Distribuzione selettiva – Rifiuto di rifornirne il rivenditore non autorizzato

23 Maggio 2018

  • Italia
  • Distribuzione

E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.

In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.

Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.

Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).

Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.

Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.

Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.

Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.

Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.

Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.

Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.

D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.

È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.

È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).

La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.

Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).

Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.

L’autore di questo articolo è Elena Carpani.

Last 7 June, legislative decree no.63 of 11 May 2018 implementing EU Directive no.2016/943 of 8 June 2016 on “on the protection of undisclosed know-how and business information (trade secrets) against their unlawful acquisition, use and disclosure”, was published in the Official Journal of the Republic of Italy, pursuant to article 15 of Delegated Law no. 163 of 25 October 2017.

The purpose of this act was twofold: on the one hand, it assisted in matching the already existing Italian legislation – in particular, articles 98 and 99 of the Italian Code of Industrial Property – with the new EU legislation; whilst, on the other hand, it implemented new and more effective provisions of law on the protection of trade secrets.

The European Union introduced Directive no. 943/2016 in order to harmonize and ensure consistent protection of know-how and trade secrets on European level: in fact, irrespective of article 39 of the TRIPs Agreement, Italy was the only EU member having a domestic definition and a specific protection of trade secrets and no EU law has been passed governing their unlawful acquisition, use or disclosure. This factor weakened the ability of several countries to protect one of the most prominent intangible assets for industry 4.0 and next-generation innovative businesses.

Amid this European scenario, Italy maintained a privileged position vis-à-vis most of the other Member States, since provisions for specific protection of business know-how and confidential information had already been laid down under articles 98 and 99 of the Italian Code of Industrial Property. This is why Italian lawmakers intervened in articles 98 and 99 of the Italian Code of Industrial Property to merely replace the former language “business information and expertise” with the notion of “trade secrets”, while basically leaving the protections envisaged in article 98 of the Italian Code of Industrial Property unchanged to its earlier version, which was already in line with the EU rules.

Apart from this, the legislative decree supplemented the applicable rules and improved the standards of protection of trade secrets, pursuant to EU Directive no. 2016/943, to enable judicial decisions in protection of trade secrets to be weighed against, inter alia, the significance of such information, its importance for the claimant, and the precautionary measures implemented by the owner thereof.

In the first instance, paragraph 1-bis of article 99 of the Italian Code of Industrial Property has been introduced to take negligent behaviours into consideration on the matters of infringement of trade secrets, so that the acquisition, use, or disclosure of trade secrets may be held unlawful even when, at the time of the challenged circumstances, the individual was, or should have been, aware, as the case may be, that the trade secrets had been directly or indirectly obtained by the party that unlawfully used or disclosed them.

Quite the reverse, article 9, paragraph I, of the Directive has been fully implemented in article 121-ter on the preservation of confidentiality of trade secrets in the course of legal proceedings, irrespective of these being for precautionary measures or on the merits of the unlawful acquisition, use or disclosure of such trade secrets. According to such new provision of law, any (ordinary, civil or criminal, administrative or accounting) court of law will be entitled to prevent the counterparties, their representatives and advisors, legal counsels, clerical staff, witnesses, any court-appointed or delegated experts, and any other persons having access to the decisions, briefs and documents included in the court file, from using or disclosing the trade secrets discussed in the proceedings that the court may classify as confidential. In addition, it is expressly provided that such a prohibition shall maintain full force and effect after the conclusion of the proceedings in which scope it was imposed, while vice versa its effectiveness will be forfeited (i) in the event that the lack of the requirements set out in article 98 of the Italian Code of Industrial Property in order to have a valid trade secret is assessed by ruling, or (ii) where the trade secrets fall in the public domain or become easily accessible to industry players and experts.

Furthermore, in the same article specific measures were laid down for the preservation of confidentiality of trade secrets in the course of legal proceedings: hence, subject to compliance with the principles of fair trial, the judge will be entitled to adopt the most appropriate measures to preserve the confidentiality of the trade secrets discussed in the trial. Besides, the article explicitly sets forth two of the measures available to the judge: i.e., restricting access to hearings, briefs and documents included in the court file; and ordering the clerks to conceal the specific parts containing the trade secrets from the documents filed in the proceeding. However, because policymakers did not deem it appropriate to enable the judicial authorities to impose such prohibitions and measures by operation of law, they preferred leaving any request in this respect to the parties’ initiative, owed to the apparent high technical expertise required to appraise the confidential nature of such trade secrets.

With a view to ensuring a more accurate and effective preservation of trade secrets, criteria have been laid down (in article 124, paragraph 6-bis, of the Italian Code of Industrial Property), which the Judge will be bound to uphold when establishing the remedies and civil sanctions – and assessing whether these are suitable – in the proceedings on the matters of unlawful acquisition, use or disclosure of trade secrets under article 98. For this purpose, the Court is required to take into consideration the material circumstances of the case at issue, among which:

  • the value and other specific features of the trade secrets;
  • the measures implemented by the legal holder to protect the trade secrets;
  • the actions carried out by the infringer to acquire, use or disclose the trade secrets;
  • the impact of the unlawful use or disclosure of the trade secrets;
  • the parties’ legitimate interest, and how this may be affected by the endorsement or rejection of the judge’s measures;
  • the legitimate interest of third parties;
  • the interests of the general public; and
  • the need to ensure protection of the fundamental rights.

Not only will the Judge be bound to take these circumstances into consideration in the course of the proceedings on the merits, but also upon issuance of the precautionary measures sought by the trade secrets holder, and upon appraisal of their suitability, based on the explicit warning contained in new paragraph 5-ter of article 132 of the Italian Code of Industrial Property. Consequently, the Judge will issue a preliminary injunction or another interim measure only if the requesting company proved having adopted all the necessary measures and internal protocols to keep a given trade secret confidential.

According to new paragraph 5-bis of article 132 of the Italian Code of Industrial Property all proceedings aimed at seeking protective measures for trade secrets, as an alternative to the application of the precautionary measures, the judge may authorise the defendant to continue to use the trade secrets, subject to providing an appropriate security for compensation of any damages suffered by their legitimate holder, in any event, without prejudice to the prohibition to disclose the trade secrets authorised for use.

The precautionary measures adopted in protection of the trade secrets may be forfeited either for failure to commence the proceedings on the merits within the mandatory deadline (set out in article 132, paragraph 2, of the Italian Code of Industrial Property), or as a result of the claimant’s actions or omissions. Where the unlawful acquisition, use or disclosure of the trade secrets are subsequently found to be groundless, the claimant will be sentenced to repay the damages caused by the adopted measures.

As a further novelty, Legislative Decree no. 63/2018 introduced a compensation, payable as an alternative to the application of the measures under article 124 of the Italian Code of Industrial Property, which may be granted upon the interested party’s application, provided that all of the following requirements laid down by new paragraph 6-ter of article 124 of the Italian Code of Industrial Property are met: at the time of the use or disclosure, the claimant was not, nor should have been, aware that the trade secrets had been obtained by the third party unlawfully using or disclosing them; the execution of these measures would be unduly burdensome for the claimant; the compensation is commensurate to the damages suffered by the party seeking the application of relieving measures and, in any event, it does not exceed the amount that would have been paid on account of royalties for the use of the trade secrets throughout the challenged period of time.

A statute of limitations has been established in 5 (five) years for rights and actions connected with such misconducts.

As a final provision, in line with the availability of progressive measures and enhanced accuracy and effectiveness of trade secrets protections, which are the EU Directive basic principles, a list of the items is provided which the judge ought to appraise to order the publication of his ruling, and to weigh the suitability of the claimed measures: the value of the trade secrets; the actions carried out by the infringer to acquire, use or disclose the trade secrets; the consequences of the use or disclosure of the trade secrets; the risk of the infringer carrying on with the unlawful use or disclosure of the trade secrets.

Furthermore, to make the above appraisal the Judge shall also consider whether, based on the available information, a natural person may be identified as the actual infringer and, in the affirmative, whether the publication of such information is justified in the light of any potential damages that may be caused to the infringer’s private life and reputation.

In conclusion, articles 388 (wilful failure to enforce a court decision) and 623 of the Italian Criminal Code (disclosure of trade or science secrets) have been amended to improve the criminal reliefs granted under the Italian legal system, so as to include breach of trade secrets, and the measures connected therewith, among the misconducts sanctioned under the above provisions.

All that considered, a new approach in adopting internal rules and compliance’s procedures is required to companies and trade secrets owners in order to protect their confidential information and to safeguard their judicial protection and new language shall be adopted in drafting non-disclosure agreements: as a matter of fact NDAs were in the past very often merely copied and/or downloaded from the web without any juridical care and the due attention.

Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.

Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.

Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).

Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che  un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.

Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.

È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.

Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?

La risposta sarebbe semplicissima.

Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.

In Italia, in assenza di una normativa  che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con  …brand” o “in partnership with …brande/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.

L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.

Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.

E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad”  non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.

Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.

La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.

Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.

Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.

L’autore di questo articolo è Elena Carpani.

Il contratto di distribuzione e la distribuzione selettiva

L’ordinamento italiano non prevede una disciplina specifica del contratto di distribuzione. Pertanto, esso risulta regolato, per analogia, dalle norme dettate per il contratto di compravendita, da quelle generali previste in materia di obbligazioni contrattuali, nonché dai principi fissati dalla giurisprudenza in materia. Il contratto di distribuzione non richiede la necessaria forma scritta (che è comunque sempre consigliata).

In questo contesto, il sistema di distribuzione selettiva viene adottato, principalmente, nel settore dei beni di elevato livello tecnologico per i quali l’acquirente necessiti di specifica assistenza o dei beni di lusso, per tutelare gli investimenti effettuati dal titolare in termini di prestigio del marchio. Il produttore o il distributore esclusivo selezionano, sulla base di criteri qualitativi e/o quantitativi (numero e dislocazione geografica), i rivenditori che rispondono a determinati standard di competenza professionale, di qualità del servizio e/o di prestigio del punto vendita, stabiliti dallo stesso produttore.

La distribuzione selettiva è definita dal Regolamento UE 330/2010 del 20.04.2010 (relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate) come segue:

un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema” (art. 1, comma 1, lett. e), Reg. citato).

Trattandosi di una forma di restrizione verticale della concorrenza, essa gode tuttavia dell’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), e di quello previsto dall’Art. 2 della Legge n. 287 del 10.10.1990 (Intese restrittive della libertà di concorrenza), ricorrendone i presupposti di cui allo stesso Regolamento 330/2010.

Il rifiuto di fornire i prodotti

In questo quadro, a fronte del rifiuto da parte del produttore/titolare della rete di distribuzione selettiva, un rivenditore che assumesse di avere tutte le qualità richieste, avrebbe il diritto di pretendere di essere inserito nella rete distributiva e, quindi, di essere rifornito dei prodotti oggetto di tale distribuzione commerciale?

Per rispondere a tale domanda occorre innanzitutto rilevare che è un principio generale, secondo l’ordinamento italiano (ma è condiviso da molti altri sistemi giuridici), la c.d. “autonomia contrattuale” che si traduce anche nella libertà di contrarre o meno facente capo ad ogni soggetto. Ne deriva che, di regola, ognuno è libero di rifiutarsi di concludere un contratto e, nel caso di specie, di fornire i propri prodotti ad un rivenditore terzo che ne faccia richiesta.

Le eccezioni a questa regola sono rigidamente stabilite dalla legge, come ad esempio il caso del monopolista legale. Ma si tratta di una fattispecie che non ricorre – com’é evidente – nel caso di un sistema di distribuzione selettiva tra privati.

Le norme antitrust europee e italiane

Prendendo in considerazione le norme antitrust che disciplinano la distribuzione selettiva e la sua esenzione dal divieto di porre in essere intese restrittive della concorrenza, ossia, rispettivamente, l’art. 101, comma 3, TFUE, ed il Regolamento UE 330/2010, a mente dei quali va interpretato l’articolo 2 della L. 287/1990, non vi è modo di ricavare un obbligo a contrarre, per di più, suscettibile di tutela costitutiva in forza dell’art. 2908 Cod. civ. (ossia attraverso una sentenza del giudice che sostituisca il contratto non stipulato), in capo ad un soggetto privato (quindi non un ente pubblico) che non si trovi in posizione di monopolio, nei confronti di un altro soggetto.

Analogamente, anche nel caso in cui l’impresa terza rispondesse ai criteri utilizzati per selezionare i rivenditori della rete distributiva, nessuna norma (tanto meno il Regolamento UE 330/2010) impone all’impresa fornitrice di contrarre con l’impresa terza e, quindi, di farla accedere alla rete distributiva. In tal senso si è recentemente espressa la giurisprudenza in un caso di restrizione verticale negli accordi per la vendita di autoveicoli.

Per cui, anche sotto quest’aspetto, il rifiuto di fornire il rivenditore terzo appare assolutamente legittimo, senza che risulti neppure necessario accertare le caratteristiche del sistema distributivo utilizzato dal produttore/distributore o la compatibilità del medesimo con l’art. 2, L. 287/90.

Ad ogni buon conto, i punti 175 e 176 della Comunicazione della Commissione 19 maggio 2010, 2010/C 130/1, recante Orientamenti sulle restrizioni verticali (indispensabile complemento del Regolamento di esenzione per categoria), chiariscono che:

(i) mentre un sistema puramente qualitativo, di norma, non rientra nell’ambito di applicazione del divieto di intese restrittive della concorrenza, e quindi è lecito a prescindere da qualsiasi esenzione,

(ii) la distribuzione selettiva qualitativa e quantitativa beneficia dell’esenzione per categoria fintantoché la quota di mercato sia del fornitore che dell’acquirente non supera il 30%, anche se ad essa sono combinate altre restrizioni verticali non fondamentali come il divieto di concorrenza e la distribuzione esclusiva, purché i distributori autorizzati non siano soggetti a restrizioni nella vendita attiva tra loro e agli utilizzatori finali. Il regolamento di esenzione per categoria esenta gli accordi di distribuzione selettiva a prescindere dalla natura del prodotto in questione e del criterio di selezione. Tuttavia, se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva o non richiedono i criteri applicati, come ad esempio la condizione per i distributori di avere uno o più punti vendita «non virtuali» o di fornire specifici servizi, tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio” (n. 176 cit.).

Oltretutto, la regola c.d. “de minimis” (Comunicazione della Commissione Europea relativa agli accordi di importanza minore che non determinano restrizioni sensibili della concorrenza ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (comunicazione «de minimis») 2014/С 291/01 [Gazzetta ufficiale C 368 del 22.12.2001]) prevede che siano esclusi dall’applicazione dell’art. 101 TFUE gli accordi stipulati tra imprese concorrenti la cui quota di mercato complessiva sia inferiore al 10%, ed al 15%, nel caso di accordi tra imprese non concorrenti (ovvero operanti a livelli diversi della catena distributiva, come nel caso della distribuzione selettiva).

In ogni caso, indipendentemente dalla presenza o meno delle condizioni per l’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE, non sussiste alcun obbligo per il produttore/distributore di far accedere alla rete di distribuzione selettiva il rivenditore terzo che ne facesse richiesta, anche avendone, in ipotesi, i requisiti.

Analogamente, dal citato Regolamento UE 330/2010, o altrove, non è ricavabile un obbligo che imponga all’impresa che ha posto in essere un sistema di distribuzione selettivo di rendere noti i criteri di selezione utilizzati ai terzi che ne facciano richiesta, anche considerando che tali criteri hanno un evidente carattere di riservatezza commerciale, riguardando aspetti determinanti delle strategie competitive del produttore/distributore, la cui conoscenza rappresenterebbe un indebito vantaggio per il terzo, che opera, evidentemente, nel medesimo settore di mercato.

Le norme sulla concorrenza sleale

Per completezza, occorre osservare che il rifiuto di fornire il rivenditore terzo potrebbe configurare un atto di concorrenza sleale, vietato ai sensi dell’art. 2598 Cod. civ., potendo rappresentare un caso di “boicottaggio economico primario” consistente nel rifiuto ingiustificato di contrarre da parte di un’impresa. Occorre però tenere presente che, affinché si possa ritenere illecito tale comportamento, si deve verificare la compresenza di due elementi:

1) oggettivo. È, infatti, ritenuto generalmente lecito il boicottaggio individuale diretto, perché manifestazione della libertà dell’imprenditore di scegliere la propria controparte (autonomia contrattuale), salvo il caso in cui questo sia posto in essere da una impresa in posizione dominante (posizione di mercato che consente ad un’impresa di assumere un comportamento significativamente indipendente nei confronti delle imprese concorrenti e dei consumatori, a causa di una considerevole restrizione della concorrenza all’interno del mercato in cui la stessa impresa opera);

2) soggettivo. Occorre che il comportamento commerciale consistente nel boicottaggio sia dolosamente diretto all’esclusione dal mercato del concorrente, e non abbia altra giustificazione, non rientrando nelle abituali strategie di mercato del soggetto che lo pone in essere.

Ma anche nell’ipotesi sopra descritta, il rifiuto (ingiustificato e deliberato) di concludere il contratto non comporterebbe per il produttore/distributore l’obbligo di far accedere il terzo nella rete di distribuzione selettiva, ma solo quello di risarcire il relativo danno.

L’esecuzione in forma specifica

In ogni caso, un Giudice non potrebbe mai condannare il titolare della rete di distribuzione selettiva a fornire il terzo per il semplice motivo che i casi in cui è prevista, dall’ordinamento italiano, l’esecuzione in forma specifica di un obbligo a contrarre richiedono sempre necessariamente o che il contenuto del contratto definitivo sia stato predeterminato dalle parti medesime attraverso un precedente contratto, come nel caso dell’esecuzione del contratto preliminare, prevista dall’art. 2932 cod. civ., oppure che il contratto definitivo sia predeterminato in maniera rigorosa dal mercato, in quanto, trattandosi di monopolista legale, come è appunto il caso dell’art. 2597 cod. civ., si tratta soltanto di applicare le condizioni contrattuali che lo stesso pratica nel mercato al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i contraenti.

In un’ipotesi come quella in esame, al contrario, l’oggetto del contratto sarebbe assolutamente indeterminato ed indeterminabile ed, in assenza di qualsiasi parametro, il giudice non potrebbe stabilirne autonomamente il contenuto.

L’autore di questo articolo  è Davide Grill.

Lo scorso 7 novembre, con la massima n. 170, la Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano ha esaminato due fattispecie di aumento di capitale molto discusse negli ultimi anni: si tratta degli aumenti di capitale con earn out e con bonus share.

L’esito dell’esame della Commissione Società è stato positivo nei confronti di questi meccanismi innovativi. È stata, infatti, confermata la legittimità di delibere di aumenti di capitale con conferimento d’azienda in cui si concordava l’emissione di un ulteriore numero di azioni, sospensivamente condizionata al verificarsi di determinate condizioni generalmente relative al raggiungimento di obiettivi economici, prestabiliti negozialmente, da parte della società dell’azienda conferita.

La seconda ipotesi oggetto di analisi della Commissione Società riguarda aumenti di capitale in cui è premiata la “fedeltà” di chi compra il pacchetto azionario e non lo rivende per un certo periodo di tempo, concordato negozialmente. Al realizzarsi della condizione sospensiva temporale la società dovrà assegnare ulteriori azioni, a titolo di “bonus”, a chi abbia mantenuto il pacchetto azionario acquistato in sede di aumento di capitale.

Queste novità sono certamente strumenti interessanti che arricchiscono il panorama offerto agli operatori del mercato e che meritano di essere prese in considerazione in sede di negoziazione di nuovi investimenti, ma è necessario non distogliere l’attenzione dal rispetto delle regole di diritto societario poste a tutela e garanzia della corretta formazione del capitale sociale.

Nelle S.p.a. con azioni con valore nominale e nelle S.r.l. è necessario assicurarsi che in sede di delibera del secondo aumento di capitale ovvero quello in cui vengono emesse le azioni earn out e quelle bonus vi siano adeguate riserve a copertura del capitale.

Il notaio, dunque, nel caso di aumento del capitale con earn out, è tenuto a verificare che nella redazione della relazione giurata ai sensi degli articoli 2343 o 2343-ter c.c., l’esperto attesti che il valore dei beni conferiti sia almeno pari al valore complessivo dell’aumento di capitale, incluso il valore delle azioni emesse al verificarsi della condizione sospensiva intrinseca nelle azioni earn out.

Le società devono dunque “far quadrare i conti” e questo rende più elaborato il processo di introduzione dei meccanismi in esame.

Bonus shares e azioni earn out sono di più semplice utilizzo nelle società con azioni senza valore nominale: in tali società, infatti, non sarà necessario procedere con ulteriori aumenti di capitale, essendo possibile emettere nuove azioni con la riduzione della parità contabile delle azioni già emesse.

Siamo di fronte a nuovi strumenti di indiscusso interesse per investitori e professionisti che saranno sicuramente oggetto di ulteriore studio e di un sempre maggiore utilizzo nella realtà economica.

L’autore di questo articolo è Giovannella Condò.

L’imprenditore che intenda concentrarsi esclusivamente sul proprio core business ha la possibilità di ricorrere ad altri imprenditori, a cui affidare la realizzazione di tutte quelle opere e di quei servizi comunque necessari per la gestione dell’impresa.

Il termine tecnico che si utilizza per definire un tale modus operandi è quello di “esternalizzazione” di parte dell’attività imprenditoriale e, solitamente, l’accordo che regola tale tipologia di collaborazione è un contratto di appalto, vale a dire il contratto con il quale una parte si impegna a compiere un’opera o un servizio a favore di un’altra e verso un corrispettivo in denaro.

Esempio di contratto di appalto d’opera potrebbe essere il contratto con il quale un’impresa edile si obbliga a costruire un palazzo per una società immobiliare; esempio di appalto di servizi potrebbe essere il contratto che si stipula con un’impresa di pulizie per la pulizia del proprio stabile.

L’appalto ha per oggetto una prestazione di “fare” nell’ambito della quale un soggetto, detto appaltatore, si impegna a svolgere un’attività determinata, fornendo ed organizzando i mezzi necessari e gestendo la realizzazione a proprio rischio; è poi necessario che l’attività sia organizzata in forma di impresa e che quindi l’appaltatore sia, esso stesso, un imprenditore.

In Italia lo strumento dell’appalto ha sempre avuto grande diffusione ed utilizzo e da sempre rappresenta lo strumento privilegiato per esternalizzare attività poco remunerative nell’ambito di realtà imprenditoriali complesse: obiettivo di chi ricorre all’appalto è quello di realizzare efficienza in termini di risorse, sia economiche (riduzione dei costi) che materiali (riduzione di personale e delle responsabilità connesse alla sua gestione).

Quanto sopra vale anche per gli imprenditori esteri che gestiscono o decidono di avviare un’attività in Italia: l’appalto rappresenta un ottimo strumento per delegare ad altri soggetti, in loco e con una specifica expertise in materia, la gestione di problematiche complesse quali: l’ottenimento di autorizzazioni pubbliche, l’approvvigionamento di particolari materie prime, il reclutamento sul territorio di risorse umane qualificate.

L’esternalizzazione della attività non è un fenomeno omogeneo e le esigenze che spesso si presentano in concreto sono suscettibili di prestarsi anche a differenti soluzioni, a seconda dell’oggetto della prestazione, della tipologia e delle caratteristiche del committente o della particolare natura degli interessi coinvolti.

Proprio in virtù delle suddette particolarità molto spesso, in luogo del contratto di appalto, l’imprenditore fa ricorso al contratto di subfornitura.

Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare, per conto di una impresa committente, lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente.

Sintetizzando e forse banalizzando fiorenti dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, potremmo dire che molto spesso la differenza tra un appalto di servizi e la “subfornitura” consiste nel fatto che in caso di subfornitura le attività oggetto del contratto vengono svolte su materiali del committente e/o consistono nella realizzazione di beni o servizi funzionali al processo produttivo del committente; in ogni caso, la subfornitura comporta la “dipendenza tecnologica” (ed anche economica) del subfornitore nei confronti del committente.

Proprio il decentramento e la dissociazione che l’esternalizzazione di processi e attività realizza tra il “gestore” dell’attività esternalizzata ed il fruitore finale della stessa, suscita da sempre grande attenzione da parte del legislatore italiano.

Attenzione finalizzata a tutelare soprattutto i dipendenti coinvolti nell’attività esternalizzata in caso di eventi nefasti idonei a privarli di garanzie legali di cui, invece, possono continuare a godere i dipendenti dell’appaltante committente (pensiamo ad esempio alla sofferenza finanziaria dell’appaltatore/subfornitore, o addirittura al suo coinvolgimento in procedure concorsuali, da cui derivi il mancato pagamento di retribuzioni e contributi).

Per tali ragioni, ormai a far data dal 2003, il legislatore italiano ha introdotto un oneroso regime di solidarietà tra committente e appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori che, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, sono obbligati in solido a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

Sino al mese di dicembre del 2017 la giurisprudenza di merito era consolidata nel ritenere che il regime della responsabilità solidale fosse applicabile esclusivamente all’appalto di servizi e non alla subfornitura. Circostanza questa che rendeva il ricorso alla subfornitura potenzialmente meno oneroso per il committente.

Con sentenza n. 254 del 6 dicembre scorso, tuttavia, la prospettiva è stata completamente ribaltata dalla Corte Costituzionale che chiamata a pronunciarsi in materia ha stabilito l’applicazione estensiva del principio della responsabilità solidale anche tra committente e subfornitore.

La sentenza parte dall’analisi della nota questione giurisprudenziale circa la configurazione giuridica del contratto di subfornitura e, in particolare, circa l’autonomia o meno del contratto di fornitura rispetto al contratto di appalto.

Senza entrare nel merito del dibattito giurisprudenziale esistente, la Corte Costituzionale sostiene che, al di là dell’orientamento seguito quanto all’assimilazione o meno della subfornitura al contratto di appalto, è possibile operare l’estensione della responsabilità del committente/appaltatore ai crediti di lavoro dei dipendenti del subfornitore.

Ciò in quanto l’introduzione della norma sulla responsabilità solidale in ipotesi di appalto, non può giustificare l’esclusione della medesima garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura un’attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli di decentramento.

Sulla base di tali considerazioni, dunque, il principio della responsabilità solidale va correttamente interpretato nel senso che il committente/appaltatore è obbligato in solido (anche) con il subfornitore, relativamente ai crediti lavorativi, contributivi e assicurativi dei dipendenti di questi, al pari quindi di quanto lo è verso i dipendenti del subappaltatore.

In sostanza il committente risponde direttamente, salvo successiva rivalsa, per le rivendicazioni economiche avanzate dai dipendenti dell’appaltatore, del subappaltatore e del subfornitore e di tutti i lavoratori che dovessero essere stati utilizzati nell’attività esternalizzata in relazione a: i) crediti retributivi maturati durante il periodo di correlazione tra committente ed impresa che ha eseguito i lavori, ivi compresi, “pro – quota”, quelli relativi al trattamento di fine rapporto; e ii) contributi previdenziali e premi assicurativi dovuti per il periodo di esecuzione della prestazione.

Il lavoratore può chiedere direttamente al committente il pagamento di quanto maturato nei confronti del proprio datore. Il committente, chiamato in giudizio, non può mai chiedere l’escussione del coobbligato in solido: deve pagare salva l’azione di regresso.

Il committente quindi, nonostante l’esigenza iniziale fosse quella di fare efficienza e ridurre costi, può trovarsi esposto ad un rischio economico molto maggiore rispetto al costo risparmiato, soprattutto se le rivendicazioni economiche riguardano situazioni non controllabili a priori: facciamo riferimento ad esempio, all’eventuale personale utilizzato “in maniera irregolare” dall’appaltatore/subfornitore, oppure alle rivendicazioni connesse allo svolgimento di mansioni superiori, od anche alla richiesta di lavoro straordinario al di fuori dei parametri di legge.

Esistono naturalmente sistemi e meccanismi idonei a contenere il rischio o, comunque, idonei a garantire al committente maggiore controllo sul corretto funzionamento della filiera esternalizzata.

Tra questi, ad esempio, alla possibilità di prevedere contrattualmente strumenti di tutela economica quali fideiussioni e manleve.

Ma esiste anche la possibilità di implementare, sempre nel contratto, un adeguato sistema di controllo sulla corretta gestione del personale nonché sull’erogazione di retribuzioni, contributi e premi assicurativi.

Alla luce di quanto sopra, concludiamo individuando nella figura del consulente esperto in materia di diritto del lavoro il miglior supporto per l’imprenditore che intenda avventurarsi in maniera consapevole e sicura in un processo di esternalizzazione.

L’autore di questo articolo è Domenica Cotroneo.

La questione del litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari nell’azione revocatoria di un trust è da tempo oggetto di un ampio dibattito che ha portato alla formazione di due orientamenti tra loro contrastanti, superati dalla recente pronuncia della Cassazione n. 19376 del 3 agosto 2017.

Secondo un primo indirizzo, infatti, i beneficiari del trust non devono considerarsi parti necessarie del giudizio di revocatoria, perché oggetto della domanda azionata non sarebbe l’atto istitutivo del trust in sé, bensì il successivo atto dispositivo, compiuto dal settlor, con cui il nuovo ente, nella persona del trustee, viene dotato, senza che sia richiesta la partecipazione dei beneficiari, di un patrimonio.

I beneficiari non potrebbero ritenersi litisconsorti necessari in quanto, non essendo direttamente titolari dei beni conferiti nel trust, non subirebbero, nell’ipotesi di revoca dell’atto traslativo, un effettivo pregiudizio, ma vedrebbero semmai leso un loro mero interesse di fatto all’integrità patrimoniale dell’ente.

Essendo il trust non un ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno o più beneficiari, e formalmente intestato al “trustee”, quest’ultimo risulterebbe essere l’unico soggetto che, oltre a poter disporre in via esclusiva dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato, sarebbe legittimato a farli valere nei rapporti con i terzi, anche resistendo in giudizio (cfr. Corte d’Appello di Milano, sentenza 25 novembre 2016): infatti, sempre e solo nei suoi confronti il creditore del disponente potrebbe correttamente avviare, una volta riconosciuta l’inefficacia relativa dell’atto di disposizione all’esito del giudizio di revocatoria, l’esecuzione forzata.

Secondo altro orientamento, invece, i beneficiari del trust devono considerarsi litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria proprio perché, pur non titolari del patrimonio vincolato, sarebbero comunque interessati dagli effetti della sentenza che dispone la revoca del negozio di conferimento dei beni nel trust, venendo la loro posizione, sia giuridica che di fatto, comunque pregiudicata dagli effetti di una simile pronuncia.

Ad analoga conclusione potrebbe giungersi anche attraverso una interpretazione a contrario della giurisprudenza di legittimità in materia di fondo patrimoniale.

Con riferimento a tale istituto, la Cassazione ha, infatti, escluso la legittimazione passiva dei figli dei disponenti in giudizi analoghi, in quanto gli stessi non potrebbero vantare pretese azionabili direttamente nei confronti dei genitori – amministratori del fondo patrimoniale (cfr. Cassazione Civile, sentenza 15 maggio 2014 n. 10641; Cassazione Civile, sentenza 8 settembre 2004 n. 18065; Cassazione Civile, sentenza 17 marzo 2004 n. 5402).

I beneficiari del trust, invece, essendo nella posizione di azionare pretese nei confronti sia del trust stesso che del trustee, dovrebbero poter essere riconosciuti quali litisconsorti necessari in tutti quei giudizi che riguardano, sotto ogni aspetto, il negozio dispositivo-segregativo (cfr. S. Bartoli, Azione revocatoria di trust e litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari: la prima pronunzia della Cassazione, Il Caso, 22 Novembre 2017).

A far chiarezza sulla questione è, quindi, di recente intervenuta la Cassazione che, con la sentenza n. 19376 del 3 agosto 2017, ha proposto una soluzione alternativa a quelle appena illustrate, capace di sanare almeno in parte il contrasto interpretativo descritto.

Il caso esaminato dai giudici di legittimità è relativo al conferimento di determinati beni, dapprima in un fondo patrimoniale e poi in un trust, da parte di una coppia di coniugi che, attraverso tali strumenti, ha inteso destinare parte del proprio patrimonio alle necessità di vita e di studio dei figli.

Gli atti dispositivi sono stati, però, ritenuti pregiudizievoli per i propri interessi da una banca, creditrice di uno dei coniugi, che ha, pertanto, agito in revocatoria, ottenendo, sia in primo che in secondo grado, la declaratoria di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., di fondo patrimoniale e trust.

Contro la sentenza di appello, i coniugi hanno, dunque, promosso ricorso per Cassazione, lamentando la mancata integrazione del contraddittorio in sede di merito, non avendo la corte d’appello ordinato la chiamata in causa dei figli – beneficiari, e chiedendo, conseguentemente, la dichiarazione di nullità dell’intero processo.

I giudici di legittimità, esaminata la vicenda, hanno, però, giudicato privi di pregio i motivi di gravame proposti dai ricorrenti.

Secondo la Cassazione, infatti, nell’ipotesi di fondo patrimoniale, non essendoci alcuna mutazione nella titolarità dei beni, che restano nella titolarità dei genitori – disponenti, e non sorgendo alcun diritto soggettivo in capo ai figli – beneficiari, questi non possono essere in alcun modo considerati litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria del fondo, come peraltro generalmente riconosciuto da costante giurisprudenza sia di merito che di legittimità (sul punto si veda la giurisprudenza già citata in precedenza).

Ad analoga conclusione, secondo la Suprema Corte, deve giungersi anche con riferimento al trust.

Sul punto, però, i giudici di legittimità ritengono di non poter fare pienamente proprio nessuno degli orientamenti formatisi in giurisprudenza, ed offrono, come preannunciato, una terza via interpretativa secondo cui i beneficiari del trust possono essere considerati legittimati passivi nell’azione revocatoria solo quando l’atto costitutivo del trust riconosca loro la titolarità di diritti attuali sui beni conferiti nello stesso.

In assenza di un espresso riconoscimento di tali prerogative, unico legittimato passivo nel giudizio di revocatoria non può che essere il trustee.

Il trust, infatti, diviene operativo, spiega la Corte, in forza di due tipologie di atti: il primo, di carattere unilaterale, finalizzato esclusivamente alla sua istituzione, ed il secondo (o i secondi, potendo il settlor procedere anche con una pluralità di negozi distinti) di natura prettamente dispositiva, diretto a trasferire i singoli beni in capo al trustee.

Se l’atto istitutivo, di per sé, non appare idoneo a determinare nessun pregiudizio per le ragioni dei creditori del disponente, non andando ad incidere sulla consistenza del suo patrimonio e, dunque, sulla sua capacità di adempiere alle proprie obbligazioni, altrettanto non può dirsi degli atti con cui i beni vengono trasferiti in capo al trustee, il quale, divenendo l’unico soggetto legittimato a disporre degli stessi, diviene anche il solo a poter resistere in un giudizio per tutelarli.

Chiarito tale aspetto, i giudici di legittimità hanno inoltre osservato come l’eventuale interesse dei beneficiari alla corretta amministrazione del patrimonio conferito nel trust non rappresenti, almeno in linea teorica, una ipotesi di interesse diretto ed immediato ad intervenire nel giudizio di revocatoria, tale da giustificare la partecipazione dei beneficiari quali litisconsorti necessari.

L’interesse alla corretta amministrazione del trust costituisce una posizione giuridica che riguarda esclusivamente i rapporti tra i beneficiari ed il trustee e che, in nessun modo, può interessare i creditori del disponente.

A diversa conclusione si sarebbe potuti giungere qualora il regolamento del trust avesse consentito di qualificare i beneficiari come attuali beneficiari di reddito o come beneficiari finali aventi diritto immediato a ricevere la titolarità dei beni conferiti in trust, indipendentemente da qualsiasi valutazione discrezionale del trustee.

Solo così, infatti, i beneficiari avrebbero potuto far valere un interesse diretto ed immediato ad intervenire nella controversia che avrebbe giustificato la necessità di una loro chiamata in causa.

Pertanto, nelle ipotesi in cui i beneficiari non siano titolari di diritti soggettivi attuali sui beni conferiti in trust, oltre al debitore, legittimato passivo nell’azione revocatoria è solo il trustee, in quanto unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, e dunque anche nei rapporti con i creditori del settlor, e solo titolare di diritti sui beni sottoposti a segregazione.

La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione si pone in linea anche con quanto previsto dal diritto inglese, dal quale il nostro ordinamento ha mutuato l’istituto del trust, secondo cui nelle controversie promosse dai creditori del disponente nei confronti del trust, la protezione di questo è affidata al trustee, al posto o in aggiunta ai beneficiari (Di Sapio, Muritano, “Solo il «trustee» partecipa al giudizio di revoca del trust”, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017).

Perciò come in Italia, anche nei sistemi anglosassoni i beneficiari non sono parti necessarie del processo, ma possono intervenire volontariamente nello stesso per evitare di essere pregiudicati dalla pronuncia di revocatoria.

L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.

Azioni earn out e bonus shares

4 Aprile 2018

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E’ assai frequente nella pratica che una relazione commerciale continuativa si instauri poco alla volta, in seguito ad una successione di contratti di vendita, senza che si giunga mai alla firma di un vero e proprio contratto di distribuzione che regoli i reciproci diritti e obblighi.

A prima vista può sembrare una buona soluzione per evitare vincoli o impegni a lungo termine, ma non è sempre così, soprattutto se si opera sul piano internazionale.

Uno dei problemi principali, quando il rapporto contrattuale internazionale non è formalizzato per iscritto, è quello di individuare il giudice competente a conoscere delle eventuali controversie. Nell’Unione Europea la disciplina è contenuta nel Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I bis), il quale prevede all’articolo 7 che, in alternativa al foro del convenuto, in materia contrattuale sia competente il giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Accanto a questa regola generale sono indicati due criteri per individuare quale sia il “luogo di esecuzione” per due tipologie specifiche di contratto: per la compravendita, è il luogo di consegna dei beni; per la prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi vengono prestati.  

Pertanto, per individuare il foro competente è di fondamentale importanza ricondurre un contratto all’una o all’altra delle categorie “compravendita” o “prestazione di servizi”.

Se in molti casi la qualificazione non presenta problemi, per un contratto di distribuzione, o di concessione di vendita, la questione può farsi spinosa.

La Corte di Giustizia si è occupata più volte della questione, da ultimo con la sentenza dell’8 marzo 2018 (causa C-64/17) su rinvio di una Corte d’Appello portoghese, in una controversia che opponeva un distributore portoghese, la società Lusavouga, alla società belga Saey Home & Garden, che produce articoli per casa e giardino, tra cui una linea di prodotti con il marchio “Barbecook”.

A seguito della decisione di Saey di interrompere la relazione commerciale, comunicata con una mail del 17 luglio 2014, Lusavouga agiva in Portogallo per ottenere un risarcimento del danno per l’interruzione improvvisa del contratto ed una indennità di clientela. Saey eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a conoscere della causa, richiamando le proprie condizioni generali di vendita, menzionate nelle fatture, che indicavano un foro belga.

La vicenda presenta quindi due questioni da risolvere alla luce del Regolamento Bruxelles I bis: la validità di una clausola di scelta del foro contenuta nelle condizioni generali del venditore ai sensi dell’art. 25 del Regolamento e, in caso di risposta negativa alla prima domanda, l’individuazione del foro competente ai sensi dell’art. 7.

La clausola di scelta del foro competente contenuta nelle condizioni generali del venditore ha efficacia nel rapporto di distribuzione?

La società fornitrice considerava evidentemente il rapporto con il rivenditore portoghese solo una serie continuativa di vendite di beni, regolate dalle proprie condizioni generali: di conseguenza, riteneva che qualunque controversia relativa a tale rapporto fosse soggetta alla clausola di scelta del foro belga contenuta in tali condizioni generali.

Occorreva quindi stabilire se si fosse in presenza di una valida clausola di proroga di competenza ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 1 del Regolamento 1215/2012.

Per la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, se la clausola attributiva di competenza è contenuta in condizioni generali di contratto predisposte da una delle parti, occorre che queste siano almeno richiamate nel contratto firmato anche dall’altra parte, al fine di garantire che sussista il consenso effettivo delle parti (sentenza del 14 dicembre 1976, Estasis Salotti di Colzani, c. 24/76; sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, c. C-159/97; sentenza del 7 luglio 2016, Höszig, c. C-225/15).  Inoltre, per essere valida la clausola deve riguardare un rapporto giuridico determinato (sentenza del 20 aprile 2016, Profit Investment SIM, c. C-366/13).

Ora, il giudice del rinvio considerava pacifico che il rapporto giuridico oggetto del giudizio fosse un contratto di concessione di vendita, avente ad oggetto la distribuzione dei prodotti Saey in Spagna, contratto non disciplinato per iscritto.

Partendo da questa premessa, risulta evidente che le condizioni generali contenute nelle fatture di Saey non potessero avere alcun rilievo ai fini del contratto di concessione: ammesso che fosse provato il consenso di Lusavouga, il foro belga si sarebbe applicato, semmai, ai singoli contratti di compravendita, ma non alle obbligazioni derivanti dal distinto contratto di distribuzione.

Quale è il foro competente per le obbligazioni derivanti dal contratto di concessione di vendita?

Esclusa la presenza di una clausola di scelta del foro, la competenza si determina in base all’art. 7, punto 1 del Regolamento 1215/2012, per cui diventa essenziale qualificare il contratto di distribuzione quale “compravendita di beni” o “prestazione di servizi”.

La “prestazione di servizi” è stata definita dalla Corte di Giustizia come un’attività, non meramente omissiva, svolta a fronte di una remunerazione (sentenza 23 aprile 2009, Falco, c. C-533/07).

Con le sentenze Corman Collins del 19 dicembre 2013 (c. C-9/12), e Granarolo del 14 luglio 2016 (c. C-196/15), la Corte ha affermato che nel contratto di distribuzione tipico il concessionario svolge un servizio, in quanto contribuisce ad ampliare la diffusione dei prodotti del concedente e riceve una remunerazione sotto forma di vantaggio concorrenziale, accesso a strumenti pubblicitari, know-how o agevolazioni di pagamento. In presenza di tali elementi, il rapporto contrattuale va considerato un contratto di prestazione di servizi. Se, al contrario, la relazione commerciale si limita ad una serie consecutiva di accordi, ciascuno aventi ad oggetto la consegna ed il ritiro di merce, siamo al di fuori del contratto di distribuzione tipico, ed il rapporto contrattuale deve essere qualificato come compravendita di beni.

Una volta qualificato il contratto come prestazione di servizi, occorre determinare “il luogo in cui i servizi sono prestati in base al contratto”: e la Corte precisa che tale luogo va individuato nello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, sulla base delle disposizioni del contratto oppure, come in questo caso, dell’esecuzione effettiva dello stesso. Solo qualora sia impossibile determinare tale luogo, si farà riferimento al domicilio del prestatore.

Da come il giudice del rinvio ha descritto il rapporto contrattuale, e da come la Corte di Giustizia intende la prestazione dei servizi del distributore, è logico dedurre che il luogo della prestazione principale dei servizi fosse la Spagna, dove Lusavouga “contribuiva ad ampliare la diffusione dei prodotti” di Saey.

Risulta evidente che né il produttore, né il distributore avrebbero mai voluto una simile soluzione, che avrebbero potuto però evitare disciplinando il rapporto per iscritto e stipulando una clausola di scelta del foro.

Parimenti, dall’esterno può sembrare discutibile l’apparente convinzione dei giudici portoghesi di trovarsi in presenza di un vero e proprio contratto di concessione di vendita, quando molti elementi potrebbero far pensare il contrario: ma anche sotto questo aspetto, la mancanza di un contratto scritto lascia spazio ad interpretazioni che possono portare a conseguenze impreviste, e potenzialmente assai rischiose.

In conclusione, l’opportunità di disciplinare i rapporti commerciali di distribuzione con un contratto scritto è evidente, non solo perché consente di evitare le situazioni di incertezza descritte, ma anche perché documenta l’accordo tra le parti su altri importanti elementi che è bene non lasciare indeterminati: l’eventuale  esclusiva territoriale o per certi canali di vendita, la durata del rapporto e il periodo di recesso, gli eventuali obblighi promozionali, la titolarità dei dati dei clienti finali, la possibilità e le modalità di vendita dei prodotti online.

Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.

In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.

Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.

Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).

Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.

Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.

Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.

Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.

Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.

Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.

Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.

D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.

È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.

È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).

La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.

Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).

Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.

L’autore di questo articolo è Elena Carpani.

Last 7 June, legislative decree no.63 of 11 May 2018 implementing EU Directive no.2016/943 of 8 June 2016 on “on the protection of undisclosed know-how and business information (trade secrets) against their unlawful acquisition, use and disclosure”, was published in the Official Journal of the Republic of Italy, pursuant to article 15 of Delegated Law no. 163 of 25 October 2017.

The purpose of this act was twofold: on the one hand, it assisted in matching the already existing Italian legislation – in particular, articles 98 and 99 of the Italian Code of Industrial Property – with the new EU legislation; whilst, on the other hand, it implemented new and more effective provisions of law on the protection of trade secrets.

The European Union introduced Directive no. 943/2016 in order to harmonize and ensure consistent protection of know-how and trade secrets on European level: in fact, irrespective of article 39 of the TRIPs Agreement, Italy was the only EU member having a domestic definition and a specific protection of trade secrets and no EU law has been passed governing their unlawful acquisition, use or disclosure. This factor weakened the ability of several countries to protect one of the most prominent intangible assets for industry 4.0 and next-generation innovative businesses.

Amid this European scenario, Italy maintained a privileged position vis-à-vis most of the other Member States, since provisions for specific protection of business know-how and confidential information had already been laid down under articles 98 and 99 of the Italian Code of Industrial Property. This is why Italian lawmakers intervened in articles 98 and 99 of the Italian Code of Industrial Property to merely replace the former language “business information and expertise” with the notion of “trade secrets”, while basically leaving the protections envisaged in article 98 of the Italian Code of Industrial Property unchanged to its earlier version, which was already in line with the EU rules.

Apart from this, the legislative decree supplemented the applicable rules and improved the standards of protection of trade secrets, pursuant to EU Directive no. 2016/943, to enable judicial decisions in protection of trade secrets to be weighed against, inter alia, the significance of such information, its importance for the claimant, and the precautionary measures implemented by the owner thereof.

In the first instance, paragraph 1-bis of article 99 of the Italian Code of Industrial Property has been introduced to take negligent behaviours into consideration on the matters of infringement of trade secrets, so that the acquisition, use, or disclosure of trade secrets may be held unlawful even when, at the time of the challenged circumstances, the individual was, or should have been, aware, as the case may be, that the trade secrets had been directly or indirectly obtained by the party that unlawfully used or disclosed them.

Quite the reverse, article 9, paragraph I, of the Directive has been fully implemented in article 121-ter on the preservation of confidentiality of trade secrets in the course of legal proceedings, irrespective of these being for precautionary measures or on the merits of the unlawful acquisition, use or disclosure of such trade secrets. According to such new provision of law, any (ordinary, civil or criminal, administrative or accounting) court of law will be entitled to prevent the counterparties, their representatives and advisors, legal counsels, clerical staff, witnesses, any court-appointed or delegated experts, and any other persons having access to the decisions, briefs and documents included in the court file, from using or disclosing the trade secrets discussed in the proceedings that the court may classify as confidential. In addition, it is expressly provided that such a prohibition shall maintain full force and effect after the conclusion of the proceedings in which scope it was imposed, while vice versa its effectiveness will be forfeited (i) in the event that the lack of the requirements set out in article 98 of the Italian Code of Industrial Property in order to have a valid trade secret is assessed by ruling, or (ii) where the trade secrets fall in the public domain or become easily accessible to industry players and experts.

Furthermore, in the same article specific measures were laid down for the preservation of confidentiality of trade secrets in the course of legal proceedings: hence, subject to compliance with the principles of fair trial, the judge will be entitled to adopt the most appropriate measures to preserve the confidentiality of the trade secrets discussed in the trial. Besides, the article explicitly sets forth two of the measures available to the judge: i.e., restricting access to hearings, briefs and documents included in the court file; and ordering the clerks to conceal the specific parts containing the trade secrets from the documents filed in the proceeding. However, because policymakers did not deem it appropriate to enable the judicial authorities to impose such prohibitions and measures by operation of law, they preferred leaving any request in this respect to the parties’ initiative, owed to the apparent high technical expertise required to appraise the confidential nature of such trade secrets.

With a view to ensuring a more accurate and effective preservation of trade secrets, criteria have been laid down (in article 124, paragraph 6-bis, of the Italian Code of Industrial Property), which the Judge will be bound to uphold when establishing the remedies and civil sanctions – and assessing whether these are suitable – in the proceedings on the matters of unlawful acquisition, use or disclosure of trade secrets under article 98. For this purpose, the Court is required to take into consideration the material circumstances of the case at issue, among which:

  • the value and other specific features of the trade secrets;
  • the measures implemented by the legal holder to protect the trade secrets;
  • the actions carried out by the infringer to acquire, use or disclose the trade secrets;
  • the impact of the unlawful use or disclosure of the trade secrets;
  • the parties’ legitimate interest, and how this may be affected by the endorsement or rejection of the judge’s measures;
  • the legitimate interest of third parties;
  • the interests of the general public; and
  • the need to ensure protection of the fundamental rights.

Not only will the Judge be bound to take these circumstances into consideration in the course of the proceedings on the merits, but also upon issuance of the precautionary measures sought by the trade secrets holder, and upon appraisal of their suitability, based on the explicit warning contained in new paragraph 5-ter of article 132 of the Italian Code of Industrial Property. Consequently, the Judge will issue a preliminary injunction or another interim measure only if the requesting company proved having adopted all the necessary measures and internal protocols to keep a given trade secret confidential.

According to new paragraph 5-bis of article 132 of the Italian Code of Industrial Property all proceedings aimed at seeking protective measures for trade secrets, as an alternative to the application of the precautionary measures, the judge may authorise the defendant to continue to use the trade secrets, subject to providing an appropriate security for compensation of any damages suffered by their legitimate holder, in any event, without prejudice to the prohibition to disclose the trade secrets authorised for use.

The precautionary measures adopted in protection of the trade secrets may be forfeited either for failure to commence the proceedings on the merits within the mandatory deadline (set out in article 132, paragraph 2, of the Italian Code of Industrial Property), or as a result of the claimant’s actions or omissions. Where the unlawful acquisition, use or disclosure of the trade secrets are subsequently found to be groundless, the claimant will be sentenced to repay the damages caused by the adopted measures.

As a further novelty, Legislative Decree no. 63/2018 introduced a compensation, payable as an alternative to the application of the measures under article 124 of the Italian Code of Industrial Property, which may be granted upon the interested party’s application, provided that all of the following requirements laid down by new paragraph 6-ter of article 124 of the Italian Code of Industrial Property are met: at the time of the use or disclosure, the claimant was not, nor should have been, aware that the trade secrets had been obtained by the third party unlawfully using or disclosing them; the execution of these measures would be unduly burdensome for the claimant; the compensation is commensurate to the damages suffered by the party seeking the application of relieving measures and, in any event, it does not exceed the amount that would have been paid on account of royalties for the use of the trade secrets throughout the challenged period of time.

A statute of limitations has been established in 5 (five) years for rights and actions connected with such misconducts.

As a final provision, in line with the availability of progressive measures and enhanced accuracy and effectiveness of trade secrets protections, which are the EU Directive basic principles, a list of the items is provided which the judge ought to appraise to order the publication of his ruling, and to weigh the suitability of the claimed measures: the value of the trade secrets; the actions carried out by the infringer to acquire, use or disclose the trade secrets; the consequences of the use or disclosure of the trade secrets; the risk of the infringer carrying on with the unlawful use or disclosure of the trade secrets.

Furthermore, to make the above appraisal the Judge shall also consider whether, based on the available information, a natural person may be identified as the actual infringer and, in the affirmative, whether the publication of such information is justified in the light of any potential damages that may be caused to the infringer’s private life and reputation.

In conclusion, articles 388 (wilful failure to enforce a court decision) and 623 of the Italian Criminal Code (disclosure of trade or science secrets) have been amended to improve the criminal reliefs granted under the Italian legal system, so as to include breach of trade secrets, and the measures connected therewith, among the misconducts sanctioned under the above provisions.

All that considered, a new approach in adopting internal rules and compliance’s procedures is required to companies and trade secrets owners in order to protect their confidential information and to safeguard their judicial protection and new language shall be adopted in drafting non-disclosure agreements: as a matter of fact NDAs were in the past very often merely copied and/or downloaded from the web without any juridical care and the due attention.

Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.

Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.

Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).

Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che  un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.

Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.

È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.

Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?

La risposta sarebbe semplicissima.

Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.

In Italia, in assenza di una normativa  che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con  …brand” o “in partnership with …brande/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.

L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.

Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.

E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad”  non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.

Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.

La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.

Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.

Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.

L’autore di questo articolo è Elena Carpani.

Il contratto di distribuzione e la distribuzione selettiva

L’ordinamento italiano non prevede una disciplina specifica del contratto di distribuzione. Pertanto, esso risulta regolato, per analogia, dalle norme dettate per il contratto di compravendita, da quelle generali previste in materia di obbligazioni contrattuali, nonché dai principi fissati dalla giurisprudenza in materia. Il contratto di distribuzione non richiede la necessaria forma scritta (che è comunque sempre consigliata).

In questo contesto, il sistema di distribuzione selettiva viene adottato, principalmente, nel settore dei beni di elevato livello tecnologico per i quali l’acquirente necessiti di specifica assistenza o dei beni di lusso, per tutelare gli investimenti effettuati dal titolare in termini di prestigio del marchio. Il produttore o il distributore esclusivo selezionano, sulla base di criteri qualitativi e/o quantitativi (numero e dislocazione geografica), i rivenditori che rispondono a determinati standard di competenza professionale, di qualità del servizio e/o di prestigio del punto vendita, stabiliti dallo stesso produttore.

La distribuzione selettiva è definita dal Regolamento UE 330/2010 del 20.04.2010 (relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate) come segue:

un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema” (art. 1, comma 1, lett. e), Reg. citato).

Trattandosi di una forma di restrizione verticale della concorrenza, essa gode tuttavia dell’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), e di quello previsto dall’Art. 2 della Legge n. 287 del 10.10.1990 (Intese restrittive della libertà di concorrenza), ricorrendone i presupposti di cui allo stesso Regolamento 330/2010.

Il rifiuto di fornire i prodotti

In questo quadro, a fronte del rifiuto da parte del produttore/titolare della rete di distribuzione selettiva, un rivenditore che assumesse di avere tutte le qualità richieste, avrebbe il diritto di pretendere di essere inserito nella rete distributiva e, quindi, di essere rifornito dei prodotti oggetto di tale distribuzione commerciale?

Per rispondere a tale domanda occorre innanzitutto rilevare che è un principio generale, secondo l’ordinamento italiano (ma è condiviso da molti altri sistemi giuridici), la c.d. “autonomia contrattuale” che si traduce anche nella libertà di contrarre o meno facente capo ad ogni soggetto. Ne deriva che, di regola, ognuno è libero di rifiutarsi di concludere un contratto e, nel caso di specie, di fornire i propri prodotti ad un rivenditore terzo che ne faccia richiesta.

Le eccezioni a questa regola sono rigidamente stabilite dalla legge, come ad esempio il caso del monopolista legale. Ma si tratta di una fattispecie che non ricorre – com’é evidente – nel caso di un sistema di distribuzione selettiva tra privati.

Le norme antitrust europee e italiane

Prendendo in considerazione le norme antitrust che disciplinano la distribuzione selettiva e la sua esenzione dal divieto di porre in essere intese restrittive della concorrenza, ossia, rispettivamente, l’art. 101, comma 3, TFUE, ed il Regolamento UE 330/2010, a mente dei quali va interpretato l’articolo 2 della L. 287/1990, non vi è modo di ricavare un obbligo a contrarre, per di più, suscettibile di tutela costitutiva in forza dell’art. 2908 Cod. civ. (ossia attraverso una sentenza del giudice che sostituisca il contratto non stipulato), in capo ad un soggetto privato (quindi non un ente pubblico) che non si trovi in posizione di monopolio, nei confronti di un altro soggetto.

Analogamente, anche nel caso in cui l’impresa terza rispondesse ai criteri utilizzati per selezionare i rivenditori della rete distributiva, nessuna norma (tanto meno il Regolamento UE 330/2010) impone all’impresa fornitrice di contrarre con l’impresa terza e, quindi, di farla accedere alla rete distributiva. In tal senso si è recentemente espressa la giurisprudenza in un caso di restrizione verticale negli accordi per la vendita di autoveicoli.

Per cui, anche sotto quest’aspetto, il rifiuto di fornire il rivenditore terzo appare assolutamente legittimo, senza che risulti neppure necessario accertare le caratteristiche del sistema distributivo utilizzato dal produttore/distributore o la compatibilità del medesimo con l’art. 2, L. 287/90.

Ad ogni buon conto, i punti 175 e 176 della Comunicazione della Commissione 19 maggio 2010, 2010/C 130/1, recante Orientamenti sulle restrizioni verticali (indispensabile complemento del Regolamento di esenzione per categoria), chiariscono che:

(i) mentre un sistema puramente qualitativo, di norma, non rientra nell’ambito di applicazione del divieto di intese restrittive della concorrenza, e quindi è lecito a prescindere da qualsiasi esenzione,

(ii) la distribuzione selettiva qualitativa e quantitativa beneficia dell’esenzione per categoria fintantoché la quota di mercato sia del fornitore che dell’acquirente non supera il 30%, anche se ad essa sono combinate altre restrizioni verticali non fondamentali come il divieto di concorrenza e la distribuzione esclusiva, purché i distributori autorizzati non siano soggetti a restrizioni nella vendita attiva tra loro e agli utilizzatori finali. Il regolamento di esenzione per categoria esenta gli accordi di distribuzione selettiva a prescindere dalla natura del prodotto in questione e del criterio di selezione. Tuttavia, se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva o non richiedono i criteri applicati, come ad esempio la condizione per i distributori di avere uno o più punti vendita «non virtuali» o di fornire specifici servizi, tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio” (n. 176 cit.).

Oltretutto, la regola c.d. “de minimis” (Comunicazione della Commissione Europea relativa agli accordi di importanza minore che non determinano restrizioni sensibili della concorrenza ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (comunicazione «de minimis») 2014/С 291/01 [Gazzetta ufficiale C 368 del 22.12.2001]) prevede che siano esclusi dall’applicazione dell’art. 101 TFUE gli accordi stipulati tra imprese concorrenti la cui quota di mercato complessiva sia inferiore al 10%, ed al 15%, nel caso di accordi tra imprese non concorrenti (ovvero operanti a livelli diversi della catena distributiva, come nel caso della distribuzione selettiva).

In ogni caso, indipendentemente dalla presenza o meno delle condizioni per l’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE, non sussiste alcun obbligo per il produttore/distributore di far accedere alla rete di distribuzione selettiva il rivenditore terzo che ne facesse richiesta, anche avendone, in ipotesi, i requisiti.

Analogamente, dal citato Regolamento UE 330/2010, o altrove, non è ricavabile un obbligo che imponga all’impresa che ha posto in essere un sistema di distribuzione selettivo di rendere noti i criteri di selezione utilizzati ai terzi che ne facciano richiesta, anche considerando che tali criteri hanno un evidente carattere di riservatezza commerciale, riguardando aspetti determinanti delle strategie competitive del produttore/distributore, la cui conoscenza rappresenterebbe un indebito vantaggio per il terzo, che opera, evidentemente, nel medesimo settore di mercato.

Le norme sulla concorrenza sleale

Per completezza, occorre osservare che il rifiuto di fornire il rivenditore terzo potrebbe configurare un atto di concorrenza sleale, vietato ai sensi dell’art. 2598 Cod. civ., potendo rappresentare un caso di “boicottaggio economico primario” consistente nel rifiuto ingiustificato di contrarre da parte di un’impresa. Occorre però tenere presente che, affinché si possa ritenere illecito tale comportamento, si deve verificare la compresenza di due elementi:

1) oggettivo. È, infatti, ritenuto generalmente lecito il boicottaggio individuale diretto, perché manifestazione della libertà dell’imprenditore di scegliere la propria controparte (autonomia contrattuale), salvo il caso in cui questo sia posto in essere da una impresa in posizione dominante (posizione di mercato che consente ad un’impresa di assumere un comportamento significativamente indipendente nei confronti delle imprese concorrenti e dei consumatori, a causa di una considerevole restrizione della concorrenza all’interno del mercato in cui la stessa impresa opera);

2) soggettivo. Occorre che il comportamento commerciale consistente nel boicottaggio sia dolosamente diretto all’esclusione dal mercato del concorrente, e non abbia altra giustificazione, non rientrando nelle abituali strategie di mercato del soggetto che lo pone in essere.

Ma anche nell’ipotesi sopra descritta, il rifiuto (ingiustificato e deliberato) di concludere il contratto non comporterebbe per il produttore/distributore l’obbligo di far accedere il terzo nella rete di distribuzione selettiva, ma solo quello di risarcire il relativo danno.

L’esecuzione in forma specifica

In ogni caso, un Giudice non potrebbe mai condannare il titolare della rete di distribuzione selettiva a fornire il terzo per il semplice motivo che i casi in cui è prevista, dall’ordinamento italiano, l’esecuzione in forma specifica di un obbligo a contrarre richiedono sempre necessariamente o che il contenuto del contratto definitivo sia stato predeterminato dalle parti medesime attraverso un precedente contratto, come nel caso dell’esecuzione del contratto preliminare, prevista dall’art. 2932 cod. civ., oppure che il contratto definitivo sia predeterminato in maniera rigorosa dal mercato, in quanto, trattandosi di monopolista legale, come è appunto il caso dell’art. 2597 cod. civ., si tratta soltanto di applicare le condizioni contrattuali che lo stesso pratica nel mercato al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i contraenti.

In un’ipotesi come quella in esame, al contrario, l’oggetto del contratto sarebbe assolutamente indeterminato ed indeterminabile ed, in assenza di qualsiasi parametro, il giudice non potrebbe stabilirne autonomamente il contenuto.

L’autore di questo articolo  è Davide Grill.

Lo scorso 7 novembre, con la massima n. 170, la Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano ha esaminato due fattispecie di aumento di capitale molto discusse negli ultimi anni: si tratta degli aumenti di capitale con earn out e con bonus share.

L’esito dell’esame della Commissione Società è stato positivo nei confronti di questi meccanismi innovativi. È stata, infatti, confermata la legittimità di delibere di aumenti di capitale con conferimento d’azienda in cui si concordava l’emissione di un ulteriore numero di azioni, sospensivamente condizionata al verificarsi di determinate condizioni generalmente relative al raggiungimento di obiettivi economici, prestabiliti negozialmente, da parte della società dell’azienda conferita.

La seconda ipotesi oggetto di analisi della Commissione Società riguarda aumenti di capitale in cui è premiata la “fedeltà” di chi compra il pacchetto azionario e non lo rivende per un certo periodo di tempo, concordato negozialmente. Al realizzarsi della condizione sospensiva temporale la società dovrà assegnare ulteriori azioni, a titolo di “bonus”, a chi abbia mantenuto il pacchetto azionario acquistato in sede di aumento di capitale.

Queste novità sono certamente strumenti interessanti che arricchiscono il panorama offerto agli operatori del mercato e che meritano di essere prese in considerazione in sede di negoziazione di nuovi investimenti, ma è necessario non distogliere l’attenzione dal rispetto delle regole di diritto societario poste a tutela e garanzia della corretta formazione del capitale sociale.

Nelle S.p.a. con azioni con valore nominale e nelle S.r.l. è necessario assicurarsi che in sede di delibera del secondo aumento di capitale ovvero quello in cui vengono emesse le azioni earn out e quelle bonus vi siano adeguate riserve a copertura del capitale.

Il notaio, dunque, nel caso di aumento del capitale con earn out, è tenuto a verificare che nella redazione della relazione giurata ai sensi degli articoli 2343 o 2343-ter c.c., l’esperto attesti che il valore dei beni conferiti sia almeno pari al valore complessivo dell’aumento di capitale, incluso il valore delle azioni emesse al verificarsi della condizione sospensiva intrinseca nelle azioni earn out.

Le società devono dunque “far quadrare i conti” e questo rende più elaborato il processo di introduzione dei meccanismi in esame.

Bonus shares e azioni earn out sono di più semplice utilizzo nelle società con azioni senza valore nominale: in tali società, infatti, non sarà necessario procedere con ulteriori aumenti di capitale, essendo possibile emettere nuove azioni con la riduzione della parità contabile delle azioni già emesse.

Siamo di fronte a nuovi strumenti di indiscusso interesse per investitori e professionisti che saranno sicuramente oggetto di ulteriore studio e di un sempre maggiore utilizzo nella realtà economica.

L’autore di questo articolo è Giovannella Condò.

L’imprenditore che intenda concentrarsi esclusivamente sul proprio core business ha la possibilità di ricorrere ad altri imprenditori, a cui affidare la realizzazione di tutte quelle opere e di quei servizi comunque necessari per la gestione dell’impresa.

Il termine tecnico che si utilizza per definire un tale modus operandi è quello di “esternalizzazione” di parte dell’attività imprenditoriale e, solitamente, l’accordo che regola tale tipologia di collaborazione è un contratto di appalto, vale a dire il contratto con il quale una parte si impegna a compiere un’opera o un servizio a favore di un’altra e verso un corrispettivo in denaro.

Esempio di contratto di appalto d’opera potrebbe essere il contratto con il quale un’impresa edile si obbliga a costruire un palazzo per una società immobiliare; esempio di appalto di servizi potrebbe essere il contratto che si stipula con un’impresa di pulizie per la pulizia del proprio stabile.

L’appalto ha per oggetto una prestazione di “fare” nell’ambito della quale un soggetto, detto appaltatore, si impegna a svolgere un’attività determinata, fornendo ed organizzando i mezzi necessari e gestendo la realizzazione a proprio rischio; è poi necessario che l’attività sia organizzata in forma di impresa e che quindi l’appaltatore sia, esso stesso, un imprenditore.

In Italia lo strumento dell’appalto ha sempre avuto grande diffusione ed utilizzo e da sempre rappresenta lo strumento privilegiato per esternalizzare attività poco remunerative nell’ambito di realtà imprenditoriali complesse: obiettivo di chi ricorre all’appalto è quello di realizzare efficienza in termini di risorse, sia economiche (riduzione dei costi) che materiali (riduzione di personale e delle responsabilità connesse alla sua gestione).

Quanto sopra vale anche per gli imprenditori esteri che gestiscono o decidono di avviare un’attività in Italia: l’appalto rappresenta un ottimo strumento per delegare ad altri soggetti, in loco e con una specifica expertise in materia, la gestione di problematiche complesse quali: l’ottenimento di autorizzazioni pubbliche, l’approvvigionamento di particolari materie prime, il reclutamento sul territorio di risorse umane qualificate.

L’esternalizzazione della attività non è un fenomeno omogeneo e le esigenze che spesso si presentano in concreto sono suscettibili di prestarsi anche a differenti soluzioni, a seconda dell’oggetto della prestazione, della tipologia e delle caratteristiche del committente o della particolare natura degli interessi coinvolti.

Proprio in virtù delle suddette particolarità molto spesso, in luogo del contratto di appalto, l’imprenditore fa ricorso al contratto di subfornitura.

Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare, per conto di una impresa committente, lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente.

Sintetizzando e forse banalizzando fiorenti dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, potremmo dire che molto spesso la differenza tra un appalto di servizi e la “subfornitura” consiste nel fatto che in caso di subfornitura le attività oggetto del contratto vengono svolte su materiali del committente e/o consistono nella realizzazione di beni o servizi funzionali al processo produttivo del committente; in ogni caso, la subfornitura comporta la “dipendenza tecnologica” (ed anche economica) del subfornitore nei confronti del committente.

Proprio il decentramento e la dissociazione che l’esternalizzazione di processi e attività realizza tra il “gestore” dell’attività esternalizzata ed il fruitore finale della stessa, suscita da sempre grande attenzione da parte del legislatore italiano.

Attenzione finalizzata a tutelare soprattutto i dipendenti coinvolti nell’attività esternalizzata in caso di eventi nefasti idonei a privarli di garanzie legali di cui, invece, possono continuare a godere i dipendenti dell’appaltante committente (pensiamo ad esempio alla sofferenza finanziaria dell’appaltatore/subfornitore, o addirittura al suo coinvolgimento in procedure concorsuali, da cui derivi il mancato pagamento di retribuzioni e contributi).

Per tali ragioni, ormai a far data dal 2003, il legislatore italiano ha introdotto un oneroso regime di solidarietà tra committente e appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori che, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, sono obbligati in solido a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

Sino al mese di dicembre del 2017 la giurisprudenza di merito era consolidata nel ritenere che il regime della responsabilità solidale fosse applicabile esclusivamente all’appalto di servizi e non alla subfornitura. Circostanza questa che rendeva il ricorso alla subfornitura potenzialmente meno oneroso per il committente.

Con sentenza n. 254 del 6 dicembre scorso, tuttavia, la prospettiva è stata completamente ribaltata dalla Corte Costituzionale che chiamata a pronunciarsi in materia ha stabilito l’applicazione estensiva del principio della responsabilità solidale anche tra committente e subfornitore.

La sentenza parte dall’analisi della nota questione giurisprudenziale circa la configurazione giuridica del contratto di subfornitura e, in particolare, circa l’autonomia o meno del contratto di fornitura rispetto al contratto di appalto.

Senza entrare nel merito del dibattito giurisprudenziale esistente, la Corte Costituzionale sostiene che, al di là dell’orientamento seguito quanto all’assimilazione o meno della subfornitura al contratto di appalto, è possibile operare l’estensione della responsabilità del committente/appaltatore ai crediti di lavoro dei dipendenti del subfornitore.

Ciò in quanto l’introduzione della norma sulla responsabilità solidale in ipotesi di appalto, non può giustificare l’esclusione della medesima garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura un’attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli di decentramento.

Sulla base di tali considerazioni, dunque, il principio della responsabilità solidale va correttamente interpretato nel senso che il committente/appaltatore è obbligato in solido (anche) con il subfornitore, relativamente ai crediti lavorativi, contributivi e assicurativi dei dipendenti di questi, al pari quindi di quanto lo è verso i dipendenti del subappaltatore.

In sostanza il committente risponde direttamente, salvo successiva rivalsa, per le rivendicazioni economiche avanzate dai dipendenti dell’appaltatore, del subappaltatore e del subfornitore e di tutti i lavoratori che dovessero essere stati utilizzati nell’attività esternalizzata in relazione a: i) crediti retributivi maturati durante il periodo di correlazione tra committente ed impresa che ha eseguito i lavori, ivi compresi, “pro – quota”, quelli relativi al trattamento di fine rapporto; e ii) contributi previdenziali e premi assicurativi dovuti per il periodo di esecuzione della prestazione.

Il lavoratore può chiedere direttamente al committente il pagamento di quanto maturato nei confronti del proprio datore. Il committente, chiamato in giudizio, non può mai chiedere l’escussione del coobbligato in solido: deve pagare salva l’azione di regresso.

Il committente quindi, nonostante l’esigenza iniziale fosse quella di fare efficienza e ridurre costi, può trovarsi esposto ad un rischio economico molto maggiore rispetto al costo risparmiato, soprattutto se le rivendicazioni economiche riguardano situazioni non controllabili a priori: facciamo riferimento ad esempio, all’eventuale personale utilizzato “in maniera irregolare” dall’appaltatore/subfornitore, oppure alle rivendicazioni connesse allo svolgimento di mansioni superiori, od anche alla richiesta di lavoro straordinario al di fuori dei parametri di legge.

Esistono naturalmente sistemi e meccanismi idonei a contenere il rischio o, comunque, idonei a garantire al committente maggiore controllo sul corretto funzionamento della filiera esternalizzata.

Tra questi, ad esempio, alla possibilità di prevedere contrattualmente strumenti di tutela economica quali fideiussioni e manleve.

Ma esiste anche la possibilità di implementare, sempre nel contratto, un adeguato sistema di controllo sulla corretta gestione del personale nonché sull’erogazione di retribuzioni, contributi e premi assicurativi.

Alla luce di quanto sopra, concludiamo individuando nella figura del consulente esperto in materia di diritto del lavoro il miglior supporto per l’imprenditore che intenda avventurarsi in maniera consapevole e sicura in un processo di esternalizzazione.

L’autore di questo articolo è Domenica Cotroneo.

La questione del litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari nell’azione revocatoria di un trust è da tempo oggetto di un ampio dibattito che ha portato alla formazione di due orientamenti tra loro contrastanti, superati dalla recente pronuncia della Cassazione n. 19376 del 3 agosto 2017.

Secondo un primo indirizzo, infatti, i beneficiari del trust non devono considerarsi parti necessarie del giudizio di revocatoria, perché oggetto della domanda azionata non sarebbe l’atto istitutivo del trust in sé, bensì il successivo atto dispositivo, compiuto dal settlor, con cui il nuovo ente, nella persona del trustee, viene dotato, senza che sia richiesta la partecipazione dei beneficiari, di un patrimonio.

I beneficiari non potrebbero ritenersi litisconsorti necessari in quanto, non essendo direttamente titolari dei beni conferiti nel trust, non subirebbero, nell’ipotesi di revoca dell’atto traslativo, un effettivo pregiudizio, ma vedrebbero semmai leso un loro mero interesse di fatto all’integrità patrimoniale dell’ente.

Essendo il trust non un ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno o più beneficiari, e formalmente intestato al “trustee”, quest’ultimo risulterebbe essere l’unico soggetto che, oltre a poter disporre in via esclusiva dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato, sarebbe legittimato a farli valere nei rapporti con i terzi, anche resistendo in giudizio (cfr. Corte d’Appello di Milano, sentenza 25 novembre 2016): infatti, sempre e solo nei suoi confronti il creditore del disponente potrebbe correttamente avviare, una volta riconosciuta l’inefficacia relativa dell’atto di disposizione all’esito del giudizio di revocatoria, l’esecuzione forzata.

Secondo altro orientamento, invece, i beneficiari del trust devono considerarsi litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria proprio perché, pur non titolari del patrimonio vincolato, sarebbero comunque interessati dagli effetti della sentenza che dispone la revoca del negozio di conferimento dei beni nel trust, venendo la loro posizione, sia giuridica che di fatto, comunque pregiudicata dagli effetti di una simile pronuncia.

Ad analoga conclusione potrebbe giungersi anche attraverso una interpretazione a contrario della giurisprudenza di legittimità in materia di fondo patrimoniale.

Con riferimento a tale istituto, la Cassazione ha, infatti, escluso la legittimazione passiva dei figli dei disponenti in giudizi analoghi, in quanto gli stessi non potrebbero vantare pretese azionabili direttamente nei confronti dei genitori – amministratori del fondo patrimoniale (cfr. Cassazione Civile, sentenza 15 maggio 2014 n. 10641; Cassazione Civile, sentenza 8 settembre 2004 n. 18065; Cassazione Civile, sentenza 17 marzo 2004 n. 5402).

I beneficiari del trust, invece, essendo nella posizione di azionare pretese nei confronti sia del trust stesso che del trustee, dovrebbero poter essere riconosciuti quali litisconsorti necessari in tutti quei giudizi che riguardano, sotto ogni aspetto, il negozio dispositivo-segregativo (cfr. S. Bartoli, Azione revocatoria di trust e litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari: la prima pronunzia della Cassazione, Il Caso, 22 Novembre 2017).

A far chiarezza sulla questione è, quindi, di recente intervenuta la Cassazione che, con la sentenza n. 19376 del 3 agosto 2017, ha proposto una soluzione alternativa a quelle appena illustrate, capace di sanare almeno in parte il contrasto interpretativo descritto.

Il caso esaminato dai giudici di legittimità è relativo al conferimento di determinati beni, dapprima in un fondo patrimoniale e poi in un trust, da parte di una coppia di coniugi che, attraverso tali strumenti, ha inteso destinare parte del proprio patrimonio alle necessità di vita e di studio dei figli.

Gli atti dispositivi sono stati, però, ritenuti pregiudizievoli per i propri interessi da una banca, creditrice di uno dei coniugi, che ha, pertanto, agito in revocatoria, ottenendo, sia in primo che in secondo grado, la declaratoria di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., di fondo patrimoniale e trust.

Contro la sentenza di appello, i coniugi hanno, dunque, promosso ricorso per Cassazione, lamentando la mancata integrazione del contraddittorio in sede di merito, non avendo la corte d’appello ordinato la chiamata in causa dei figli – beneficiari, e chiedendo, conseguentemente, la dichiarazione di nullità dell’intero processo.

I giudici di legittimità, esaminata la vicenda, hanno, però, giudicato privi di pregio i motivi di gravame proposti dai ricorrenti.

Secondo la Cassazione, infatti, nell’ipotesi di fondo patrimoniale, non essendoci alcuna mutazione nella titolarità dei beni, che restano nella titolarità dei genitori – disponenti, e non sorgendo alcun diritto soggettivo in capo ai figli – beneficiari, questi non possono essere in alcun modo considerati litisconsorti necessari nel giudizio di revocatoria del fondo, come peraltro generalmente riconosciuto da costante giurisprudenza sia di merito che di legittimità (sul punto si veda la giurisprudenza già citata in precedenza).

Ad analoga conclusione, secondo la Suprema Corte, deve giungersi anche con riferimento al trust.

Sul punto, però, i giudici di legittimità ritengono di non poter fare pienamente proprio nessuno degli orientamenti formatisi in giurisprudenza, ed offrono, come preannunciato, una terza via interpretativa secondo cui i beneficiari del trust possono essere considerati legittimati passivi nell’azione revocatoria solo quando l’atto costitutivo del trust riconosca loro la titolarità di diritti attuali sui beni conferiti nello stesso.

In assenza di un espresso riconoscimento di tali prerogative, unico legittimato passivo nel giudizio di revocatoria non può che essere il trustee.

Il trust, infatti, diviene operativo, spiega la Corte, in forza di due tipologie di atti: il primo, di carattere unilaterale, finalizzato esclusivamente alla sua istituzione, ed il secondo (o i secondi, potendo il settlor procedere anche con una pluralità di negozi distinti) di natura prettamente dispositiva, diretto a trasferire i singoli beni in capo al trustee.

Se l’atto istitutivo, di per sé, non appare idoneo a determinare nessun pregiudizio per le ragioni dei creditori del disponente, non andando ad incidere sulla consistenza del suo patrimonio e, dunque, sulla sua capacità di adempiere alle proprie obbligazioni, altrettanto non può dirsi degli atti con cui i beni vengono trasferiti in capo al trustee, il quale, divenendo l’unico soggetto legittimato a disporre degli stessi, diviene anche il solo a poter resistere in un giudizio per tutelarli.

Chiarito tale aspetto, i giudici di legittimità hanno inoltre osservato come l’eventuale interesse dei beneficiari alla corretta amministrazione del patrimonio conferito nel trust non rappresenti, almeno in linea teorica, una ipotesi di interesse diretto ed immediato ad intervenire nel giudizio di revocatoria, tale da giustificare la partecipazione dei beneficiari quali litisconsorti necessari.

L’interesse alla corretta amministrazione del trust costituisce una posizione giuridica che riguarda esclusivamente i rapporti tra i beneficiari ed il trustee e che, in nessun modo, può interessare i creditori del disponente.

A diversa conclusione si sarebbe potuti giungere qualora il regolamento del trust avesse consentito di qualificare i beneficiari come attuali beneficiari di reddito o come beneficiari finali aventi diritto immediato a ricevere la titolarità dei beni conferiti in trust, indipendentemente da qualsiasi valutazione discrezionale del trustee.

Solo così, infatti, i beneficiari avrebbero potuto far valere un interesse diretto ed immediato ad intervenire nella controversia che avrebbe giustificato la necessità di una loro chiamata in causa.

Pertanto, nelle ipotesi in cui i beneficiari non siano titolari di diritti soggettivi attuali sui beni conferiti in trust, oltre al debitore, legittimato passivo nell’azione revocatoria è solo il trustee, in quanto unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, e dunque anche nei rapporti con i creditori del settlor, e solo titolare di diritti sui beni sottoposti a segregazione.

La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione si pone in linea anche con quanto previsto dal diritto inglese, dal quale il nostro ordinamento ha mutuato l’istituto del trust, secondo cui nelle controversie promosse dai creditori del disponente nei confronti del trust, la protezione di questo è affidata al trustee, al posto o in aggiunta ai beneficiari (Di Sapio, Muritano, “Solo il «trustee» partecipa al giudizio di revoca del trust”, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017).

Perciò come in Italia, anche nei sistemi anglosassoni i beneficiari non sono parti necessarie del processo, ma possono intervenire volontariamente nello stesso per evitare di essere pregiudicati dalla pronuncia di revocatoria.

L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.