.

It must be underlined that, under the special tax regime no foreign tax credit will be granted for taxes paid abroad. However, the taxpayer is allowed to exclude income arising in one or more foreign jurisdictions from the application of the special regime. This income will then be subject to the ordinary tax rule and the foreign tax credit will be granted.

The special tax regime exempts the taxpayer also from the obligation to report foreign assets in the annual tax return and from the payment of the IVIE and the IVAFE.

Finally, the special tax regime provides for the exemption from the inheritance and gift tax with regard to transfers by inheritance or donations made during the period of validity of the regime. The exemption is limited to assets and rights existing in the Italian territory at the time of the donation or the inheritance.

Substitutive Tax and Family Members

The taxpayer must pay an annual substitutive tax of EUR 100,000 regardless of the amount of foreign income realised.

The special tax regime can be extended to family members by paying an additional EUR 25,000 substitutive tax for each person included in the regime, provided that the same conditions, applicable to the qualifying taxpayer, are met.

In particular, the extension is applicable to

  • spouses;
  • children and, in their absence, the direct relative in the descending line;
  • parents and, in their absence, the direct relative in the ascending line;
  • adopters;
  • sons–in-law and daughters-in-law;
  • fathers-in-law and mothers-in-law;
  • brothers and sisters.

How to apply

The option shall be made either in the tax return regarding the year in which the taxpayer becomes resident in Italy, or in the tax return of the following year.

Qualifying taxpayer may also submit a non-binding ruling request to the Italian Revenue Agency, in order to prove that all requirements to access the special regime are met. The ruling can be filed before the transfer of the tax residence to Italy.

The Revenue Agency shall respond within 120 days as from the receipt of the request. The reply is not binding for the taxpayer, but it is binding for the Revenue Agency.

If no ruling request is filed, the same information provided in the request must be provided together with the tax return where the election is made.

Termination

The option for the special tax regime is automatically renewed each year and it ends, in any case, after fifteen years from the first tax year of validity. However, the option can be revoked by the taxpayer at any time.

In case of termination or revocation, family members included in the election are also automatically excluded from the regime.

After the ordinary termination or revocation, it is no longer possible to apply for the special tax regime.

The author of this post is Valerio Cirimbilla.

In questo post focalizziamo l’attenzione sull’approvazione online delle clausole vessatorie – spesso contenute nelle condizioni generali di vendita o di servizio – alla luce della legislazione italiana, al fine di verificare se sia valida la prassi di richiedere l’adesione del consumatore/cliente al contratto mediante point and click.

Le clausole vessatorie sono previste dall’art. 1341 del codice civile, che ne fornisce un elenco: “le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”. Lo stesso articolo, per la loro validità, richiede una specifica approvazione per iscritto, in mancanza della quale le clausole non hanno effetto.

Nel commercio elettronico la modalità tipica di conclusione dei contratti è quella del point and click, che consiste nello spuntare un box come approvazione delle condizioni contrattuali. Il Codice dell’amministrazione digitale (D.lgs. 82/2005, come modificato in ultimo dalla L. 147/2013), all’art. 21 comma 1, la equipara a una mera espressione della volontà contrattuale, sufficiente per concludere validamente un contratto, ma non sufficiente per integrare il requisito della “specifica approvazione per iscritto”, richiesto per le clausole vessatorie.

Al contrario, infatti, l’art. 21 comma 2 della stessa legge prevede che solo la firma digitale sia equiparata alla scrittura privata, e quindi possa costituire a tutti gli effetti una “approvazione per iscritto“.

Appare chiaro, dunque, che si possono sottoscrivere online delle clausole vessatorie unicamente mediante l’apposizione di una firma digitale. La dottrina italiana è concorde con questa interpretazione, mentre le pronunce si contano sulle dita di una mano: la più recente è del Tribunale di Catanzaro (30 aprile 2012) e si è espressa in questo senso, stabilendo che “con riguardo alle clausole vessatorie on line, l’opinione dottrinale prevalente – alla quale il Tribunale aderisce – ritiene che non sia sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale, ma sia necessaria la specifica sottoscrizione delle singole clausole, che deve essere assolta con la firma digitale. Dunque, nei contratti telematici a forma libera il contratto si perfeziona mediante il tasto negoziale virtuale, ma le clausole vessatorie saranno efficaci e vincolanti solo se specificamente approvate con la firma digitale”.

Alcuni si sono chiesti se il meccanismo di iscrizione/username/password (di cui ormai quasi tutti i siti di e-commerce sono dotati) possa essere equiparato alla firma digitale, ma pare si debba dare una risposta negativa al quesito. La Guida alla Firma Digitale del CNIPA dell’aprile 2009, infatti, lo esclude indirettamente quando afferma che “la firma elettronica (generica) può essere realizzata con qualsiasi strumento (password, PIN, digitalizzazione della firma autografa, tecniche biometriche etc.) in grado di conferire un certo livello di autenticazione a dati elettronici”, facendo rientrare il meccanismo di username/password tra le firme elettroniche generiche e non tra le firme digitali.

Quante sono le firme digitali in Italia? Se fino a pochi anni fa era uno strumento riservato unicamente ad alcune tipologie di professionisti, negli ultimi anni è diventata un dispositivo sempre più diffuso, tant’è che l’Agenzia per l’Italia Digitale ha quantificato in più di 20 milioni i certificati qualificati di firma digitale attivi in Italia. Il dato è in costante e notevole crescita: basti pensare che dal 2014 ad oggi le firme digitali sono quadruplicate.

In conclusione:

  • la sottoscrizione di un contratto e delle condizioni generali può avvenire mediante un semplice point and click;
  • al contrario, per la validità delle clausole vessatorie è richiesta la specifica approvazione con firma digitale o firma cartacea.

In attesa di un intervento legislativo che ponga rimedio a questa situazione, è necessario prestare particolare attenzione nella redazione dei contratti che dovranno essere approvati online: un soggetto che vende beni o fornisce servizi online e vuole inserire nel suo contratto delle clausole vessatorie dovrà predisporre un form che consenta al cliente di scegliere se concludere il contratto integralmente online (con firma digitale) o se stamparne una copia, sottoscriverla e inviarla in formato cartaceo.

Ciò premesso, data la continua evoluzione della materia e la complessità della stessa, è consigliabile affidarsi a un consulente esperto nella redazione delle condizioni generali di vendita o di servizio, per trovare il giusto equilibrio tra le necessità contrattuali, gli obblighi normativi ed evitare di ritrovarsi con un contratto poco efficace a causa della nullità di alcune clausole.

Il 25 maggio 2018 è entrato in vigore il Regolamento UE 2016/679, in materia di “protezione” dei dati personali (di seguito il “Regolamento” o “GDPR”), strumento normativo comunitario che mira a rafforzare il diritto delle persone fisiche a veder protetti i propri dati personali, già elevato a “diritto fondamentale” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Articolo 8 paragrafo 1) e nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Articolo 16 paragrafo 1).

Il Regolamento ha immediata applicazione nell’ordinamento italiano e non necessita di alcun recepimento da parte del legislatore nazionale. Le sue disposizioni prevalgono sulle leggi interne. Da un punto di vista pratico ciò significa che, in caso di contrasto tra una disposizione contenuta nel Regolamento ed una prevista nel “vecchio” Decreto Legislativo 196/2003, sarà la prima a prevalere.

Il GDPR si compone di 99 articoli di cui, solo alcuni, costituiscono delle novità ed hanno una specifica rilevanza per i titolari/gestori di strutture ricettive.

Sicuramente una prima novità è quella relativa al “consenso esplicito” per il trattamento dei dati “sensibili” e le decisioni basate su trattamenti automatizzati (compresa la profilazione – art. 22). È infatti necessario che il cliente manifesti un consenso distinto da quello relativo agli altri dati. Il consenso raccolto prima del 25 maggio 2018 resta valido solo se ha queste caratteristiche.

Ciò impone, ad esempio, al titolare dei dati di adeguare il proprio sito web, o le newsletter promozionali inviate ai propri clienti. Questi devono essere informati delle finalità per le quali vengono raccolti i dati e dei diritti che spettano loro. Per l’iscrizione alla newsletter dovrebbe essere necessaria unicamente la mail e qualora fossero richiesti altri dati, andranno specificate le finalità per le quali vengono domandati. Prima della richiesta di iscrizione il cliente dovrà rilasciare il proprio consenso e l’accettazione della privacy policy. L’informativa sulla privacy dovrà essere raggiungibile chiaramente dall’home page del sito. Per quanto concerne specificamente la newsletter, l’informativa deve essere indicata e linkata anche nel relativo box di iscrizione.

Sono state poi introdotte delle rilevanti modiche ai compiti del Titolare del trattamento dei Dati ed al Responsabile per il trattamento dei dati, entrambe figure che vengono in rilievo nelle strutture alberghiere. 

Il Titolare del trattamento dei dati deve ora: (i) essere in grado di dimostrare che l’interessato abbia prestato il consenso a uno specifico trattamento, (ii) fornire i dati di contatto del Responsabile della protezione dei dati, (iii) dichiarare se trasferisce i dati personali in Paesi terzi e, in caso affermativo, attraverso quali strumenti, (iv) specificare il periodo di conservazione dei dati o i criteri seguiti per stabilire tale periodo di conservazione, e il diritto di presentare un reclamo all’autorità di controllo, (v) specificare se il trattamento comporti processi decisionali automatizzati (anche la profilazione), e le conseguenze previste per l’interessato.

Il Responsabile per il trattamento dei dati (c.d. Data protection Officer – DPO), è invece il professionista (che può essere interno o esterno alla struttura) garante dell’osservazioni delle norme del GPDR e della gestione e trattamento dei dati.

Secondo la nuova normativa i compiti di detto soggetto consistono ora nella: (i) tenuta del registro dei trattamenti svolti (ex art. 30,paragrafo 2), e (ii) nell’adozione di idonee misure tecniche e organizzative per garantire la sicurezza dei trattamenti (ex art. 32 Regolamento).

Il suo nome deve essere riportato nell’informativa che occorre consegnare al Cliente. Il suo rapporto con il titolare del trattamento è regolato obbligatoriamente da un contratto che deve disciplinare tassativamente almeno le materie riportate al paragrafo 3 dell’art. 28 al fine di dimostrare che il responsabile fornisce “garanzie sufficienti” ad una corretta gestione e trattamento dei dati. Il Responsabile può nominare a sua volta un “sub-responsabile” ma solo per limitate attività di trattamento, nel rispetto di quanto previsto nel suo contratto, e risponde dell’inadempimento del sub-responsabile.

Alla luce di tali disposizioni, le strutture alberghiere dovranno poi provvedere ad una più attenta valutazione del rischio derivante dal trattamento dei dati, approntare una dettagliata procedura in grado di monitorare costantemente l’idoneità del trattamento, provvedere tempestivamente a notificare una violazione della procedura di sicurezza che comporti la divulgazione anche accidentale dei dati, adeguare le proprie informative da consegnare al Cliente.

Merita, infine, di esser segnalato che le sanzioni per le violazioni al GDPR possono essere assai rilevanti e giungere fino al 4% del fatturato dell’impresa, ben più severe rispetto a quelle previste in precedenza. E’ quindi necessario prestare molta attenzione al rispetto del GDPR, in quanto una sua errata o carente applicazione può determinare gravi pregiudizi all’impresa.

L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.

Over the last year, the escalation of cryptocurrencies has aroused a number of issues and controversial debates for the lack of regulation in most jurisdictions, including Italy where the only regulation of the cryptocurrency phenomenon is set by the AML legislation. According to the Italian law, cryptocurrencies do not have legal tender status, the regulators have qualified cryptocurrencies as means of exchange different from e-money, which, however, can be converted into Euro for purchasing virtual currency as for selling such currency; moreover, they can be used to buy both virtual and real goods and services. As a matter of fact, the lack of regulation concerning cryptocurrencies as a form of currency and a financial instrument does not prevent the trade and use of cryptocurrencies not only as means of payment but also as contribution to fund the share capital of limited liability companies.

On July, 18th, the Court of Brescia has denied the validity of a resolution increasing the share capital of a limited liability company subscribed for by certain utility tokens because the relevant contribution (equal to Euro 714,000) didn’t comply with Article 2464 of the Civil Code. The Court has not banned the contribution of cryptocurrencies but based on that case it has remarked the criteria governing contributions in kind which were not met for the subscription of the increase of share capital as resolved by the company; giving that, and starting from this assumption, it is possible to highlight criteria requested by the Italian law to contribute cryptocurrencies into share capital.

Any (tangible and intangible) asset can be contributed into the share capital of joint-stock companies (S.p.A.) and limited liability companies (S.r.l.) to the extent that they have an indisputable economic value (as proved by a sworn appraisal from an expert who issues the relevant report) and a potential market where they can be exchanged and/or converted into cash. The report must be focused on the description of the contributed assets, the reference of the adopted criteria of evaluation, and the certification that their value is, at least, equal to the one assigned at the moment of the subscription of the capital and of the premium, if any. As a matter of fact, the function of the share capital is to guarantee the creditors in relation to the company liabilities, as a consequence it is mandatory that the economic value of the share capital must be indisputable and in compliance with the law, especially when including cryptocurrencies or digital assets.

Moving on the case, the cryptocurrencies contributed were issued by a company based in Bulgaria, they were utility tokens used as mean of payment for buying goods and services on a web platform, owned by the issuers of these digital assets. Hence these tokens were not traded in any exchange platform where it is possible to fix an indisputable exchange rate and then the relevant economic value. Indeed, the Court has reasoned the direct proportion between the value of the contribution into the equity and the existence of exchanges where the value of the cryptocurrency would have been set. Moreover, the Court has stated the lack of enforceability of the tokens contributed. Under the practical side, the contribution of cryptocurrencies has to be made by reporting the private key from the contributor to the company, giving that the enforceability of cryptocurrencies by a pledge can be done subject to the collaboration and the consent of the contributor who has to disclose the private key; should the contributor refuse to disclose the private key, the enforceability of the pledge on the tokens would be undermined.

To sum up, in theory the contribution of cryptocurrencies into equity is not forbidden under the Italian law, however giving its questionable nature, it is still controversial how to guarantee the compliance with the mandatory requirements for the contribution in kind.

This case history and the order of the Court of Brescia give us the opportunity to provide the Italian picture on cryptocurrencies.

The Italian crypto-scenario is quite effervescent since the beginning of 2017; indeed, Italy was the first European country to define the virtual currency and the exchanger according to the new AML legislation. This is not strange considering that the anonymity surrounding cryptocurrencies, which varies from complete anonymity to pseudo-anonymity, prevents cryptocurrency transactions from being adequately monitored, allowing shady transactions to occur outside of the regulatory perimeter and criminal organisations to use cryptocurrencies to obtain easy access to “clean cash”. Anonymity is also the major issue when it comes to tax evasion.

The AML Law

Legislative Decree no. 90 of May 25th 2017, which reformed legislative decree no. 231/2007, introduced definitions of exchanges and virtual currencies and provided a set of rules for the exchanges to comply with the anti-money laundering rules.

Virtual currency means “a digital representation of value that is neither issued by a central bank or a public authority, nor attached to a legally established fiat currency, which can be used as a means of exchange for the purchase of goods and services and transferred, stored and traded electronically.” Virtual currencies within the scope of AMLD5 and of the Italian AML Law are those that can be transferred, stored and traded electronically. Until now, other virtual currency schemes are not in scope, including virtual currencies used to attain goods and services without requiring exchange into legal tender or similar instruments, or the use of a custodian wallet provider.

Exchanges are defined as virtual service providers: “any natural or legal person providing professional services to third parties for the use, the exchange, the related storage of virtual currencies and for the conversion from or in currencies having legal tender [.]” Given this scope, they are subject to anti-money laundering regulations and, therefore, they have to obtain a sort of licence and be listed in a special register to operate in Italy. Considering this definition, it seems that a material number of key players are not included in AML law, for example miners and pure cryptocurrency exchanges that are not custodian wallet providers, hardware and software wallet providers, trading platforms and coin offerors. This choice of the legislator leaves blind spots in the fight against money laundering, terrorist financing and tax evasion. However, a decree of the Ministry of Economy and Finance (MEF) is under discussion, which seeks to extend the monitoring not only to exchanges but also to those subjects that accept cryptocurrencies for the sale of services and goods.

As said, apart from the AML Law, there is a lack of regulation which undermines the grade of protection of users and investors.

The protection of users/investors

One of the issues which prevents or undermines the grade of the protection is that crypto markets and crypto players can be located in jurisdictions that do not have effective money laundering and terrorist financing controls in place or do not have any regulation for their offering to the investors. Moreover, against the risk of default of the platform or the exchanges there is very little to do to protect investors especially at a cross-border level.

The protection of users/investors depends on several factors, the first one being the nature of the cryptocurrencies in question and the crypto-platforms (i.e. what they are, where they are based and whether they are compliant with the Italian law).

The nature of the cryptocurrencies has to be identified on a case-by-case basis. If qualified as securities (standard financial products which are transferable and generate profits), the prospectus rules should apply, this meaning that a prospectus is required under the Consolidated Financial Law (“Testo Unico Finanza” or “TUF”) to disclose significant financial risks to investors. If they are a hybrid made up of a means of payment and an investment component, the application of the TUF provisions is controversial.

From a criminal perspective, users/investors can be protected in case of fraud irrespective of the above factors. The general remedies under the criminal law apply.

The landmarks for investors’ protection are:

  • The AML Law defining the subjects obliged to declare their activities in the cryptocurrencies world (e. the custodian wallet providers and the virtual currency exchanges);
  • The TUF rules, inter alia, the prospectus regulation; and
  • The Consumers’ Code rules the mandatory provisions on the “form and pre-contractual information”.

The common ground of civil actions is the disclosure of pre-contractual information to investors and the compliance of crypto-platforms and exchanges with the Italian law.

Civil actions might be brought against platforms:

  • Pursuant to Articles 50 and 67 of the Consumers’ Code, according to which any contract must provide consumers with mandatory “pre-contractual information”.
  • Pursuant to Article 23 of the TUF, according to which any contract providing investment services must be in writing and “failure to comply with the prescribed form shall render the contract null and void”.

In 2017, the Court of Verona declared a contract null and void because of its breach of the mandatory provisions on the “form and pre-contractual information” and ordered the refund of the money to the consumer. From the consumers’ perspective, all the information about the nature, the risks and the features of any cryptocurrency must be provided in advance to individuals in a transparent manner. As a matter of fact, the Court of Verona has reasoned that any online agreement between parties, implying the exchange of real money for virtual money, represents a financial service or rather “a paid service.” The Court judged that the contract between the exchange and the Italian consumer was null and void, as the IT service firm breached the obligations set forth by Articles 50 on “distance contracts” and 67 of the Consumers’ Code, which provide as mandatory the “form and pre-contractual information” to be provided to consumers. Lastly, the Court ordered to return to the Italian plaintiff the amount invested in cryptocurrencies.

For the sake of completeness, the consumers’ protection has been achieved also by the Italian Antitrust Authority (i.e. the non-governmental organization focused on consumer protection), which stopped the operations of several affiliates of OneCoin, the digital currency investment scheme widely accused of fraud.

In 2017, Consob (National Authority for the Stock Exchange) banned the advertisement and then the offer of investment portfolios containing cryptocurrencies, made in breach of the prospectus regulation.

Pursuant to Article 101, Par. 4, Part c) of the TUF, Consob has prohibited the advertising – via the website www.coinspace1.com – of the public offer for ‘cryptocurrency extraction packages’ launched by Coinspace Ltd (Resolution no. 19968 of April 20th 2017). The offer had already been the subject of a precautionary 90-day suspension. Moreover, on December 6th, 2017, pursuant to resolution no. 20207, under Article 99, paragraph 1, letter d) of the TUF, Consob banned the offer to the Italian public of “investment portfolios” carried out without the required authorizations by Cryp Trade Capital through the website https://cryp.trade. A few months later, in March 2018, the website https://cryp.trade was subjected to precautionary seizure by the Criminal Court of Rome pursuant to Article 166 of the TUF (a criminal provision which punishes those who carry out financial services and activities without Consob’s authorization). The common ground of these resolutions issued by Consob is the absolute lack of the mandatory information and prospectus set forth by the TUF for entities providing financial services to Italian investors trading in cryptocurrencies and cryptocurrency-related products. Given the application of the TUF, pursuant to Article 23, any contracts for the provision of investment services must be in writing and “failure to comply with the prescribed form shall render the contract null and void”.

Both resolutions have remarked how the Italian versions of the websites were the evidence that those offers were targeted to the Italian market, therefore Consob has set the criteria to identify the territoriality of the crypto-platforms subject to the Italian law which is: “where the cryptocurrencies are intended to be offered to the public”.

To complete this overview, some highlights follow on ICOs and the tax regime of cryptocurrencies in Italy.

ICOs

Initial Coin Offerings (ICOs) are not regulated by the Italian law. In ICOs the funding collected by a start-up could also be exchanged for an equity token (very similar to securities and then embodying an interest in the issuing start-up) or a utility token, which entitles the holder to exchange it for goods or services provided by the same start-up.

ICOs are very controversial (even if not yet officially banned by Consob), as they issue equity tokens that, due to their similarity to securities, can be offered to the public of investors only by entities duly authorized by the regulators, according to the TUF. As far as utility tokens, in theory their issuance might be allowed subject to a strict set of contractual rules, in order to protect investors as much as possible. However, the ICOs market has not taken off, yet.

The tax regime

For Italian tax purposes, the taxation of cryptocurrencies is not regulated by Law. Nonetheless, the Italian Revenue Agency issued a Ruling in May 2018 providing that gains on virtual currency for individuals trading outside a business activity are treated as gains arising from the disposal of traditional foreign currency. Consequently, gains relating to forward sale are always taxable, rather gains relating to forward sale are taxable only to the extent that, during the tax period, the average amount of the overall virtual currency maintained by the taxpayer exceeds the equivalent of EUR 51,645.69 for seven days in a row (the exchange rate to use is the one given by the website where the individual carried out the transaction). Any gain is therefore subject to 26% withholding tax. Additionally, the taxpayer must comply with the tax monitoring duties in the Individual Tax Return though he is not exempted from wealth tax (IVAFE), to the extent that virtual currency is not held through institutions or other authorized intermediaries by the Bank of Italy.

The same regulatory uncertainty put on the taxation of corporations trading in virtual currency. In a Ruling issued in September 2018, the authorities submitted that exchanges of bitcoins for legal currency constitute, for income tax purposes, a taxable event subject to Ires (24%) and Irap (3.9%).

For indirect tax purposes, the authorities confirmed that trading in bitcoins and other virtual currencies is similar to the activity of an intermediary negotiating in financial instruments, and, as a consequence, it is exempt from VAT under the Italian provision implementing article 135(1)(e) of the VAT Directive (2006/112). Therefore, when bitcoins are exchanged for real currencies, no VAT is due on the value of the bitcoins themselves.

The author of this post is Milena Prisco.

E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

Giuliano Stasio

Aree di attività

  • Arbitrato
  • Contratti
  • e-commerce
  • Proprietà intellettuale
  • Real estate