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Italia
Italy – Bankruptcy Reform
17 Gennaio 2018
- Fallimentare
Nel diritto italiano, le parti di un contratto, entrambe imprese private, sono generalmente libere di concordare il foro territorialmente competente per eventuali controversie che da quel contratto dovessero derivare.
Tuttavia, seppure queste clausole siano valide, la loro efficacia può essere limitata da alcuni requisiti formali, di cui è bene tenere conto.
Curiosamente, questi limiti di efficacia sono spesso maggiori quando le due imprese parti del contratto hanno entrambe sede in Italia, minori quando una di esse ha sede all’estero, in particolare nell’UE.
Ciononostante, nell’attuale incertezza giurisprudenziale, è giustificabile un approccio prudente nella redazione dei contratti.
Foro esclusivo o non esclusivo?
Osserviamo ad esempio questa clausola in un contratto commerciale fra due imprese private: “Foro competente – Per ogni controversia è competente il foro di Milano“.
Questa clausola, che pure non sembrerebbe suscitare alcun dubbio, in realtà è stata di recente ritenuta dalla Corte di Cassazione non efficace sotto il particolare punto di vista della non esclusività (Cass. Civ., ordinanza n. 1838 del 25.1.2018).
Nella fattispecie, una società italiana, che aveva fatto firmare al proprio partner (anch’esso società italiana) delle condizioni generali di contratto contenenti proprio la clausola di cui sopra, si era poi vista notificare un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Siena, al quale si era rivolto il partner nonostante la clausola contrattuale sottoscritta. La società in questione non è dunque riuscita a far valere come motivo di opposizione al decreto ingiuntivo la mancanza di competenza territoriale del Tribunale di Siena, non potendo contare sulla clausola delle proprie condizioni generali in quanto queste non stabilivano espressamente il foro di Milano come “esclusivo”.
Pertanto, a opinione della nostra Suprema Corte (in realtà, allineatasi a una propria precedente giurisprudenza costante) la clausola per sortire l’effetto voluto avrebbe dovuto stabilire: “Per ogni controversia è esclusivamente competente il Foro di Milano.”
Si noti però che quelle stesse condizioni generali di contratto, se fatte sottoscrivere a una società con sede in un altro Paese membro UE diverso dall’Italia (ad es. la Francia) con tutta probabilità riuscirebbero nell’intento di impedire un’azione in giudizio in Francia per opera della controparte francese, anche in mancanza dell’espressa indicazione dell’esclusività.
Questo perché l’art. 25 del Regolamento UE n.1215/2012 stabilisce espressamente che la clausola di “proroga di competenza” “è esclusiva salvo diverso accordo fra le parti”. E questo è ben riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione italiana (cfr. ad es. la sentenza n. 3624 dell’8.3.2012).
Ora, cosa accadrebbe se la controparte della nostra società di Milano fosse una società di un Paese terzo rispetto all’UE e non legata all’Italia da simili accordi internazionali? Ad esempio, una società statunitense? La clausola “Per ogni controversia è competente il Foro di Milano” potrebbe considerarsi come esclusiva oppure no, dal punto di vista del giudice italiano?
L’art. 6 del Regolamento 1215/2012 dovrebbe condurre il giudice italiano a interpretare la clausola in questione come esclusiva applicando l’art. 25 del Regolamento stesso. Tuttavia, in casi simili, la giurisprudenza italiana in passato ha mostrato di considerare simili clausole come non esclusive applicando le norme interne di diritto internazionale privato (art. 4 della L.218/95) ed interpretandole in linea con l’art. 29 secondo comma c.p.c. (cfr. ad es. Trib. Milano, 11.12.1997). Con la conseguenza, ad esempio, che se nel nostro caso la società statunitense a dispetto della clausola in questione agisca in giudizio nel proprio Paese, la sentenza emessa in quest’ultimo potrebbe essere riconosciuta in Italia.
A queste ed altre problematiche dovrebbe ovviare la Convenzione dell’Aja del 30.6.2005 sugli accordi di scelta del foro, la quale prevede (come il Regolamento europeo) l’esclusività del foro prescelto salvo espresso patto contrario. Questa Convenzione, tuttavia, risulta però al momento in vigore in un numero molto limitato di Paesi (Unione Europea, Messico, Singapore).
In questa situazione di incertezza, l’approccio più prudente secondo il diritto italiano, se si vuole un foro esclusivo efficace a prescindere dalla sede della controparte, è certamente quello di specificare l’esclusività nella clausola.
“Sottoscrizione specifica” delle clausole vessatorie (art. 1341 del codice civile)
Un altro requisito che nel diritto italiano condiziona l’efficacia delle clausole di scelta del foro competente, consiste nella “specifica approvazione” di tali clausole se contenute in condizioni generali di contratto. L’art. 1341, secondo comma, del Codice Civile, sanziona come inefficaci determinate categorie di clausole considerate “vessatorie”, ove contenute in condizioni generali di contratto, se non “specificamente approvate” per iscritto. Tra queste “clausole vessatorie” rientrano anche le clausole arbitrali e quelle di scelta del foro competente che siano favorevoli alla parte che predispone le condizioni generali.
Secondo giurisprudenza costante della Suprema Corte, dal lato pratico la “specifica approvazione” si effettua apponendo sul contratto una seconda firma, che dev’essere autonoma e separata rispetto a quella che normalmente si appone per accettare il contratto nel suo complesso, e deve riferirsi espressamente alle singole clausole vessatorie, di cui si devono riportare il numero e il titolo.
Il requisito dell’approvazione specifica delle clausole di deroga del foro vale tuttavia solo nei rapporti contrattuali fra parti entrambe italiane, non nei contratti internazionali.
In particolare, laddove si applichi il Regolamento UE 1215/2012, si guarda ai requisiti formali meno stringenti previsti dall’art. 25 anche nel caso in cui la clausola sia contenuta in condizioni generali di contratto. In questo caso, sarà necessario e sufficiente che nel contratto firmato dalle parti sia contenuto un richiamo espresso alle condizioni generali contenenti la clausola (cfr. ad es. Cass. Sez. Un. 6.4.2017 n.8895). Mentre, nel caso di condizioni generali di un contratto di vendita concluso elettronicamente, l’accettazione della clausola del foro (sempre in applicazione dei Regolamenti europei) potrà anche essere sufficientemente espressa mediante un “clic” (cfr. CGUE sentenza n.322 del 21.5.2015).
Anche applicando le norme interne di diritto internazionale privato (art. 4 L.218/95), quindi essenzialmente nei rapporti con parti di Paesi non UE (o SEE/EFTA), il requisito della “sottoscrizione specifica” per le clausole di giurisdizione è da escludersi, sia perché non previsto dall’art. 4, sia in via interpretativa (si veda Corte Costituzionale 18/10/2000, n. 428).
Ciò detto, però, non è stato ancora definitivamente chiarito se il requisito della “specifica approvazione” di cui all’art. 1341 del Codice Civile debba o meno applicarsi anche nei contratti internazionali (se regolati dal diritto italiano) per rendere efficaci le altre clausole considerate dalla norma come “vessatorie”, come ad esempio le clausole di limitazione/esclusione della responsabilità.
Pertanto, è ancora molto diffusa in Italia la prassi di redigere condizioni generali di contratto, anche per l’estero, prevedendo la seconda firma per approvazione specifica delle clausole vessatorie.
Tutto questo, in attesa di un’auspicata evoluzione della giurisprudenza italiana in un’ottica più moderna ed internazionale.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Con l’art. 15 della Legge 25 ottobre 2017, n. 163 (c.d. Legge di delegazione europea), il Governo italiano è stato incaricato di recepire la Direttiva (UE) 2016/943 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2016 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti.
Oltre al consueto adeguamento della normativa esistente, tra cui, in primis, al Codice della Proprietà intellettuale (c.p.i.), la legge delega impone al legislatore l’adozione di misure sanzionatorie penali e amministrative efficaci, proporzionate e dissuasive in caso di acquisizione, utilizzo o divulgazione illecita del know-how e delle informazioni commerciali riservate, in modo da garantire l’efficace adempimento degli obblighi previsti dalla direttiva stessa.
L’iter di approvazione della direttiva
L’iter che ha condotto all’emanazione della direttiva è durato oltre cinque anni ed i segreti commerciali erano uno dei pochi settori, insieme ai modelli di utilità, in cui mancava un intervento europeo volto all’armonizzazione della relativa protezione. Pur non raggiungendo completamente il suo scopo – trattandosi di una direttiva, infatti, l’intervento legislativo dei singoli Stati potrà prevedere un livello di protezione differente – si tratta comunque di un passo in avanti notevole, soprattutto se rapportato all’art. 39 dell’accordo TRIPS. Nonostante il suddetto accordo internazionale, infatti, non tutti gli Stati avevano adottato definizioni nazionali dei segreti commerciali o dell’acquisizione, utilizzo o divulgazione illeciti di un segreto commerciale e non vi era coerenza per quanto riguarda gli strumenti di tutela civili disponibili. Permaneva inoltre una disparità di trattamento per il terzo che aveva acquisito il segreto commerciale in buona fede ma veniva successivamente a conoscenza, al momento dell’utilizzo, che l’acquisizione faceva seguito ad una precedente acquisizione illecita da parte di un altro soggetto. In aggiunta a quanto sopra, le singole norme nazionali per il calcolo del risarcimento del danno non tengono sempre conto della natura immateriale dei segreti commerciali, rendendo difficile dimostrare il lucro cessante o l’ingiustificato arricchimento dell’autore della violazione.
Nel variegato panorama internazionale, tuttavia, l’Italia parte da una posizione di vantaggio poiché buona parte delle disposizioni della direttiva sono state recepite nei vari provvedimenti che hanno portato all’emanazione del Codice della proprietà intellettuale (D. Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) della c.d. direttiva Enforcement (2005/48/CE) e della recentissima emanazione della legge sul Whistleblowing (L. 30 novembre 2017, n. 179). Ad oggi la disciplina sostanziale è contenuta negli artt. 98 e 99 del c.p.i. e, per ciò che concerne i rimendi e il processo, negli artt. 120 e seguenti del Codice stesso.
In ogni caso, la presenza di una direttiva sulla materia ha il pregio di consentire, ai singoli giudici nazionali, il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE al fine di ottenere un intervento chiarificatore da parte della Corte di Giustizia ed invocare le relative pronunce delle Corti degli altri Stati come precedenti.
La definizione di segreto industriale
Venendo all’esame della direttiva, il primo capo concerne l’oggetto, l’ambito di applicazione e le definizioni. Tra queste ultime, la più importante è proprio quella che riguarda il segreto industriale definito come quelle informazioni che soddisfano tutti i seguenti requisiti:
- sono segrete nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione;
- hanno valore commerciale in quanto segrete;
- sono state sottoposte a misure ragionevoli, secondo le circostanze, da parte della persona al cui legittimo controllo sono soggette, a mantenerle segrete.
Rispetto all’attuale disciplina italiana, si rileva la differenza terminologica tra “valore commerciale” e “valore economico” ma tra i considerando si evidenzia che non è il valore di scambio il parametro di riferimento quanto, piuttosto, il vantaggio concorrenziale che può essere anche solo potenziale.
Emerge inoltre che la definizione di segreto commerciale non è tesa ad imporre restrizioni sull’oggetto da proteggere contro l’appropriazione illecita e, in ogni caso, ricomprende il know-how, le informazioni commerciali e le informazioni tecnologiche quando esiste un legittimo interesse a mantenere la riservatezza oppure una legittima aspettativa circa la tutela di tale riservatezza.
Peraltro, dalla suddetta definizione vanno esclusi le informazioni trascurabili, l’esperienza e le competenze acquisite dai dipendenti nel normale svolgimento del loro lavoro, nonché le informazioni che sono generalmente note o facilmente accessibili alle persone all’interno delle cerchie che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione.
Le attività lecite e illecite
Il secondo Capo della direttiva distingue le circostanze in cui l’acquisizione, utilizzo e la divulgazione dei segreti commerciali può ritenersi lecito od illecito e vengono individuate delle ipotesi eccezionali in cui non si applicano le misure previste per la tutela del segreto commerciale.
Tra le attività considerate lecite rientrano:
- a) la scoperta o la creazione indipendente;
- b) il c.d. reverse engineering, definito come osservazione, studio, smontaggio o prova di un prodotto o di un oggetto messo a disposizione del pubblico o lecitamente in possesso del soggetto che acquisisce le informazioni ed è libero da qualsiasi obbligo giuridicamente valido di imporre restrizioni all’acquisizione del segreto commerciale;
- c) esercizio del diritto all’informazione e alla consultazione da parte di lavoratori o rappresentanti dei lavoratori, in conformità del diritto e delle prassi sia dell’Unione Europea che delle singole nazioni;
- d) qualsiasi altra pratica che, secondo le circostanze, è conforme a leali pratiche commerciali.
Sul punto, le indicazioni della direttiva sono sicuramente più dettagliate rispetto a quanto previsto dall’art. 99 c.p.i. il quale si limita ad escludere dalla tutela le informazioni acquisite in modo indipendente da un terzo.
La medesima conclusione emerge dal raffronto tra la disciplina italiana e quella comunitaria in merito alle condotte illecite: la prima, infatti, si limita a sancire un generico divieto di acquisizione, rivelazione a terzi o utilizzo abusivo delle informazioni; viceversa, secondo la direttiva, l’acquisizione di un segreto commerciale senza il consenso del detentore è da considerarsi illecita qualora compiuta con l’accesso non autorizzato, l’appropriazione o la copia non autorizzata di documenti, oggetti, materiali, sostanze o file elettronici sottoposti al lecito controllo del detentore del segreto commerciale, che contengono il segreto commerciale o dai quali il segreto commerciale può essere desunto, oppure, con qualsiasi altra condotta che, secondo le circostanze, è considerata contraria a leali pratiche commerciali. L’utilizzo o la divulgazione, invece, saranno illeciti se posti in essere senza il consenso del detentore del segreto commerciale da una persona abbia acquisito il segreto commerciale illecitamente, se in violazione un accordo di riservatezza o qualsiasi altro obbligo di non divulgare il segreto commerciale oppure di un obbligo contrattuale o di altra natura che impone limiti all’utilizzo del segreto commerciale.
Parimenti illecito sarà il caso in cui il soggetto che utilizzi il segreto sia a conoscenza che quest’ultimo era stato ottenuto direttamente o indirettamente da un terzo che a sua volta lo utilizzava o lo divulgava illecitamente.
Da ultimo, anche la produzione, l’offerta, la commercializzazione l’importazione, l’esportazione o lo stoccaggio di merci costituenti violazione saranno illeciti.
Tra le eccezioni viene compreso, invece, il fenomeno del whistleblowing ovverosia il caso in cui l’acquisizione, l’utilizzo o la divulgazione del segreto commerciale siano avvenuti al fine di rivelare una condotta scorretta, un’irregolarità o un’attività illegale allo scopo di proteggere l’interesse pubblico generale.
Altre ipotesi riguardano la divulgazione dei lavoratori ai loro rappresentanti nell’ambito del legittimo esercizio delle funzioni di questi ultimi e la tutela di un legittimo interesse riconosciuto dal diritto dell’Unione o dal diritto nazionale.
Anche l’esercizio dei diritti alla libertà di espressione e di informazione, ai sensi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, costituisce un’eccezione. Peraltro, al di là dell’ampio respiro della disposizione, sarà difficile bilanciare, in concreto, gli interessi sopra richiamati con la legittima tutela del segreto stesso.
Le misure per garantire la riservatezza dei segreti nei processi
Nel dare atto, tra i considerando, che spesso il rischio di compromettere la riservatezza di un segreto commerciale nel corso di un procedimento giudiziario costituisce un deterrente, per il titolare, dall’instaurare procedimenti volti alla relativa tutela, la direttiva prevede, al Capo terzo, che gli Stati assicurino la segretezza delle informazioni attraverso l’adozione di misure che contemplino quanto meno la possibilità di:
– restringere l’accesso a qualunque documento contenente un segreto commerciale;
– limitare l’accesso alle udienze ad un numero limitato di persone;
– rendere disponibili le decisioni giudiziarie in una versione non riservata, nella quale i punti contenenti segreti commerciali siano stati oscurati.
Peraltro, quanto meno in Italia, le vigenti norme procedurali già garantiscono il rispetto delle misure sopra indicate.
Inoltre, sia per quanto concerne i procedimenti cautelari che i giudizi di merito, la direttiva individua le misure che, su richiesta del detentore del segreto, le competenti autorità giudiziarie possano emanare nei confronti del presunto autore della violazione: si va dalla cessazione/divieto di utilizzo o divulgazione del segreto commerciale, passando per il divieto di produzione/ importazione/esportazione di merci costituenti violazione, sino al sequestro e distruzione delle merci costituenti la violazione.
Tra le circostanze che, caso per caso, dovranno essere tenute in considerazione per l’ottenimento delle misure richieste, la direttiva enuncia: il valore o le altre caratteristiche specifiche del segreto commerciale, le misure adottate per proteggere il segreto commerciale, la condotta del convenuto nell’acquisire, utilizzare o divulgare il segreto commerciale, l’impatto dell’utilizzo o della divulgazione illeciti del segreto commerciale, i legittimi interessi delle parti e l’impatto che l’accoglimento o il rigetto delle misure potrebbe avere per le parti, i legittimi interessi di terzi, l’interesse pubblico e la tutela dei diritti fondamentali. Le suddette misure, inoltre, potranno essere subordinate alla concessione di una cauzione adeguata.
Il risarcimento del danno
Oltre a quanto sopra, il provvedimento delinea gli elementi che debbono essere tenuti in considerazione per la determinazione del risarcimento del danno subìto. L’autorità giudiziaria dovrà valutare le conseguenze economiche negative, compreso il lucro cessante subìto dalla parte lesa, i profitti realizzati illecitamente dall’autore della violazione e, ove opportuno, elementi diversi dai fattori economici, quale ad esempio il pregiudizio morale causato al detentore del segreto commerciale dall’acquisizione, dall’utilizzo o dalla divulgazione illeciti del segreto commerciale. La norma prevede inoltre che, in alternativa a quanto sopra, il risarcimento possa essere determinato in via forfettaria, basandosi sull’importo che l’autore della violazione avrebbe dovuto corrispondere al titolare se gli avesse richiesto l’autorizzazione ad utilizzare il segreto stesso.
Nel recepire la direttiva, gli Stati potranno inoltre limitare la responsabilità dei dipendenti in caso di danni causati involontariamente.
Nel bilanciamento degli interessi convolti, la direttiva prevede anche il risarcimento dell’eventuale danno subìto da colui che è stato soggetto alle misure sopra richiamate nel caso in cui queste si estingano per fatto imputabile all’attore oppure se sia stato successivamente accertato che non vi sono stati acquisizione, utilizzo o divulgazione illeciti del segreto commerciale né la relativa minaccia.
I rimedi proposti dalla direttiva andranno quindi ad integrarsi, quanto meno per quanto riguarda i segreti commerciali, con quanto già previsto dal codice sulla proprietà intellettuale italiano: il diritto di informazione, la discovery e l’ordine di ritiro dal commercio contro intermediari.
La prescrizione
Importante novità riguarda infine la prescrizione: in base alla direttiva, gli Stati dovranno disciplinare la decorrenza iniziale del termine, le cause di sospensione o interruzione dei diritti e delle azioni per chiedere l’applicazione delle misure di tutela previste. Tale durata, inoltre, non potrà superare i sei anni.
A differenza di altri diritti di proprietà intellettuale, la protezione dei segreti commerciali non è limitata nel tempo – benché il valore di alcune informazioni possa senz’altro diminuire sensibilmente negli anni – come avviene, ad esempio, in caso di brevetto; a differenza di quest’ultimo, inoltre, non ci sono procedure ufficiali o costi diretti (quali tasse di registro o di rinnovo) per ottenere la protezione.
Ciò non di meno, la tutela sarà ipotizzabile solo nel caso in cui i requisiti richiesti dalla definizione di segreto commerciale siano tutti presenti.
A tal fine è fondamentale che le imprese valutino con cautela le misure di protezione interne, in modo da garantire la segretezza dell’informazione.
Particolare attenzione richiederà la revisione dei contratti in essere, sia con i terzi che con i dipendenti, nonché l’aggiornamento delle procedure interne anche in relazione ai rischi che l’utilizzo degli odierni strumenti elettronici comportano, in modo da preservare livelli di protezione adeguati.
L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.
L’ambito di applicazione del regolamento generale sulla protezione dei dati (“GDPR”), con entrata in vigore a decorrere dal 25 maggio 2018, indurrà le aziende a misurarsi – senza possibilità di ulteriori esitazioni – con questioni concernenti la sicurezza informatica e la responsabilità nella raccolta e archiviazione di dati personali. La tutela della privacy diverrà parte integrante della cultura aziendale e dovrà essere governata a partire dai livelli più alti, ossia dall’amministratore delegato e dal management. Gli stessi dipendenti saranno coinvolti in questo processo di sensibilizzazione attraverso la pianificazione di un’adeguata formazione in materia. Le aziende dovranno ristabilire l’ordine e la priorità di alcuni processi che contemplano la presenza di dati secondo i principi di privacy by design e privacy by default. In sostanza, esse dovranno garantire la protezione dei dati fin dalla fase di ideazione e progettazione del prodotto o del servizio, adottando comportamenti che consentano di prevenire possibili problematiche impattanti sui dati personali.
Una definizione di dato personale sempre più ampia
Il concetto di “dati personali” si riferisce a tutte le informazioni che identificano o rendono identificabile una persona fisica e che possono fornire dettagli sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, lo stile di vita, le relazioni personali, lo stato di salute e la condizione economica. Le nuove tecnologie hanno inoltre assegnato un ruolo significativo ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche e a quelli che contengono la geolocalizzazione, rendendo sempre più ampia e articolata la definizione di “dato personale”.
Questa transizione, non certo priva di criticità, introduce nuove sfide e opportunità, ponendo al centro del dibattito internazionale e delle politiche digitali la questione della protezione dei dati come fondamentale tutela dei diritti dell’uomo. È un punto di svolta significativo. La digitalizzazione ha infatti generato una serie di questioni relative alla sicurezza informatica che alcuni anni fa potevano essere gestite dalle autorità nazionali in ogni Paese dell’UE e che ora esigono un quadro legislativo più attento e articolato. L’ introduzione di piattaforme come SaaS (Software as a Service) e l’espansione del cloud computing hanno modificato radicalmente lo scenario.
Pertanto, nel 2011 il GEPD (Garante europeo della protezione dei dati) ha accolto con favore l’istanza di riformare l’ambito giuridico della protezione dei dati personali, non risultando più idonea la legislazione vigente.
Benché sia ancora prematuro tratteggiare il quadro dell’impatto complessivo che il regolamento sulla privacy avrà, ci pare interessante e opportuno soffermarci su alcune considerazioni di ordine generale e su alcuni esiti del GDPR nello scenario internazionale.
L’applicabilità potenzialmente mondiale del GDPR
Una delle grandi novità del GDPR è certamente la sua applicabilità potenzialmente mondiale: il regolamento varca dunque i confini europei in nome della tutela del dato personale.
Esso infatti si applica non solo in tutti i casi di trattamento di dati da parte di aziende stabilite nell’Unione Europea, ma anche in tutti i casi in cui l’azienda, anche se stabilita in Paesi extra UE, tratti dati personali di soggetti che si trovano nell’Unione, al fine di offrire loro beni o servizi ovvero di monitorare il loro comportamento nell’ambito dell’Unione Europea.
Pertanto, alla luce di ciò, tutte le società estere che vorranno continuare a proporre e rendere le loro prestazioni ai cittadini europei non potranno esimersi dal conformarsi al GDPR.
Ragioni di opportunità e convenienza, oltre che di obbligatorietà alle condizioni di cui sopra e comunque fintantoché non sarà compiuta la Brexit, potranno portare anche le organizzazioni britanniche ad adeguarsi per proteggere i dati personali dei cittadini britannici ed essere competitive nel mercato europeo.
L’irrilevanza dell’ubicazione dei dati
Il regolamento non solo vincola le società estere che trattino dati personali di cittadini dell’Unione, ma mira anche a disciplinare tutti i trattamenti di dati personali, a prescindere da dove i dati personali si trovino. Si prevede infatti che siano soggetti al GDPR tutti i trattamenti di dati effettuati da aziende stabilite dell’Unione, indipendentemente dal fatto che il trattamento sia effettuato o meno nell’Unione.
I dati saranno quindi al centro dell’attenzione legale e soggetti a questo nuovo regolamento anziché alle leggi di un Paese. Ciò significa che l’ubicazione fisica perde rilevanza dinanzi al fine di garantire agli interessati un maggior controllo sulle informazioni che vengono raccolte, archiviate e utilizzate da altri.
Certo rimarrà aperta la possibilità per un’azienda di decidere di cessare le proprie attività con i cittadini dell’UE per evitare l’adeguamento ai principi del GDPR, ma tale scelta dovrà essere assunta correttamente: se, per esempio, si fornisce un servizio che, attraverso il web, può essere fruito anche da cittadini dell’UE, si dovrà prendere in considerazione l’applicazione del GDPR.
La previsione di severe sanzioni
Le sanzioni verso le società riluttanti all’adeguamento normativo possono giungere sino al 4% del loro fatturato mondiale e fino a 20 milioni di euro. La rilevanza di queste misure sanzionatorie ha destato l’attenzione di tutte le parti, in particolare delle organizzazioni statunitensi, che hanno una forte presenza nell’UE. Il GDPR, peraltro, si applica alle organizzazioni di tutte le dimensioni, sia che si tratti di uno studio individuale sia di una grande società.
Dal momento che raggiungere la conformità risulta complesso e rispettare la scadenza del 25 maggio potrebbe essere difficile, le società lungimiranti hanno iniziato ad avviare i loro programmi di conformità subito dopo l’annuncio del regolamento UE.
Secondo i dati di PwC, il 9% delle aziende statunitensi dichiara di aver assegnato oltre 10 milioni di dollari per ottenere la conformità.
Alcuni requisiti di conformità per le imprese
- Principio di accountability: si dovrà garantire che il trattamento dei dati passi attraverso procedure documentate, indipendentemente dal fatto che sia l’azienda a condurre tali procedure o che queste vengano eseguite per conto dell’azienda. Il titolare del trattamento viene così responsabilizzato e dovrà dimostrare di essere compliant con il GDPR.
- Risk based approach: alla base del regolamento europeo v’è, appunto, la responsabilizzazione delle società, cui viene richiesto di essere in linea con i principi del GDPR sulla scorta di un nuovo approccio basato sul rischio e sull’analisi dei rischi.
- Consenso chiaro ed esplicito: grande attenzione viene dedicata al tema del consenso al trattamento dei dati personali, che dovrà essere chiaro, esplicito, distinguibile ed inequivocabile.
- Data protection by design e by default: gestione e implementazione della privacy fin dalla progettazione e con impostazioni di default; ciò significa che le imprese dovranno prendere in considerazione la tutela dei dati personali sin dal momento della progettazione e dello sviluppo pratico di un prodotto, un servizio o un’applicazione.
- Diritto all’oblio: i soggetti interessati hanno il diritto di ottenere, senza ritardo, dal titolare del trattamento la cancellazione dei loro dati personali alle condizioni previste dal GDPR, quali ad esempio la superfluità, e non più necessità, dei dati rispetto alle finalità per cui sono stati raccolti ovvero la revoca del consenso da parte del soggetto interessato.
- Diritto alla portabilità dei dati: i soggetti interessati hanno il diritto di ricevere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico, i loro dati personali, potendoli così trasmettere ad un altro titolare del trattamento senza impedimento alcuno da parte del precedente titolare.
- Designazione di un Rappresentante nell’Unione Europea: il Rappresentante dovrà agire per conto del titolare o del responsabile del trattamento e potrà essere interpellato da qualsiasi Autorità di vigilanza.
Come facilitare il processo di transizione?
Il regolamento UE in tema di protezione dei dati personali richiede una solida preparazione giuridica e, al contempo, una grande capacità di implementazione tecnica sulla base dei processi di digitalizzazione in atto e l’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate e complesse.
Le aziende, pertanto, potranno affidarsi a professionisti in grado di fornire una consulenza multidisciplinare, che contempli non solo le adeguate competenze in ambito giuridico ed informatico, ma anche il dialogo e le sinergie tra professionisti e figure aziendali quali giuristi, informatici, ingegneri e matematici.
Il GDPR diventa pertanto non solo un faticoso adempimento, ma anche l’occasione per avviare nelle aziende un processo di transizione, in cui l’unione delle predette skills si configura come la ricetta in grado di garantire la crescita, oltre che l’osservanza della normativa.
L’autore di questo post è Giorgio Piccolotto.
The fourth Industrial Revolution, currently experienced by global economy, displays a melting-pot of a wide range of new technologies combined one another, impacting on every aspect of economy, industry and society by progressively blurring the borders of the physical, digital and biological spheres.
The growth of robotics, of artificial and virtual intelligence, of connectivity among objects and of the latter with humans, is contributing to strengthening the virtual side of economy, made of its intangible assets. Even trade is tending more and more towards a trade of intellectual property rights rather than trade of physical objects.
In such a scenario, protection of intellectual property is becoming increasingly important: the value of innovation embedded in any product is likely to increase as compared to the value of the physical object itself. In other words, protection of intellectual property could significantly affect economic growth and trade and shall necessarily go forward as the economy becomes more and more virtual.
Future growth of the 4.0 economy depends on maintaining policies that, on one hand allow connectivity among millions of objects and, on the other, provide for strong patent protection mechanisms, thus, encouraging large and risky investments in technology innovation.
Are SMEs, which represent the beating heart of the Italian economy, ready for all this? Has Italy adopted any policy aimed at boosting innovation and the relevant protection for SMEs?
After more than four years since the launch of the Startup Act (Decree Law No 179 of 18 October 2012), Italian legislation confirms being among the most internationally advanced programs for innovative business support strategies. If we look at the Start Up Manifesto Policy Tracker Startup Manifesto Policy Tracker (a manifesto for entrepreneurship and innovation to power growth in the European Union), published in March 2016, Italy is in second place among the 28 EU Member States, in terms of the take up rate of recommendations made by the European Commission on the innovative entrepreneurship issue.
The Annual Report to Parliament on the implementation of legislation in support of innovative startups and SMEs (Edition 2016) confirms the results of the Startup Manifesto Policy Tracker: Italian ecosystem has grown in terms of number of startups recorded (+41% on the previous year), of human resources involved (+47,5%), of average value of production (+33%) and, finally, of funding raising (+128%, considering access to credit via the SME Guarantee Fund).
This growth is the outcome of both the inventiveness and the attention to innovation that have always characterized Italian entrepreneurs as well as of the progress made by Italian legislation over the past years: changes were introduced in order to boost the national system for business startups and, in some cases, to promote innovative entrepreneurship as a whole.
Adopted measures include, for example: the implementing Ministerial decrees on tax credits for R&D investments; the ITA Service Card for innovative SMEs, the multimedia, bilingual online platform #ItalyFrontiers (the aim of which is to promote capital investment and encourage open innovation projects involving innovative Italian businesses); Italia Startup Visa and Italia Startup Hub (the renewal, under the 2016 Decree on Immigration Flows, of a preferential procedure for the granting of visas and the conversion of permits to stay for self-employed for non-EU citizens wanting to move to Italy or remain there to start up an innovative enterprise); the launch of a new simplified online company incorporation procedure that enables innovative startups to be opened as limited liability companies, granting significant time and cost reductions; the extension (until 2016) and the reinforcement of fiscal incentives available for investment in innovative startups; finally, the extension of the free, simplified access to the Guarantee Fund to include innovative SMEs in order to make it easier for them to obtain credit.
The importance of Intellectual Property in the modern economy
A national policy that has a target of incentivizing the use of Intellectual Property is a policy that will have beneficial effects on the entire national (and international) economy.
Proof of this, are the results of the studies carried out by the European Observatory on Infringements of Intellectual Property Rights and the European Patent Office (EPO) on the contribution of intellectual property rights (IPR) on the EU economy.
The study analyzed the effects of intellectual property on the EU in terms of gross domestic production, occupation, wages and trade. Here are some of the most interesting data:
– 42% of the total economic activity in the EU (approximately EUR 5.7 trillion) and 38% of occupation (approximately 82 million workplaces) is attributable to IPR-intensive industries;
– IPR-intensive industries pay significantly higher wages than other industries, with a wage premium of 46%;
– IPR-intensive industries tend to be more resilient against the economic crisis;
– IPR-intensive industries account for about 90% of EU trade with the rest of the world, generating a trade surplus for the EU of EUR 96 billion;
– about 40% of large companies own IPRs.
The data gathered by this study should raise social and political awareness as to the importance of stimulating not only large companies, SMEs and startups in general, but also those, which use intellectual property.
The innovation criteria
An interesting measure that is showing good results in relation to the dissemination of IPR companies in Italy is the introduction, thanks to the Startup Act, of the concept of innovative startup.
The Startup Act provides facilitating measures (e.g.: incorporation and following statutory modifications by means of a standard model with digital signature, cuts to red tape and fees, flexible corporate management, extension of terms for covering losses, exemption from regulations on dummy companies, exemption from the duty to affix the compliance visa for compensation of VAT credit) applicable to companies which have, as well as other requirements, at least one of the following requirements:
– at least 15% of the company’s expenses can be attributed to R&D activities;
– at least 1/3 of the total workforce are PhD students, the holders of a PhD or researchers; or, alternatively, 2/3 of the total workforce must hold a Master’s degree;
– the enterprise is the holder, depositary or licensee of a registered patent (industrial property), or the owner and author of a registered software.
The Startup Act is still having positive effects on the startups demographic trends. As a matter of fact, during the first six months of 2016 there has been a growth rate of 15,5% in the number of registered companies.
The success of the Startup Act brought the Italian legislator to extend with the Investment Compact (Decree Law No 3 of 24 January 2015) most of the benefits provided for innovative startups also to innovative SMEs.
By the Investment Compact the Italian Government recognized that innovative startups and innovative SMEs represent two sequential stages of the same continuous and coherent growth path. In a context as the Italian one, dominated by SMEs, it is fundamental to strengthen this kind of enterprises.
The measures in question apply only to SMEs, as defined by the European Commission Recommendation 361/2003 (companies with less than 250 employees and with a total turnover that does not exceed € 43 million), which have, as well as other requirements, at least two of the following requirements:
– at least 3% of either the company’s expenses or its turnover (the largest value is considered) can be attributed to R&D activities;
– at least 1/5 of the total workforce are PhD students, PhD holders or researchers; alternatively, 1/3 of the total workforce must hold a Master’s degree;
– the enterprise is the holder, depositary or licensee of a registered patent (industrial property) or the owner of a program for original registered computers.
Unfortunately to this day the Investment Compact has not produced the expected results: on one hand, there is a problem connected to the not well-defined concept of “innovative SMEs”, differently from what happened with startups; on the other hand, there are structural shortcomings in the communication of government incentives: these communication issues are particularly significant if we consider that the policy on innovative SMEs is a series of self-selecting, non-automatic incentives.
Patent Box
Another important measure related to the IP exploitation is the Patent Box, the optional tax rule applicable to income derived from the exploitation of intellectual property rights.
The Patent Box rules were introduced by the 2015 Stability Act and give to businesses, from 2015 onwards, the option of tax-exempting up to 50% of the income derived from the commercial exploitation of software protected by copyright, industrial patents for inventions, utility models and complementary protection certificates, designs, models, company information and technical/industrial know-how, provided that they can be protected as secret information according to the Italian Code of Industrial Property: meaning patented intangibles or assets that have been registered and are awaiting a patent.
Originally, also the exploitation of trademarks allowed entrepreneurs to choose the Patent Box optional tax rule, but a very recent Decree erased that provision by excluding trademarks from the Patent Box regime. This exclusion has just been introduced in order to align the Italian Patent Box to the prescriptions of the Organization for Economy Co-operation and Development (OECD).
Said policy has a dual purpose: on one hand, it seeks to encourage Italian entrepreneurs to develop, protect and use intellectual property; on the other hand, it intends to make the Italian market more attractive for national and foreign long-term investment, while protecting the Italian tax base. The incentive encourages the placement, and preservation in Italy, of intangibles that are currently held abroad by Italian or foreign companies and also fosters investments in R&D.
The Patent Box is certainly of great importance for Italian economy and has relevant merits, but it can be further improved. During the convention held on the 8th of May 2017 in Milan entitled “Fiscal levers for business development: the patent box example”, organized by Indicam, the institute for fight against counterfeiting established by Centromarca, it was highlighted that one aspect to improve is that of the Patent Box’s appeal to SMEs: there is a need for this policy, which was thought mainly for large companies, to be really effective. One solution, proposed by the Vice-Minister of Finance and Economy Luigi Casero, guest of the convention, is to «introduce some statistical clusters, a kind of sector studies, an intervention of analysis and evaluation of the fiscal indicators of a specific type of company».
UPC
The last matter that deserves to be mentioned is that of the Unified Patent Court: Italy has ratified the United Patent Court Agreement on the 10th of February 2017.
As it is known, in order to start its operations the Unified Patent Court needs the ratification also of United Kingdom. Moreover, one of UPC central division should be located in London in addition to the ones in Paris, Munich. After Brexit this maintaining of the London Court appears inappropriate both under a juridical and an EU opportunistic point of view.
As provided for the UPC Convention a section of the central division should be in Italy because it is the fourth EU member state (after France, Germany and the UK) as to the number of validated European patents in its territory: the London Court should be therefore relocated to Milan.
Moreover Italy is one of the main countries in the EU applying for not only European patents but also trademarks and designs (and so contributes substantial fees) yet it does not host any European IP institutions.
An Italian section of the UPC would certainly bring a higher awareness, also of smaller enterprises, in relation to the importance of IP protection.
Conclusion
A disruptive and unprecedented transformation is taking place, involving industry, economy and society, with its main whose main driver being the relentless ascent of its intangible component.
What we have to do, as a society, is follow this transformation by changing our way of thinking and working, abandoning the old paradigms of the analogic era.
Policy measures as the Startup Act, the Investment Compact and the Patent Box are surely important initial steps that are bringing certain positive effects, but they are not enough and they have not yet achieved the maximum results.
As pointed out by the #StartupSurvey, the first national statistical survey of innovative startups, launched by the Italian National Institute of Statistics and the Ministry of Economic Development (the data were gathered by a mass mailing to all the innovative startups listed in the special section on 31 December 2015), the majority of Italian startups and SMEs (52,3%) have not adopted any formal mechanism, as the ownership of an industrial patent, to protect their innovation. Only 16,1% of the respondents owned a patent and only 11,8% owned a registered software.
Among the reasons that bring startups to not adopt protection mechanisms, the majority of the entrepreneurs (48,4%) claimed to be convinced that the innovation of their enterprise could not be taken away by third parties. On the other hand, a considerable number (25,5%) said that they were not aware of the necessary strategies.
The data gathered by the survey confirm that there is a communication and information issue, as noted in the paragraph above, to be solved.
An interesting initiative relating to this problem is the new questionnaire realized by the Head Office for the fight against counterfeiting of the Ministry of Economic Development. This new and free service has been conceived, in particular, for startups and SMEs, allowing them to carry out an online self-assessment in relation to intellectual property.
The aim of the questionnaire is to make the enterprises aware of their intellectual property range and to direct them towards the adoption of appropriate strategies for the valorization of their intangible assets.
The Italian legislator has enacted law 19.10.2017 n. 155 “Law. n. 155” or “the Reform”; through the said piece of legislation, the Italian government is entitled to adopt a series of legislative decrees (the decrees should be enacted very soon) aimed, on the one hand, at reforming substantially the Royal Decree n. 267/1942 “Bankruptcy Law”, on the other side, at amending accordingly the so called procedure of “over-indebtedness”.
It is interesting to note that art.1 of the Law n. 155 mandates that the Italian legislator, while adopting the said decrees, takes into account the EU regulation 2015/848, EU Commission recommendation n. 2014/135/EU and, most importantly, the UNCITRAL principles and guidelines.
Art. 2 sets forth some fundamental principles that as well must be followed by the Italian legislator.
First of all, the term “bankruptcy” i.e. Fallimento shall be replaced by the notion of judicial liquidation, in this respect, the criminal rules regarding bankruptcy shall be amended consequently. The so called ex officio (i.e. on Court’s initiative) bankruptcy declaration as provided by article 3 of Legislative decree n. 270/1999 (the law governing the so-called extraordinary administration) shall be repealed. The notion of state of crisis (a relative new notion) shall be properly defined as probable insolvency in the future. The definition shall be shaped taking into account the scientific development in the field of the business and administration science. Nonetheless, the definition of insolvency encompassed at art. 5 of Bankruptcy law shall remain the same.
Art. 2 further dictates that in order to ascertain the debtor’s state of crisis or insolvency a unique model procedure shall be adopted pursuant to article 15 of the Bankruptcy Law. The procedure shall be characterized by speediness, even in the ensuing phase of opposition. Legal standing in order to file a petition for bankruptcy shall be bestowed upon the supervising bodies of the business entity and upon the public prosecutor. The latter shall have the right to file a petition whenever he is aware of a state of crisis affecting the business entity.
The proceedings aimed at ascertaining the state of crisis and or insolvency shall concern every category of debtor. Therefore legal entities and individuals alike shall be subject to the procedure that shall regards: commercial business entities, agribusinesses, artisans, entrepreneurs, consumers, professionals, collective entities with the exception of public entities.
Moreover, the Reform shall adopt the notion of center of main interests (“COMI”) as developed within the framework of EU law and case law.
Preeminence and priority shall be given to the restructuring proceedings whereby the ongoing concern of the business is safeguarded in view of the creditors’ satisfaction. In this latter case, the convenience of the rescue plan needs to be properly illustrated. Liquidation, by contrast, is reserved to those cases where no viable alternative is possible. Abuses in any event should be prevented.
Art. 2 also specifies that the Italian Legislator has to coordinate the new rules with the provisions governing the automated process and those regarding the service process to the certified electronic e-mail couriers which shall be applicable to professionals as well.
One of the main goals of the Reform is to reduce the time and the costs associated to the activities to be performed in the proceedings. In particular, the fees of the professionals involved in the proceedings should be kept under control in order to increment the amount of money to be distributed in favor of the creditors.
Another objective of the Reform is to reframe those provisos whose interpretation has generated a contrast amongst the professionals, the scholars and the courts, in order to favor a construction of the rules consistent with the principles and the purposes established by the Reform.
Likewise, for sake of uniformity and consistency, the Reform backs a process of high-level specialization amongst Courts and professionals involved in the procedures. In order to achieve those goals the Reform moves into different directions.
In this respect, the Courts specialized in enterprise matters shall have jurisdiction over the proceedings and all the deriving litigations regarding enterprises subject to the Extraordinary Administration and large group of companies. On the other hand, the competence for the proceedings regarding the consumers, professionals and minor entrepreneurs shall remain unaltered while for the other procedures shall be competent those Courts that shall meet certain requirements in terms of: (i) the number of professional judges involved in the bankruptcy field; (ii) the number of proceedings that have been dealt with in the last five years; (iii) the number of proceedings that have been completed in the last five years; (iv) the average duration of the proceedings during the last five years; (v) the ratio between the requirements above mentioned and the national average; (vi) the number of business entities registered within the competent records together (vii) with the number of the resident population within the relevant territory of the Court.
Moreover, a list of professionals having the requisites of competence, independence and experience o be appointed as administrator, receivers or commissioners shall be kept by the Ministry of Justice.
Last but not least, the insolvency proceedings shall be harmonized with The European Social Charter for the protection of the employment.
Convertible notes, SAFE Agreements, participative financial instruments: the growing interest in start-up investing has led to a progressive differentiation both in investment strategies and, as a consequence, in legal/contractual instruments so to best suit the investors’ needs.
The introduction of these tools, specific to foreign ecosystems such as the Silicon Valley, and the difficulties in sourcing sufficient capitals to back the development of start-up companies, in particular with regard to the early/seed stage, has encouraged several players to opt for instruments alternative to equity investment, either developed “nationally” or under common law systems.
This mind-set has many positive side effects since it opened up the capital raising landscape that now includes venture capital funds, business angels networks, family offices and even club deals composed of small investors willing to buy into start-ups (mostly over the incubation/acceleration stage) with an injection of capital for a relatively small amount of shares.
In Italy, this trend towards non-equity or demi-equity instruments had two major results: it contributed to dust off legal instruments first introduced by the latest comprehensive reform of the Italian company law in 2004 (e.g. participative financial instruments – in Italian: Strumenti Finanziari di Partecipazione or SFP – art. 2346, par. 6 of the Italian Civil Code); and it fostered the creation of new contractual models plainly inspired by well-known instruments used in the Silicon Valley. That is the case of Convertible Notes and SAFE Agreements (Simple Agreement for Future Equity).
These instruments, together with the SFPs, have a trait in common: they all require a cash investment which is meant to be converted to equity at a specific milestone or on a pre-set date. On the other hand, none of them entails the possibility for an investor to hold a participation as a shareholder (at least not straightaway). Investors become stakeholders instead and they may hold as many administrative/patrimonial rights as they manage to negotiate with the company or with the founders themselves as well as depending on the specific contractual instrument they selected. It is important to point out that profits distribution rights are not included among those subject to negotiation since innovative start-ups (namely early-stage companies that meet certain criteria set by the law: i.e. high level technology of the company’s scope, R&D expenditure or number of graduates employed, etc.) are prevented from distributing profits for the first five years according the pertaining Italian regulation (see art. 25, par. 2 of the D.L. 179/2012).
Convertible Note and SFP
Starting off with convertible notes: these instruments are extremely flexible and mainly used by club deals and family offices. They are structured as a hybrid between convertible obligations and traditional loans. Investors in facts lend money to a start-up on a specific interest rate and according to a contract where the parties have previously set out terms and conditions that would preside over their relationship. The investment is classified as a liability of the company to third parties and, more specifically, as a long term liability.
The parties set two different dates, one for the conversion of the credit to equity and another one for the possible payback (in case the conversion has not been exercised). Sometimes the parties decide to leave the payback aside and set directly the date of the conversion to equity thus transforming the instrument from a demi-loan to an option on a prospective capital increase, where the money invested in the company would be considered as the price of the option; or even an obligation that can be converted to shares, an hypothesis admitted by eminent scholars not only for corporations, but also for limited liability companies.
The conversion date is usually set before the reimbursements, for the latter is meant as the last resort in the event the capital increase has not been approved by the company and provided that the parties had previously agreed upon such possibility. Furthermore, the reimbursement might be considered as a consequence of certain events, in particular when there is a payback request for cause or when a party violates any of the representations and warranties set out in the contract. In order to avoid unpleasant surprises, it is “customary” to provide for a future capital increase specifically dedicated to the investor – as well as an obligation for the investor to convert his loan – directly in the contract. The parties are free to determine whether the conversion should take place on a certain date or subject to the company meeting specific milestones such as: turnover goals, the achievement of specific results both economically and with reference to the development of its tangible/intangible technological assets (for instance, the development of software or the patenting of an invention). The actual conversion may take place at once or in instalments through a resolution of the shareholders to schedule the capital increase in two or more tranches. The convertible note must provide for a price per share for the conversion based on the so-called pre-money valuation; it is quite usual to set also a conversion discount, that is a price per share lower than the per share price paid by other investors in that round.
SAFE Agreement
The SAFE Agreement – developed and used by the world-renowned California-based incubator “Y Combinator” – is neither a debt instrument, unlike convertible notes, nor an equity one since it does not give its holder the right to profit sharing or the right to vote as a shareholder. It is rather a financial instrument that incorporates a prospective right to buy out preferred shares.
Although SAFE Agreements do not have an Italian counterpart, SFPs may look alike when they are “designed” as semi-equity participative instrument (without payback) and used to collect capitals to be allocated in a specific equity reserve, which should be used only to cover the company’s operating losses and be considered otherwise unavailable. However, the extent of this unavailability is still a matter of debate among scholars and the possibility for the parties to a SFP agreement to determine that the reserve at issue might only be used upon depletion of the others (legal reserve fund included) is not undisputed as well. In one of the latest ruling on the matter, the judge has indeed opted for the availability of the reserve created upon issuance of the SFPs on account of its statutory nature, stating that it can therefore be depleted before legal reserve fund and equity (Court of Naples, 25/2/2016). This is basically the main reason why SAFE agreements cannot be implemented tout court in Italy.
In any case, the Italian Civil Code allows the possibility to design the SFPs so as to meet specific requirements since they are essentially “empty boxes” that can be filled by the parties based on the needs of either the issuing start-up company and/or the investors willing to fund it. In fact, the law only sets two guidelines: i) it excludes that the SFP could grant its holder the right to vote as a shareholder; ii) it establishes that these instruments can be endowed with patrimonial or even administrative rights. The possibility for a company to issue SFPs must be specified in the articles of association/bylaws, which refers to a future extraordinary meeting of the shareholders for the adoption of the pertaining regulation, which will also set out the functioning rules of the special assembly dedicated to the holders of SFPs.
Turning to the SAFE Agreement, the American model sets a conversion price that cannot exceed a certain cap, according to which the company assigns shares on a capital increase (i.e. SAFE preferred) with privileged rights and with restrictions closely similar to those typical of standard “preferred shares”. Furthermore, it also sets a discounted conversation price which, in the US experience, is in the range of 15-20%, while there no provision as to a future deadline for paying the investment back.
Nothing prohibits to adapt the regulation of the SFPs to the best practice resulted from the implementation of the SAFE Agreement in the US. That is the case of the “acceleration” clauses that allow the investor to convert its investment before the original date set out in the agreement in case of equity-financing/liquidity events, namely the acquisition of the start-up or a capital increase that brings new investors in. This type of clauses is also often used in convertible notes. Some clauses, on the contrary, cannot be transferred into a SFP. That is the case of the clauses that regard the payback in relation to dissolution events such as: (i) the voluntary suspension of the business activity of the company; (ii) the transfer of the company’s assets to benefit the creditors or (iii) the company’s winding-up process both voluntary and not. According to Italian law, the winding-up due to a total loss of equity implies the possibility to use the reserve destined to SFPs with the consequent loss of the money invested by the SFP holders. Hence the common practice – still debated among scholars – that sees the possibility to use the reserves created upon issuance of the SFPs subordinated to the complete depletion of the other reserves, legal reserve fund included.
Eventually, these practices have taken hold over the last few years since they are meant to provide the investors with more and more flexibility when dealing with financial/investment instruments as those described above. They represent in fact an opportunity for both start-ups, that can obtain capital on the short period, and investors, who can grade their entrepreneurial risk allocating their investment as a debt or not – depending on the chosen instruments – with a view to a conversion to equity that will eventually depend on several factors, not least the company’s business metrics and economical standing.
In conclusion, the dynamism of this sector and the recent intervention of the Italian legislator show that there is plenty of room for growth in the Italian start-up ecosystem.
The author of this post is Milena Prisco.
Come per tutti i contratti di durata, anche per le società a responsabilità limitata (s.r.l.) la legge italiana prevede la possibilità per il socio di recedere.
L’articolo 2473 del codice civile riconosce al socio il diritto di recedere, oltre che nei casi espressamente previsti nell’atto costitutivo, anche quando lo stesso non abbia consentito al cambiamento dell’oggetto sociale o del tipo di società, alla sua fusione o scissione, alla revoca dello stato di liquidazione, al trasferimento della sede all’estero, alla eliminazione di una o più cause di recesso previste dall’atto costitutivo e al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o dei diritti particolari attribuiti al socio ai sensi dell’art. 2468 c.c.
In aggiunta alle ipotesi sopra elencate, il diritto di recesso può essere altresì esercitato quando:
- l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità della quota o subordini il suo trasferimento al mero gradimento degli organi sociali (art. 2469 codice civile);
- sia deliberato l’aumento di capitale sociale con emissione di nuove quote in favore di terzi (art. 2481 bis codice civile);
- vengano introdotte, siano soppresse o modificate in maniera importante eventuali clausole compromissorie contenute nell’atto costitutivo (art. 36 D.Lg. 5/2003);
- la società capogruppo sia stata condannata ai sensi dell’art. 2497 quater codice civile.
Oltre alle ipotesi appena elencate, resta comunque sempre valida la regola generale, cristallizzata nella disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 2473 del codice civile, per cui il socio può sempre recedere, dando un preavviso di 180 giorni (o più, se diversamente disposto dall’atto costitutivo), quando la società sia stabilita a tempo indeterminato.
A lungo si è discusso, e tuttora si continua a discutere, della possibilità per il socio di ricorrere a tale ipotesi di recesso ad nutum quando la società abbia un termine ben determinato, ma comunque eccedente la normale durata della vita umana.
Sulla questione la giurisprudenza non ha mancato di sottolineare come una durata della società superiore a quella media della vita umana non possa che comportare l’applicazione della disciplina prevista per le società contratte a tempo indeterminato.
La Cassazione, con la pronuncia n. 9662 del 22 aprile 2013, ha, in particolare, riconosciuto l’assimilabilità di una società costituita con durata fino al 2100 ad una società con durata illimitata, precisando che, in presenza di un termine fissato in epoca così lontana nel tempo, tanto da superare la prospettiva di vita della persona fisica e di operatività di un soggetto collettivo, debbano trovare spazio le ragioni che hanno portato il legislatore, che ha sempre guardato con sfavore ai vincoli perpetui, a prevedere il recesso ad nutum per le società contratte a tempo indeterminato.
La previsione di un termine di durata del soggetto collettivo ha, secondo i giudici di legittimità, la funzione di stabilire se l’aspettativa di vita dell’ente sia congrua rispetto al progetto che con esso si intende perseguire.
La mancata previsione di un termine di durata viene, perciò, ricollegata all’intrinseca perpetuità del progetto imprenditoriale o, in alternativa, alla difficoltà di stabilire a priori il tempo necessario per giungere al conseguimento dell’oggetto sociale.
Ne consegue, pertanto, che fissare un termine per la durata della società in un momento eccessivamente lontano nel tempo, potrebbe impedire di ricostruire quale sia stata l’effettiva volontà delle parti del contratto sociale nella scelta tra società contratta a tempo determinato e società contratta a tempo indeterminato.
Non potrebbe, quindi, escludersi che l’indicazione di una durata spropositata rispetto alla vita dei soci o rispetto all’oggetto sociale che s’intende perseguire abbia, in realtà, un intento elusivo degli effetti che si produrrebbero con una dichiarazione esplicita di durata indeterminata, che potrebbe essere corretto solo con un intervento interpretativo che garantisca al socio le tutele previste dall’ordinamento con riferimento alle società con durata illimitata.
La linea portata avanti dalla Cassazione è stata di recente seguita anche dalla giurisprudenza di merito.
In particolare, le sezioni specializzate in materia di impresa del Tribunale di Roma (sentenza del 22 ottobre 2015) e del Tribunale di Torino (pronuncia del 5 maggio 2017), hanno riconosciuto il diritto di recesso con preavviso con riferimento a società con termine al 2100, considerando una simile durata sostanzialmente illimitata.
Nello specifico, il collegio piemontese ha fatto interamente proprie le argomentazioni della Corte di Cassazione, applicando il principio secondo cui devono considerarsi costituite a tempo indeterminato, non solo le s.r.l. con durata eccedente la normale vita umana, ma anche le s.r.l. che siano costituite per un termine particolarmente lungo, tale per cui debba ritenersi superato l’orizzonte temporale ragionevolmente ricollegabile al raggiungimento dello scopo della società.
L’orientamento giurisprudenziale che va, quindi, affermandosi impone agli operatori del diritto di prestare particolare attenzione all’elemento della durata temporale delle società a responsabilità limitata, onde evitare un’applicazione più ampia e generalizzata, rispetto a quanto desiderato, delle tutele riconosciute ai soci di s.r.l. contratte a tempo indeterminato.
L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.
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Italy – Start-up investments
19 Dicembre 2017
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Nel diritto italiano, le parti di un contratto, entrambe imprese private, sono generalmente libere di concordare il foro territorialmente competente per eventuali controversie che da quel contratto dovessero derivare.
Tuttavia, seppure queste clausole siano valide, la loro efficacia può essere limitata da alcuni requisiti formali, di cui è bene tenere conto.
Curiosamente, questi limiti di efficacia sono spesso maggiori quando le due imprese parti del contratto hanno entrambe sede in Italia, minori quando una di esse ha sede all’estero, in particolare nell’UE.
Ciononostante, nell’attuale incertezza giurisprudenziale, è giustificabile un approccio prudente nella redazione dei contratti.
Foro esclusivo o non esclusivo?
Osserviamo ad esempio questa clausola in un contratto commerciale fra due imprese private: “Foro competente – Per ogni controversia è competente il foro di Milano“.
Questa clausola, che pure non sembrerebbe suscitare alcun dubbio, in realtà è stata di recente ritenuta dalla Corte di Cassazione non efficace sotto il particolare punto di vista della non esclusività (Cass. Civ., ordinanza n. 1838 del 25.1.2018).
Nella fattispecie, una società italiana, che aveva fatto firmare al proprio partner (anch’esso società italiana) delle condizioni generali di contratto contenenti proprio la clausola di cui sopra, si era poi vista notificare un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Siena, al quale si era rivolto il partner nonostante la clausola contrattuale sottoscritta. La società in questione non è dunque riuscita a far valere come motivo di opposizione al decreto ingiuntivo la mancanza di competenza territoriale del Tribunale di Siena, non potendo contare sulla clausola delle proprie condizioni generali in quanto queste non stabilivano espressamente il foro di Milano come “esclusivo”.
Pertanto, a opinione della nostra Suprema Corte (in realtà, allineatasi a una propria precedente giurisprudenza costante) la clausola per sortire l’effetto voluto avrebbe dovuto stabilire: “Per ogni controversia è esclusivamente competente il Foro di Milano.”
Si noti però che quelle stesse condizioni generali di contratto, se fatte sottoscrivere a una società con sede in un altro Paese membro UE diverso dall’Italia (ad es. la Francia) con tutta probabilità riuscirebbero nell’intento di impedire un’azione in giudizio in Francia per opera della controparte francese, anche in mancanza dell’espressa indicazione dell’esclusività.
Questo perché l’art. 25 del Regolamento UE n.1215/2012 stabilisce espressamente che la clausola di “proroga di competenza” “è esclusiva salvo diverso accordo fra le parti”. E questo è ben riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione italiana (cfr. ad es. la sentenza n. 3624 dell’8.3.2012).
Ora, cosa accadrebbe se la controparte della nostra società di Milano fosse una società di un Paese terzo rispetto all’UE e non legata all’Italia da simili accordi internazionali? Ad esempio, una società statunitense? La clausola “Per ogni controversia è competente il Foro di Milano” potrebbe considerarsi come esclusiva oppure no, dal punto di vista del giudice italiano?
L’art. 6 del Regolamento 1215/2012 dovrebbe condurre il giudice italiano a interpretare la clausola in questione come esclusiva applicando l’art. 25 del Regolamento stesso. Tuttavia, in casi simili, la giurisprudenza italiana in passato ha mostrato di considerare simili clausole come non esclusive applicando le norme interne di diritto internazionale privato (art. 4 della L.218/95) ed interpretandole in linea con l’art. 29 secondo comma c.p.c. (cfr. ad es. Trib. Milano, 11.12.1997). Con la conseguenza, ad esempio, che se nel nostro caso la società statunitense a dispetto della clausola in questione agisca in giudizio nel proprio Paese, la sentenza emessa in quest’ultimo potrebbe essere riconosciuta in Italia.
A queste ed altre problematiche dovrebbe ovviare la Convenzione dell’Aja del 30.6.2005 sugli accordi di scelta del foro, la quale prevede (come il Regolamento europeo) l’esclusività del foro prescelto salvo espresso patto contrario. Questa Convenzione, tuttavia, risulta però al momento in vigore in un numero molto limitato di Paesi (Unione Europea, Messico, Singapore).
In questa situazione di incertezza, l’approccio più prudente secondo il diritto italiano, se si vuole un foro esclusivo efficace a prescindere dalla sede della controparte, è certamente quello di specificare l’esclusività nella clausola.
“Sottoscrizione specifica” delle clausole vessatorie (art. 1341 del codice civile)
Un altro requisito che nel diritto italiano condiziona l’efficacia delle clausole di scelta del foro competente, consiste nella “specifica approvazione” di tali clausole se contenute in condizioni generali di contratto. L’art. 1341, secondo comma, del Codice Civile, sanziona come inefficaci determinate categorie di clausole considerate “vessatorie”, ove contenute in condizioni generali di contratto, se non “specificamente approvate” per iscritto. Tra queste “clausole vessatorie” rientrano anche le clausole arbitrali e quelle di scelta del foro competente che siano favorevoli alla parte che predispone le condizioni generali.
Secondo giurisprudenza costante della Suprema Corte, dal lato pratico la “specifica approvazione” si effettua apponendo sul contratto una seconda firma, che dev’essere autonoma e separata rispetto a quella che normalmente si appone per accettare il contratto nel suo complesso, e deve riferirsi espressamente alle singole clausole vessatorie, di cui si devono riportare il numero e il titolo.
Il requisito dell’approvazione specifica delle clausole di deroga del foro vale tuttavia solo nei rapporti contrattuali fra parti entrambe italiane, non nei contratti internazionali.
In particolare, laddove si applichi il Regolamento UE 1215/2012, si guarda ai requisiti formali meno stringenti previsti dall’art. 25 anche nel caso in cui la clausola sia contenuta in condizioni generali di contratto. In questo caso, sarà necessario e sufficiente che nel contratto firmato dalle parti sia contenuto un richiamo espresso alle condizioni generali contenenti la clausola (cfr. ad es. Cass. Sez. Un. 6.4.2017 n.8895). Mentre, nel caso di condizioni generali di un contratto di vendita concluso elettronicamente, l’accettazione della clausola del foro (sempre in applicazione dei Regolamenti europei) potrà anche essere sufficientemente espressa mediante un “clic” (cfr. CGUE sentenza n.322 del 21.5.2015).
Anche applicando le norme interne di diritto internazionale privato (art. 4 L.218/95), quindi essenzialmente nei rapporti con parti di Paesi non UE (o SEE/EFTA), il requisito della “sottoscrizione specifica” per le clausole di giurisdizione è da escludersi, sia perché non previsto dall’art. 4, sia in via interpretativa (si veda Corte Costituzionale 18/10/2000, n. 428).
Ciò detto, però, non è stato ancora definitivamente chiarito se il requisito della “specifica approvazione” di cui all’art. 1341 del Codice Civile debba o meno applicarsi anche nei contratti internazionali (se regolati dal diritto italiano) per rendere efficaci le altre clausole considerate dalla norma come “vessatorie”, come ad esempio le clausole di limitazione/esclusione della responsabilità.
Pertanto, è ancora molto diffusa in Italia la prassi di redigere condizioni generali di contratto, anche per l’estero, prevedendo la seconda firma per approvazione specifica delle clausole vessatorie.
Tutto questo, in attesa di un’auspicata evoluzione della giurisprudenza italiana in un’ottica più moderna ed internazionale.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Con l’art. 15 della Legge 25 ottobre 2017, n. 163 (c.d. Legge di delegazione europea), il Governo italiano è stato incaricato di recepire la Direttiva (UE) 2016/943 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2016 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti.
Oltre al consueto adeguamento della normativa esistente, tra cui, in primis, al Codice della Proprietà intellettuale (c.p.i.), la legge delega impone al legislatore l’adozione di misure sanzionatorie penali e amministrative efficaci, proporzionate e dissuasive in caso di acquisizione, utilizzo o divulgazione illecita del know-how e delle informazioni commerciali riservate, in modo da garantire l’efficace adempimento degli obblighi previsti dalla direttiva stessa.
L’iter di approvazione della direttiva
L’iter che ha condotto all’emanazione della direttiva è durato oltre cinque anni ed i segreti commerciali erano uno dei pochi settori, insieme ai modelli di utilità, in cui mancava un intervento europeo volto all’armonizzazione della relativa protezione. Pur non raggiungendo completamente il suo scopo – trattandosi di una direttiva, infatti, l’intervento legislativo dei singoli Stati potrà prevedere un livello di protezione differente – si tratta comunque di un passo in avanti notevole, soprattutto se rapportato all’art. 39 dell’accordo TRIPS. Nonostante il suddetto accordo internazionale, infatti, non tutti gli Stati avevano adottato definizioni nazionali dei segreti commerciali o dell’acquisizione, utilizzo o divulgazione illeciti di un segreto commerciale e non vi era coerenza per quanto riguarda gli strumenti di tutela civili disponibili. Permaneva inoltre una disparità di trattamento per il terzo che aveva acquisito il segreto commerciale in buona fede ma veniva successivamente a conoscenza, al momento dell’utilizzo, che l’acquisizione faceva seguito ad una precedente acquisizione illecita da parte di un altro soggetto. In aggiunta a quanto sopra, le singole norme nazionali per il calcolo del risarcimento del danno non tengono sempre conto della natura immateriale dei segreti commerciali, rendendo difficile dimostrare il lucro cessante o l’ingiustificato arricchimento dell’autore della violazione.
Nel variegato panorama internazionale, tuttavia, l’Italia parte da una posizione di vantaggio poiché buona parte delle disposizioni della direttiva sono state recepite nei vari provvedimenti che hanno portato all’emanazione del Codice della proprietà intellettuale (D. Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) della c.d. direttiva Enforcement (2005/48/CE) e della recentissima emanazione della legge sul Whistleblowing (L. 30 novembre 2017, n. 179). Ad oggi la disciplina sostanziale è contenuta negli artt. 98 e 99 del c.p.i. e, per ciò che concerne i rimendi e il processo, negli artt. 120 e seguenti del Codice stesso.
In ogni caso, la presenza di una direttiva sulla materia ha il pregio di consentire, ai singoli giudici nazionali, il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE al fine di ottenere un intervento chiarificatore da parte della Corte di Giustizia ed invocare le relative pronunce delle Corti degli altri Stati come precedenti.
La definizione di segreto industriale
Venendo all’esame della direttiva, il primo capo concerne l’oggetto, l’ambito di applicazione e le definizioni. Tra queste ultime, la più importante è proprio quella che riguarda il segreto industriale definito come quelle informazioni che soddisfano tutti i seguenti requisiti:
- sono segrete nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione;
- hanno valore commerciale in quanto segrete;
- sono state sottoposte a misure ragionevoli, secondo le circostanze, da parte della persona al cui legittimo controllo sono soggette, a mantenerle segrete.
Rispetto all’attuale disciplina italiana, si rileva la differenza terminologica tra “valore commerciale” e “valore economico” ma tra i considerando si evidenzia che non è il valore di scambio il parametro di riferimento quanto, piuttosto, il vantaggio concorrenziale che può essere anche solo potenziale.
Emerge inoltre che la definizione di segreto commerciale non è tesa ad imporre restrizioni sull’oggetto da proteggere contro l’appropriazione illecita e, in ogni caso, ricomprende il know-how, le informazioni commerciali e le informazioni tecnologiche quando esiste un legittimo interesse a mantenere la riservatezza oppure una legittima aspettativa circa la tutela di tale riservatezza.
Peraltro, dalla suddetta definizione vanno esclusi le informazioni trascurabili, l’esperienza e le competenze acquisite dai dipendenti nel normale svolgimento del loro lavoro, nonché le informazioni che sono generalmente note o facilmente accessibili alle persone all’interno delle cerchie che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione.
Le attività lecite e illecite
Il secondo Capo della direttiva distingue le circostanze in cui l’acquisizione, utilizzo e la divulgazione dei segreti commerciali può ritenersi lecito od illecito e vengono individuate delle ipotesi eccezionali in cui non si applicano le misure previste per la tutela del segreto commerciale.
Tra le attività considerate lecite rientrano:
- a) la scoperta o la creazione indipendente;
- b) il c.d. reverse engineering, definito come osservazione, studio, smontaggio o prova di un prodotto o di un oggetto messo a disposizione del pubblico o lecitamente in possesso del soggetto che acquisisce le informazioni ed è libero da qualsiasi obbligo giuridicamente valido di imporre restrizioni all’acquisizione del segreto commerciale;
- c) esercizio del diritto all’informazione e alla consultazione da parte di lavoratori o rappresentanti dei lavoratori, in conformità del diritto e delle prassi sia dell’Unione Europea che delle singole nazioni;
- d) qualsiasi altra pratica che, secondo le circostanze, è conforme a leali pratiche commerciali.
Sul punto, le indicazioni della direttiva sono sicuramente più dettagliate rispetto a quanto previsto dall’art. 99 c.p.i. il quale si limita ad escludere dalla tutela le informazioni acquisite in modo indipendente da un terzo.
La medesima conclusione emerge dal raffronto tra la disciplina italiana e quella comunitaria in merito alle condotte illecite: la prima, infatti, si limita a sancire un generico divieto di acquisizione, rivelazione a terzi o utilizzo abusivo delle informazioni; viceversa, secondo la direttiva, l’acquisizione di un segreto commerciale senza il consenso del detentore è da considerarsi illecita qualora compiuta con l’accesso non autorizzato, l’appropriazione o la copia non autorizzata di documenti, oggetti, materiali, sostanze o file elettronici sottoposti al lecito controllo del detentore del segreto commerciale, che contengono il segreto commerciale o dai quali il segreto commerciale può essere desunto, oppure, con qualsiasi altra condotta che, secondo le circostanze, è considerata contraria a leali pratiche commerciali. L’utilizzo o la divulgazione, invece, saranno illeciti se posti in essere senza il consenso del detentore del segreto commerciale da una persona abbia acquisito il segreto commerciale illecitamente, se in violazione un accordo di riservatezza o qualsiasi altro obbligo di non divulgare il segreto commerciale oppure di un obbligo contrattuale o di altra natura che impone limiti all’utilizzo del segreto commerciale.
Parimenti illecito sarà il caso in cui il soggetto che utilizzi il segreto sia a conoscenza che quest’ultimo era stato ottenuto direttamente o indirettamente da un terzo che a sua volta lo utilizzava o lo divulgava illecitamente.
Da ultimo, anche la produzione, l’offerta, la commercializzazione l’importazione, l’esportazione o lo stoccaggio di merci costituenti violazione saranno illeciti.
Tra le eccezioni viene compreso, invece, il fenomeno del whistleblowing ovverosia il caso in cui l’acquisizione, l’utilizzo o la divulgazione del segreto commerciale siano avvenuti al fine di rivelare una condotta scorretta, un’irregolarità o un’attività illegale allo scopo di proteggere l’interesse pubblico generale.
Altre ipotesi riguardano la divulgazione dei lavoratori ai loro rappresentanti nell’ambito del legittimo esercizio delle funzioni di questi ultimi e la tutela di un legittimo interesse riconosciuto dal diritto dell’Unione o dal diritto nazionale.
Anche l’esercizio dei diritti alla libertà di espressione e di informazione, ai sensi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, costituisce un’eccezione. Peraltro, al di là dell’ampio respiro della disposizione, sarà difficile bilanciare, in concreto, gli interessi sopra richiamati con la legittima tutela del segreto stesso.
Le misure per garantire la riservatezza dei segreti nei processi
Nel dare atto, tra i considerando, che spesso il rischio di compromettere la riservatezza di un segreto commerciale nel corso di un procedimento giudiziario costituisce un deterrente, per il titolare, dall’instaurare procedimenti volti alla relativa tutela, la direttiva prevede, al Capo terzo, che gli Stati assicurino la segretezza delle informazioni attraverso l’adozione di misure che contemplino quanto meno la possibilità di:
– restringere l’accesso a qualunque documento contenente un segreto commerciale;
– limitare l’accesso alle udienze ad un numero limitato di persone;
– rendere disponibili le decisioni giudiziarie in una versione non riservata, nella quale i punti contenenti segreti commerciali siano stati oscurati.
Peraltro, quanto meno in Italia, le vigenti norme procedurali già garantiscono il rispetto delle misure sopra indicate.
Inoltre, sia per quanto concerne i procedimenti cautelari che i giudizi di merito, la direttiva individua le misure che, su richiesta del detentore del segreto, le competenti autorità giudiziarie possano emanare nei confronti del presunto autore della violazione: si va dalla cessazione/divieto di utilizzo o divulgazione del segreto commerciale, passando per il divieto di produzione/ importazione/esportazione di merci costituenti violazione, sino al sequestro e distruzione delle merci costituenti la violazione.
Tra le circostanze che, caso per caso, dovranno essere tenute in considerazione per l’ottenimento delle misure richieste, la direttiva enuncia: il valore o le altre caratteristiche specifiche del segreto commerciale, le misure adottate per proteggere il segreto commerciale, la condotta del convenuto nell’acquisire, utilizzare o divulgare il segreto commerciale, l’impatto dell’utilizzo o della divulgazione illeciti del segreto commerciale, i legittimi interessi delle parti e l’impatto che l’accoglimento o il rigetto delle misure potrebbe avere per le parti, i legittimi interessi di terzi, l’interesse pubblico e la tutela dei diritti fondamentali. Le suddette misure, inoltre, potranno essere subordinate alla concessione di una cauzione adeguata.
Il risarcimento del danno
Oltre a quanto sopra, il provvedimento delinea gli elementi che debbono essere tenuti in considerazione per la determinazione del risarcimento del danno subìto. L’autorità giudiziaria dovrà valutare le conseguenze economiche negative, compreso il lucro cessante subìto dalla parte lesa, i profitti realizzati illecitamente dall’autore della violazione e, ove opportuno, elementi diversi dai fattori economici, quale ad esempio il pregiudizio morale causato al detentore del segreto commerciale dall’acquisizione, dall’utilizzo o dalla divulgazione illeciti del segreto commerciale. La norma prevede inoltre che, in alternativa a quanto sopra, il risarcimento possa essere determinato in via forfettaria, basandosi sull’importo che l’autore della violazione avrebbe dovuto corrispondere al titolare se gli avesse richiesto l’autorizzazione ad utilizzare il segreto stesso.
Nel recepire la direttiva, gli Stati potranno inoltre limitare la responsabilità dei dipendenti in caso di danni causati involontariamente.
Nel bilanciamento degli interessi convolti, la direttiva prevede anche il risarcimento dell’eventuale danno subìto da colui che è stato soggetto alle misure sopra richiamate nel caso in cui queste si estingano per fatto imputabile all’attore oppure se sia stato successivamente accertato che non vi sono stati acquisizione, utilizzo o divulgazione illeciti del segreto commerciale né la relativa minaccia.
I rimedi proposti dalla direttiva andranno quindi ad integrarsi, quanto meno per quanto riguarda i segreti commerciali, con quanto già previsto dal codice sulla proprietà intellettuale italiano: il diritto di informazione, la discovery e l’ordine di ritiro dal commercio contro intermediari.
La prescrizione
Importante novità riguarda infine la prescrizione: in base alla direttiva, gli Stati dovranno disciplinare la decorrenza iniziale del termine, le cause di sospensione o interruzione dei diritti e delle azioni per chiedere l’applicazione delle misure di tutela previste. Tale durata, inoltre, non potrà superare i sei anni.
A differenza di altri diritti di proprietà intellettuale, la protezione dei segreti commerciali non è limitata nel tempo – benché il valore di alcune informazioni possa senz’altro diminuire sensibilmente negli anni – come avviene, ad esempio, in caso di brevetto; a differenza di quest’ultimo, inoltre, non ci sono procedure ufficiali o costi diretti (quali tasse di registro o di rinnovo) per ottenere la protezione.
Ciò non di meno, la tutela sarà ipotizzabile solo nel caso in cui i requisiti richiesti dalla definizione di segreto commerciale siano tutti presenti.
A tal fine è fondamentale che le imprese valutino con cautela le misure di protezione interne, in modo da garantire la segretezza dell’informazione.
Particolare attenzione richiederà la revisione dei contratti in essere, sia con i terzi che con i dipendenti, nonché l’aggiornamento delle procedure interne anche in relazione ai rischi che l’utilizzo degli odierni strumenti elettronici comportano, in modo da preservare livelli di protezione adeguati.
L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.
L’ambito di applicazione del regolamento generale sulla protezione dei dati (“GDPR”), con entrata in vigore a decorrere dal 25 maggio 2018, indurrà le aziende a misurarsi – senza possibilità di ulteriori esitazioni – con questioni concernenti la sicurezza informatica e la responsabilità nella raccolta e archiviazione di dati personali. La tutela della privacy diverrà parte integrante della cultura aziendale e dovrà essere governata a partire dai livelli più alti, ossia dall’amministratore delegato e dal management. Gli stessi dipendenti saranno coinvolti in questo processo di sensibilizzazione attraverso la pianificazione di un’adeguata formazione in materia. Le aziende dovranno ristabilire l’ordine e la priorità di alcuni processi che contemplano la presenza di dati secondo i principi di privacy by design e privacy by default. In sostanza, esse dovranno garantire la protezione dei dati fin dalla fase di ideazione e progettazione del prodotto o del servizio, adottando comportamenti che consentano di prevenire possibili problematiche impattanti sui dati personali.
Una definizione di dato personale sempre più ampia
Il concetto di “dati personali” si riferisce a tutte le informazioni che identificano o rendono identificabile una persona fisica e che possono fornire dettagli sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, lo stile di vita, le relazioni personali, lo stato di salute e la condizione economica. Le nuove tecnologie hanno inoltre assegnato un ruolo significativo ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche e a quelli che contengono la geolocalizzazione, rendendo sempre più ampia e articolata la definizione di “dato personale”.
Questa transizione, non certo priva di criticità, introduce nuove sfide e opportunità, ponendo al centro del dibattito internazionale e delle politiche digitali la questione della protezione dei dati come fondamentale tutela dei diritti dell’uomo. È un punto di svolta significativo. La digitalizzazione ha infatti generato una serie di questioni relative alla sicurezza informatica che alcuni anni fa potevano essere gestite dalle autorità nazionali in ogni Paese dell’UE e che ora esigono un quadro legislativo più attento e articolato. L’ introduzione di piattaforme come SaaS (Software as a Service) e l’espansione del cloud computing hanno modificato radicalmente lo scenario.
Pertanto, nel 2011 il GEPD (Garante europeo della protezione dei dati) ha accolto con favore l’istanza di riformare l’ambito giuridico della protezione dei dati personali, non risultando più idonea la legislazione vigente.
Benché sia ancora prematuro tratteggiare il quadro dell’impatto complessivo che il regolamento sulla privacy avrà, ci pare interessante e opportuno soffermarci su alcune considerazioni di ordine generale e su alcuni esiti del GDPR nello scenario internazionale.
L’applicabilità potenzialmente mondiale del GDPR
Una delle grandi novità del GDPR è certamente la sua applicabilità potenzialmente mondiale: il regolamento varca dunque i confini europei in nome della tutela del dato personale.
Esso infatti si applica non solo in tutti i casi di trattamento di dati da parte di aziende stabilite nell’Unione Europea, ma anche in tutti i casi in cui l’azienda, anche se stabilita in Paesi extra UE, tratti dati personali di soggetti che si trovano nell’Unione, al fine di offrire loro beni o servizi ovvero di monitorare il loro comportamento nell’ambito dell’Unione Europea.
Pertanto, alla luce di ciò, tutte le società estere che vorranno continuare a proporre e rendere le loro prestazioni ai cittadini europei non potranno esimersi dal conformarsi al GDPR.
Ragioni di opportunità e convenienza, oltre che di obbligatorietà alle condizioni di cui sopra e comunque fintantoché non sarà compiuta la Brexit, potranno portare anche le organizzazioni britanniche ad adeguarsi per proteggere i dati personali dei cittadini britannici ed essere competitive nel mercato europeo.
L’irrilevanza dell’ubicazione dei dati
Il regolamento non solo vincola le società estere che trattino dati personali di cittadini dell’Unione, ma mira anche a disciplinare tutti i trattamenti di dati personali, a prescindere da dove i dati personali si trovino. Si prevede infatti che siano soggetti al GDPR tutti i trattamenti di dati effettuati da aziende stabilite dell’Unione, indipendentemente dal fatto che il trattamento sia effettuato o meno nell’Unione.
I dati saranno quindi al centro dell’attenzione legale e soggetti a questo nuovo regolamento anziché alle leggi di un Paese. Ciò significa che l’ubicazione fisica perde rilevanza dinanzi al fine di garantire agli interessati un maggior controllo sulle informazioni che vengono raccolte, archiviate e utilizzate da altri.
Certo rimarrà aperta la possibilità per un’azienda di decidere di cessare le proprie attività con i cittadini dell’UE per evitare l’adeguamento ai principi del GDPR, ma tale scelta dovrà essere assunta correttamente: se, per esempio, si fornisce un servizio che, attraverso il web, può essere fruito anche da cittadini dell’UE, si dovrà prendere in considerazione l’applicazione del GDPR.
La previsione di severe sanzioni
Le sanzioni verso le società riluttanti all’adeguamento normativo possono giungere sino al 4% del loro fatturato mondiale e fino a 20 milioni di euro. La rilevanza di queste misure sanzionatorie ha destato l’attenzione di tutte le parti, in particolare delle organizzazioni statunitensi, che hanno una forte presenza nell’UE. Il GDPR, peraltro, si applica alle organizzazioni di tutte le dimensioni, sia che si tratti di uno studio individuale sia di una grande società.
Dal momento che raggiungere la conformità risulta complesso e rispettare la scadenza del 25 maggio potrebbe essere difficile, le società lungimiranti hanno iniziato ad avviare i loro programmi di conformità subito dopo l’annuncio del regolamento UE.
Secondo i dati di PwC, il 9% delle aziende statunitensi dichiara di aver assegnato oltre 10 milioni di dollari per ottenere la conformità.
Alcuni requisiti di conformità per le imprese
- Principio di accountability: si dovrà garantire che il trattamento dei dati passi attraverso procedure documentate, indipendentemente dal fatto che sia l’azienda a condurre tali procedure o che queste vengano eseguite per conto dell’azienda. Il titolare del trattamento viene così responsabilizzato e dovrà dimostrare di essere compliant con il GDPR.
- Risk based approach: alla base del regolamento europeo v’è, appunto, la responsabilizzazione delle società, cui viene richiesto di essere in linea con i principi del GDPR sulla scorta di un nuovo approccio basato sul rischio e sull’analisi dei rischi.
- Consenso chiaro ed esplicito: grande attenzione viene dedicata al tema del consenso al trattamento dei dati personali, che dovrà essere chiaro, esplicito, distinguibile ed inequivocabile.
- Data protection by design e by default: gestione e implementazione della privacy fin dalla progettazione e con impostazioni di default; ciò significa che le imprese dovranno prendere in considerazione la tutela dei dati personali sin dal momento della progettazione e dello sviluppo pratico di un prodotto, un servizio o un’applicazione.
- Diritto all’oblio: i soggetti interessati hanno il diritto di ottenere, senza ritardo, dal titolare del trattamento la cancellazione dei loro dati personali alle condizioni previste dal GDPR, quali ad esempio la superfluità, e non più necessità, dei dati rispetto alle finalità per cui sono stati raccolti ovvero la revoca del consenso da parte del soggetto interessato.
- Diritto alla portabilità dei dati: i soggetti interessati hanno il diritto di ricevere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico, i loro dati personali, potendoli così trasmettere ad un altro titolare del trattamento senza impedimento alcuno da parte del precedente titolare.
- Designazione di un Rappresentante nell’Unione Europea: il Rappresentante dovrà agire per conto del titolare o del responsabile del trattamento e potrà essere interpellato da qualsiasi Autorità di vigilanza.
Come facilitare il processo di transizione?
Il regolamento UE in tema di protezione dei dati personali richiede una solida preparazione giuridica e, al contempo, una grande capacità di implementazione tecnica sulla base dei processi di digitalizzazione in atto e l’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate e complesse.
Le aziende, pertanto, potranno affidarsi a professionisti in grado di fornire una consulenza multidisciplinare, che contempli non solo le adeguate competenze in ambito giuridico ed informatico, ma anche il dialogo e le sinergie tra professionisti e figure aziendali quali giuristi, informatici, ingegneri e matematici.
Il GDPR diventa pertanto non solo un faticoso adempimento, ma anche l’occasione per avviare nelle aziende un processo di transizione, in cui l’unione delle predette skills si configura come la ricetta in grado di garantire la crescita, oltre che l’osservanza della normativa.
L’autore di questo post è Giorgio Piccolotto.
The fourth Industrial Revolution, currently experienced by global economy, displays a melting-pot of a wide range of new technologies combined one another, impacting on every aspect of economy, industry and society by progressively blurring the borders of the physical, digital and biological spheres.
The growth of robotics, of artificial and virtual intelligence, of connectivity among objects and of the latter with humans, is contributing to strengthening the virtual side of economy, made of its intangible assets. Even trade is tending more and more towards a trade of intellectual property rights rather than trade of physical objects.
In such a scenario, protection of intellectual property is becoming increasingly important: the value of innovation embedded in any product is likely to increase as compared to the value of the physical object itself. In other words, protection of intellectual property could significantly affect economic growth and trade and shall necessarily go forward as the economy becomes more and more virtual.
Future growth of the 4.0 economy depends on maintaining policies that, on one hand allow connectivity among millions of objects and, on the other, provide for strong patent protection mechanisms, thus, encouraging large and risky investments in technology innovation.
Are SMEs, which represent the beating heart of the Italian economy, ready for all this? Has Italy adopted any policy aimed at boosting innovation and the relevant protection for SMEs?
After more than four years since the launch of the Startup Act (Decree Law No 179 of 18 October 2012), Italian legislation confirms being among the most internationally advanced programs for innovative business support strategies. If we look at the Start Up Manifesto Policy Tracker Startup Manifesto Policy Tracker (a manifesto for entrepreneurship and innovation to power growth in the European Union), published in March 2016, Italy is in second place among the 28 EU Member States, in terms of the take up rate of recommendations made by the European Commission on the innovative entrepreneurship issue.
The Annual Report to Parliament on the implementation of legislation in support of innovative startups and SMEs (Edition 2016) confirms the results of the Startup Manifesto Policy Tracker: Italian ecosystem has grown in terms of number of startups recorded (+41% on the previous year), of human resources involved (+47,5%), of average value of production (+33%) and, finally, of funding raising (+128%, considering access to credit via the SME Guarantee Fund).
This growth is the outcome of both the inventiveness and the attention to innovation that have always characterized Italian entrepreneurs as well as of the progress made by Italian legislation over the past years: changes were introduced in order to boost the national system for business startups and, in some cases, to promote innovative entrepreneurship as a whole.
Adopted measures include, for example: the implementing Ministerial decrees on tax credits for R&D investments; the ITA Service Card for innovative SMEs, the multimedia, bilingual online platform #ItalyFrontiers (the aim of which is to promote capital investment and encourage open innovation projects involving innovative Italian businesses); Italia Startup Visa and Italia Startup Hub (the renewal, under the 2016 Decree on Immigration Flows, of a preferential procedure for the granting of visas and the conversion of permits to stay for self-employed for non-EU citizens wanting to move to Italy or remain there to start up an innovative enterprise); the launch of a new simplified online company incorporation procedure that enables innovative startups to be opened as limited liability companies, granting significant time and cost reductions; the extension (until 2016) and the reinforcement of fiscal incentives available for investment in innovative startups; finally, the extension of the free, simplified access to the Guarantee Fund to include innovative SMEs in order to make it easier for them to obtain credit.
The importance of Intellectual Property in the modern economy
A national policy that has a target of incentivizing the use of Intellectual Property is a policy that will have beneficial effects on the entire national (and international) economy.
Proof of this, are the results of the studies carried out by the European Observatory on Infringements of Intellectual Property Rights and the European Patent Office (EPO) on the contribution of intellectual property rights (IPR) on the EU economy.
The study analyzed the effects of intellectual property on the EU in terms of gross domestic production, occupation, wages and trade. Here are some of the most interesting data:
– 42% of the total economic activity in the EU (approximately EUR 5.7 trillion) and 38% of occupation (approximately 82 million workplaces) is attributable to IPR-intensive industries;
– IPR-intensive industries pay significantly higher wages than other industries, with a wage premium of 46%;
– IPR-intensive industries tend to be more resilient against the economic crisis;
– IPR-intensive industries account for about 90% of EU trade with the rest of the world, generating a trade surplus for the EU of EUR 96 billion;
– about 40% of large companies own IPRs.
The data gathered by this study should raise social and political awareness as to the importance of stimulating not only large companies, SMEs and startups in general, but also those, which use intellectual property.
The innovation criteria
An interesting measure that is showing good results in relation to the dissemination of IPR companies in Italy is the introduction, thanks to the Startup Act, of the concept of innovative startup.
The Startup Act provides facilitating measures (e.g.: incorporation and following statutory modifications by means of a standard model with digital signature, cuts to red tape and fees, flexible corporate management, extension of terms for covering losses, exemption from regulations on dummy companies, exemption from the duty to affix the compliance visa for compensation of VAT credit) applicable to companies which have, as well as other requirements, at least one of the following requirements:
– at least 15% of the company’s expenses can be attributed to R&D activities;
– at least 1/3 of the total workforce are PhD students, the holders of a PhD or researchers; or, alternatively, 2/3 of the total workforce must hold a Master’s degree;
– the enterprise is the holder, depositary or licensee of a registered patent (industrial property), or the owner and author of a registered software.
The Startup Act is still having positive effects on the startups demographic trends. As a matter of fact, during the first six months of 2016 there has been a growth rate of 15,5% in the number of registered companies.
The success of the Startup Act brought the Italian legislator to extend with the Investment Compact (Decree Law No 3 of 24 January 2015) most of the benefits provided for innovative startups also to innovative SMEs.
By the Investment Compact the Italian Government recognized that innovative startups and innovative SMEs represent two sequential stages of the same continuous and coherent growth path. In a context as the Italian one, dominated by SMEs, it is fundamental to strengthen this kind of enterprises.
The measures in question apply only to SMEs, as defined by the European Commission Recommendation 361/2003 (companies with less than 250 employees and with a total turnover that does not exceed € 43 million), which have, as well as other requirements, at least two of the following requirements:
– at least 3% of either the company’s expenses or its turnover (the largest value is considered) can be attributed to R&D activities;
– at least 1/5 of the total workforce are PhD students, PhD holders or researchers; alternatively, 1/3 of the total workforce must hold a Master’s degree;
– the enterprise is the holder, depositary or licensee of a registered patent (industrial property) or the owner of a program for original registered computers.
Unfortunately to this day the Investment Compact has not produced the expected results: on one hand, there is a problem connected to the not well-defined concept of “innovative SMEs”, differently from what happened with startups; on the other hand, there are structural shortcomings in the communication of government incentives: these communication issues are particularly significant if we consider that the policy on innovative SMEs is a series of self-selecting, non-automatic incentives.
Patent Box
Another important measure related to the IP exploitation is the Patent Box, the optional tax rule applicable to income derived from the exploitation of intellectual property rights.
The Patent Box rules were introduced by the 2015 Stability Act and give to businesses, from 2015 onwards, the option of tax-exempting up to 50% of the income derived from the commercial exploitation of software protected by copyright, industrial patents for inventions, utility models and complementary protection certificates, designs, models, company information and technical/industrial know-how, provided that they can be protected as secret information according to the Italian Code of Industrial Property: meaning patented intangibles or assets that have been registered and are awaiting a patent.
Originally, also the exploitation of trademarks allowed entrepreneurs to choose the Patent Box optional tax rule, but a very recent Decree erased that provision by excluding trademarks from the Patent Box regime. This exclusion has just been introduced in order to align the Italian Patent Box to the prescriptions of the Organization for Economy Co-operation and Development (OECD).
Said policy has a dual purpose: on one hand, it seeks to encourage Italian entrepreneurs to develop, protect and use intellectual property; on the other hand, it intends to make the Italian market more attractive for national and foreign long-term investment, while protecting the Italian tax base. The incentive encourages the placement, and preservation in Italy, of intangibles that are currently held abroad by Italian or foreign companies and also fosters investments in R&D.
The Patent Box is certainly of great importance for Italian economy and has relevant merits, but it can be further improved. During the convention held on the 8th of May 2017 in Milan entitled “Fiscal levers for business development: the patent box example”, organized by Indicam, the institute for fight against counterfeiting established by Centromarca, it was highlighted that one aspect to improve is that of the Patent Box’s appeal to SMEs: there is a need for this policy, which was thought mainly for large companies, to be really effective. One solution, proposed by the Vice-Minister of Finance and Economy Luigi Casero, guest of the convention, is to «introduce some statistical clusters, a kind of sector studies, an intervention of analysis and evaluation of the fiscal indicators of a specific type of company».
UPC
The last matter that deserves to be mentioned is that of the Unified Patent Court: Italy has ratified the United Patent Court Agreement on the 10th of February 2017.
As it is known, in order to start its operations the Unified Patent Court needs the ratification also of United Kingdom. Moreover, one of UPC central division should be located in London in addition to the ones in Paris, Munich. After Brexit this maintaining of the London Court appears inappropriate both under a juridical and an EU opportunistic point of view.
As provided for the UPC Convention a section of the central division should be in Italy because it is the fourth EU member state (after France, Germany and the UK) as to the number of validated European patents in its territory: the London Court should be therefore relocated to Milan.
Moreover Italy is one of the main countries in the EU applying for not only European patents but also trademarks and designs (and so contributes substantial fees) yet it does not host any European IP institutions.
An Italian section of the UPC would certainly bring a higher awareness, also of smaller enterprises, in relation to the importance of IP protection.
Conclusion
A disruptive and unprecedented transformation is taking place, involving industry, economy and society, with its main whose main driver being the relentless ascent of its intangible component.
What we have to do, as a society, is follow this transformation by changing our way of thinking and working, abandoning the old paradigms of the analogic era.
Policy measures as the Startup Act, the Investment Compact and the Patent Box are surely important initial steps that are bringing certain positive effects, but they are not enough and they have not yet achieved the maximum results.
As pointed out by the #StartupSurvey, the first national statistical survey of innovative startups, launched by the Italian National Institute of Statistics and the Ministry of Economic Development (the data were gathered by a mass mailing to all the innovative startups listed in the special section on 31 December 2015), the majority of Italian startups and SMEs (52,3%) have not adopted any formal mechanism, as the ownership of an industrial patent, to protect their innovation. Only 16,1% of the respondents owned a patent and only 11,8% owned a registered software.
Among the reasons that bring startups to not adopt protection mechanisms, the majority of the entrepreneurs (48,4%) claimed to be convinced that the innovation of their enterprise could not be taken away by third parties. On the other hand, a considerable number (25,5%) said that they were not aware of the necessary strategies.
The data gathered by the survey confirm that there is a communication and information issue, as noted in the paragraph above, to be solved.
An interesting initiative relating to this problem is the new questionnaire realized by the Head Office for the fight against counterfeiting of the Ministry of Economic Development. This new and free service has been conceived, in particular, for startups and SMEs, allowing them to carry out an online self-assessment in relation to intellectual property.
The aim of the questionnaire is to make the enterprises aware of their intellectual property range and to direct them towards the adoption of appropriate strategies for the valorization of their intangible assets.
The Italian legislator has enacted law 19.10.2017 n. 155 “Law. n. 155” or “the Reform”; through the said piece of legislation, the Italian government is entitled to adopt a series of legislative decrees (the decrees should be enacted very soon) aimed, on the one hand, at reforming substantially the Royal Decree n. 267/1942 “Bankruptcy Law”, on the other side, at amending accordingly the so called procedure of “over-indebtedness”.
It is interesting to note that art.1 of the Law n. 155 mandates that the Italian legislator, while adopting the said decrees, takes into account the EU regulation 2015/848, EU Commission recommendation n. 2014/135/EU and, most importantly, the UNCITRAL principles and guidelines.
Art. 2 sets forth some fundamental principles that as well must be followed by the Italian legislator.
First of all, the term “bankruptcy” i.e. Fallimento shall be replaced by the notion of judicial liquidation, in this respect, the criminal rules regarding bankruptcy shall be amended consequently. The so called ex officio (i.e. on Court’s initiative) bankruptcy declaration as provided by article 3 of Legislative decree n. 270/1999 (the law governing the so-called extraordinary administration) shall be repealed. The notion of state of crisis (a relative new notion) shall be properly defined as probable insolvency in the future. The definition shall be shaped taking into account the scientific development in the field of the business and administration science. Nonetheless, the definition of insolvency encompassed at art. 5 of Bankruptcy law shall remain the same.
Art. 2 further dictates that in order to ascertain the debtor’s state of crisis or insolvency a unique model procedure shall be adopted pursuant to article 15 of the Bankruptcy Law. The procedure shall be characterized by speediness, even in the ensuing phase of opposition. Legal standing in order to file a petition for bankruptcy shall be bestowed upon the supervising bodies of the business entity and upon the public prosecutor. The latter shall have the right to file a petition whenever he is aware of a state of crisis affecting the business entity.
The proceedings aimed at ascertaining the state of crisis and or insolvency shall concern every category of debtor. Therefore legal entities and individuals alike shall be subject to the procedure that shall regards: commercial business entities, agribusinesses, artisans, entrepreneurs, consumers, professionals, collective entities with the exception of public entities.
Moreover, the Reform shall adopt the notion of center of main interests (“COMI”) as developed within the framework of EU law and case law.
Preeminence and priority shall be given to the restructuring proceedings whereby the ongoing concern of the business is safeguarded in view of the creditors’ satisfaction. In this latter case, the convenience of the rescue plan needs to be properly illustrated. Liquidation, by contrast, is reserved to those cases where no viable alternative is possible. Abuses in any event should be prevented.
Art. 2 also specifies that the Italian Legislator has to coordinate the new rules with the provisions governing the automated process and those regarding the service process to the certified electronic e-mail couriers which shall be applicable to professionals as well.
One of the main goals of the Reform is to reduce the time and the costs associated to the activities to be performed in the proceedings. In particular, the fees of the professionals involved in the proceedings should be kept under control in order to increment the amount of money to be distributed in favor of the creditors.
Another objective of the Reform is to reframe those provisos whose interpretation has generated a contrast amongst the professionals, the scholars and the courts, in order to favor a construction of the rules consistent with the principles and the purposes established by the Reform.
Likewise, for sake of uniformity and consistency, the Reform backs a process of high-level specialization amongst Courts and professionals involved in the procedures. In order to achieve those goals the Reform moves into different directions.
In this respect, the Courts specialized in enterprise matters shall have jurisdiction over the proceedings and all the deriving litigations regarding enterprises subject to the Extraordinary Administration and large group of companies. On the other hand, the competence for the proceedings regarding the consumers, professionals and minor entrepreneurs shall remain unaltered while for the other procedures shall be competent those Courts that shall meet certain requirements in terms of: (i) the number of professional judges involved in the bankruptcy field; (ii) the number of proceedings that have been dealt with in the last five years; (iii) the number of proceedings that have been completed in the last five years; (iv) the average duration of the proceedings during the last five years; (v) the ratio between the requirements above mentioned and the national average; (vi) the number of business entities registered within the competent records together (vii) with the number of the resident population within the relevant territory of the Court.
Moreover, a list of professionals having the requisites of competence, independence and experience o be appointed as administrator, receivers or commissioners shall be kept by the Ministry of Justice.
Last but not least, the insolvency proceedings shall be harmonized with The European Social Charter for the protection of the employment.
Convertible notes, SAFE Agreements, participative financial instruments: the growing interest in start-up investing has led to a progressive differentiation both in investment strategies and, as a consequence, in legal/contractual instruments so to best suit the investors’ needs.
The introduction of these tools, specific to foreign ecosystems such as the Silicon Valley, and the difficulties in sourcing sufficient capitals to back the development of start-up companies, in particular with regard to the early/seed stage, has encouraged several players to opt for instruments alternative to equity investment, either developed “nationally” or under common law systems.
This mind-set has many positive side effects since it opened up the capital raising landscape that now includes venture capital funds, business angels networks, family offices and even club deals composed of small investors willing to buy into start-ups (mostly over the incubation/acceleration stage) with an injection of capital for a relatively small amount of shares.
In Italy, this trend towards non-equity or demi-equity instruments had two major results: it contributed to dust off legal instruments first introduced by the latest comprehensive reform of the Italian company law in 2004 (e.g. participative financial instruments – in Italian: Strumenti Finanziari di Partecipazione or SFP – art. 2346, par. 6 of the Italian Civil Code); and it fostered the creation of new contractual models plainly inspired by well-known instruments used in the Silicon Valley. That is the case of Convertible Notes and SAFE Agreements (Simple Agreement for Future Equity).
These instruments, together with the SFPs, have a trait in common: they all require a cash investment which is meant to be converted to equity at a specific milestone or on a pre-set date. On the other hand, none of them entails the possibility for an investor to hold a participation as a shareholder (at least not straightaway). Investors become stakeholders instead and they may hold as many administrative/patrimonial rights as they manage to negotiate with the company or with the founders themselves as well as depending on the specific contractual instrument they selected. It is important to point out that profits distribution rights are not included among those subject to negotiation since innovative start-ups (namely early-stage companies that meet certain criteria set by the law: i.e. high level technology of the company’s scope, R&D expenditure or number of graduates employed, etc.) are prevented from distributing profits for the first five years according the pertaining Italian regulation (see art. 25, par. 2 of the D.L. 179/2012).
Convertible Note and SFP
Starting off with convertible notes: these instruments are extremely flexible and mainly used by club deals and family offices. They are structured as a hybrid between convertible obligations and traditional loans. Investors in facts lend money to a start-up on a specific interest rate and according to a contract where the parties have previously set out terms and conditions that would preside over their relationship. The investment is classified as a liability of the company to third parties and, more specifically, as a long term liability.
The parties set two different dates, one for the conversion of the credit to equity and another one for the possible payback (in case the conversion has not been exercised). Sometimes the parties decide to leave the payback aside and set directly the date of the conversion to equity thus transforming the instrument from a demi-loan to an option on a prospective capital increase, where the money invested in the company would be considered as the price of the option; or even an obligation that can be converted to shares, an hypothesis admitted by eminent scholars not only for corporations, but also for limited liability companies.
The conversion date is usually set before the reimbursements, for the latter is meant as the last resort in the event the capital increase has not been approved by the company and provided that the parties had previously agreed upon such possibility. Furthermore, the reimbursement might be considered as a consequence of certain events, in particular when there is a payback request for cause or when a party violates any of the representations and warranties set out in the contract. In order to avoid unpleasant surprises, it is “customary” to provide for a future capital increase specifically dedicated to the investor – as well as an obligation for the investor to convert his loan – directly in the contract. The parties are free to determine whether the conversion should take place on a certain date or subject to the company meeting specific milestones such as: turnover goals, the achievement of specific results both economically and with reference to the development of its tangible/intangible technological assets (for instance, the development of software or the patenting of an invention). The actual conversion may take place at once or in instalments through a resolution of the shareholders to schedule the capital increase in two or more tranches. The convertible note must provide for a price per share for the conversion based on the so-called pre-money valuation; it is quite usual to set also a conversion discount, that is a price per share lower than the per share price paid by other investors in that round.
SAFE Agreement
The SAFE Agreement – developed and used by the world-renowned California-based incubator “Y Combinator” – is neither a debt instrument, unlike convertible notes, nor an equity one since it does not give its holder the right to profit sharing or the right to vote as a shareholder. It is rather a financial instrument that incorporates a prospective right to buy out preferred shares.
Although SAFE Agreements do not have an Italian counterpart, SFPs may look alike when they are “designed” as semi-equity participative instrument (without payback) and used to collect capitals to be allocated in a specific equity reserve, which should be used only to cover the company’s operating losses and be considered otherwise unavailable. However, the extent of this unavailability is still a matter of debate among scholars and the possibility for the parties to a SFP agreement to determine that the reserve at issue might only be used upon depletion of the others (legal reserve fund included) is not undisputed as well. In one of the latest ruling on the matter, the judge has indeed opted for the availability of the reserve created upon issuance of the SFPs on account of its statutory nature, stating that it can therefore be depleted before legal reserve fund and equity (Court of Naples, 25/2/2016). This is basically the main reason why SAFE agreements cannot be implemented tout court in Italy.
In any case, the Italian Civil Code allows the possibility to design the SFPs so as to meet specific requirements since they are essentially “empty boxes” that can be filled by the parties based on the needs of either the issuing start-up company and/or the investors willing to fund it. In fact, the law only sets two guidelines: i) it excludes that the SFP could grant its holder the right to vote as a shareholder; ii) it establishes that these instruments can be endowed with patrimonial or even administrative rights. The possibility for a company to issue SFPs must be specified in the articles of association/bylaws, which refers to a future extraordinary meeting of the shareholders for the adoption of the pertaining regulation, which will also set out the functioning rules of the special assembly dedicated to the holders of SFPs.
Turning to the SAFE Agreement, the American model sets a conversion price that cannot exceed a certain cap, according to which the company assigns shares on a capital increase (i.e. SAFE preferred) with privileged rights and with restrictions closely similar to those typical of standard “preferred shares”. Furthermore, it also sets a discounted conversation price which, in the US experience, is in the range of 15-20%, while there no provision as to a future deadline for paying the investment back.
Nothing prohibits to adapt the regulation of the SFPs to the best practice resulted from the implementation of the SAFE Agreement in the US. That is the case of the “acceleration” clauses that allow the investor to convert its investment before the original date set out in the agreement in case of equity-financing/liquidity events, namely the acquisition of the start-up or a capital increase that brings new investors in. This type of clauses is also often used in convertible notes. Some clauses, on the contrary, cannot be transferred into a SFP. That is the case of the clauses that regard the payback in relation to dissolution events such as: (i) the voluntary suspension of the business activity of the company; (ii) the transfer of the company’s assets to benefit the creditors or (iii) the company’s winding-up process both voluntary and not. According to Italian law, the winding-up due to a total loss of equity implies the possibility to use the reserve destined to SFPs with the consequent loss of the money invested by the SFP holders. Hence the common practice – still debated among scholars – that sees the possibility to use the reserves created upon issuance of the SFPs subordinated to the complete depletion of the other reserves, legal reserve fund included.
Eventually, these practices have taken hold over the last few years since they are meant to provide the investors with more and more flexibility when dealing with financial/investment instruments as those described above. They represent in fact an opportunity for both start-ups, that can obtain capital on the short period, and investors, who can grade their entrepreneurial risk allocating their investment as a debt or not – depending on the chosen instruments – with a view to a conversion to equity that will eventually depend on several factors, not least the company’s business metrics and economical standing.
In conclusion, the dynamism of this sector and the recent intervention of the Italian legislator show that there is plenty of room for growth in the Italian start-up ecosystem.
The author of this post is Milena Prisco.
Come per tutti i contratti di durata, anche per le società a responsabilità limitata (s.r.l.) la legge italiana prevede la possibilità per il socio di recedere.
L’articolo 2473 del codice civile riconosce al socio il diritto di recedere, oltre che nei casi espressamente previsti nell’atto costitutivo, anche quando lo stesso non abbia consentito al cambiamento dell’oggetto sociale o del tipo di società, alla sua fusione o scissione, alla revoca dello stato di liquidazione, al trasferimento della sede all’estero, alla eliminazione di una o più cause di recesso previste dall’atto costitutivo e al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o dei diritti particolari attribuiti al socio ai sensi dell’art. 2468 c.c.
In aggiunta alle ipotesi sopra elencate, il diritto di recesso può essere altresì esercitato quando:
- l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità della quota o subordini il suo trasferimento al mero gradimento degli organi sociali (art. 2469 codice civile);
- sia deliberato l’aumento di capitale sociale con emissione di nuove quote in favore di terzi (art. 2481 bis codice civile);
- vengano introdotte, siano soppresse o modificate in maniera importante eventuali clausole compromissorie contenute nell’atto costitutivo (art. 36 D.Lg. 5/2003);
- la società capogruppo sia stata condannata ai sensi dell’art. 2497 quater codice civile.
Oltre alle ipotesi appena elencate, resta comunque sempre valida la regola generale, cristallizzata nella disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 2473 del codice civile, per cui il socio può sempre recedere, dando un preavviso di 180 giorni (o più, se diversamente disposto dall’atto costitutivo), quando la società sia stabilita a tempo indeterminato.
A lungo si è discusso, e tuttora si continua a discutere, della possibilità per il socio di ricorrere a tale ipotesi di recesso ad nutum quando la società abbia un termine ben determinato, ma comunque eccedente la normale durata della vita umana.
Sulla questione la giurisprudenza non ha mancato di sottolineare come una durata della società superiore a quella media della vita umana non possa che comportare l’applicazione della disciplina prevista per le società contratte a tempo indeterminato.
La Cassazione, con la pronuncia n. 9662 del 22 aprile 2013, ha, in particolare, riconosciuto l’assimilabilità di una società costituita con durata fino al 2100 ad una società con durata illimitata, precisando che, in presenza di un termine fissato in epoca così lontana nel tempo, tanto da superare la prospettiva di vita della persona fisica e di operatività di un soggetto collettivo, debbano trovare spazio le ragioni che hanno portato il legislatore, che ha sempre guardato con sfavore ai vincoli perpetui, a prevedere il recesso ad nutum per le società contratte a tempo indeterminato.
La previsione di un termine di durata del soggetto collettivo ha, secondo i giudici di legittimità, la funzione di stabilire se l’aspettativa di vita dell’ente sia congrua rispetto al progetto che con esso si intende perseguire.
La mancata previsione di un termine di durata viene, perciò, ricollegata all’intrinseca perpetuità del progetto imprenditoriale o, in alternativa, alla difficoltà di stabilire a priori il tempo necessario per giungere al conseguimento dell’oggetto sociale.
Ne consegue, pertanto, che fissare un termine per la durata della società in un momento eccessivamente lontano nel tempo, potrebbe impedire di ricostruire quale sia stata l’effettiva volontà delle parti del contratto sociale nella scelta tra società contratta a tempo determinato e società contratta a tempo indeterminato.
Non potrebbe, quindi, escludersi che l’indicazione di una durata spropositata rispetto alla vita dei soci o rispetto all’oggetto sociale che s’intende perseguire abbia, in realtà, un intento elusivo degli effetti che si produrrebbero con una dichiarazione esplicita di durata indeterminata, che potrebbe essere corretto solo con un intervento interpretativo che garantisca al socio le tutele previste dall’ordinamento con riferimento alle società con durata illimitata.
La linea portata avanti dalla Cassazione è stata di recente seguita anche dalla giurisprudenza di merito.
In particolare, le sezioni specializzate in materia di impresa del Tribunale di Roma (sentenza del 22 ottobre 2015) e del Tribunale di Torino (pronuncia del 5 maggio 2017), hanno riconosciuto il diritto di recesso con preavviso con riferimento a società con termine al 2100, considerando una simile durata sostanzialmente illimitata.
Nello specifico, il collegio piemontese ha fatto interamente proprie le argomentazioni della Corte di Cassazione, applicando il principio secondo cui devono considerarsi costituite a tempo indeterminato, non solo le s.r.l. con durata eccedente la normale vita umana, ma anche le s.r.l. che siano costituite per un termine particolarmente lungo, tale per cui debba ritenersi superato l’orizzonte temporale ragionevolmente ricollegabile al raggiungimento dello scopo della società.
L’orientamento giurisprudenziale che va, quindi, affermandosi impone agli operatori del diritto di prestare particolare attenzione all’elemento della durata temporale delle società a responsabilità limitata, onde evitare un’applicazione più ampia e generalizzata, rispetto a quanto desiderato, delle tutele riconosciute ai soci di s.r.l. contratte a tempo indeterminato.
L’autore di questo articolo è Giovanni Izzo.